Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17261 del 13/07/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 13/07/2017, (ud. 16/05/2017, dep.13/07/2017),  n. 17261

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 25433/2010 R.G. proposto da:

Malinverno Metalli S.r.l., rappresentata e difesa dall’Avv. Prof.

Gianfranco Gaffuri e dall’Avv. Gabriele Pafundi, con domicilio

eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, viale Giulio

Cesare, 14;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, Via dei

Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Lombardia, n. 101/49/10 depositata il 2 luglio 2010.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 16 maggio

2017 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.

Fatto

FATTO E DIRITTO

rilevato che la Malinverno Metalli S.r.l. ricorre con nove mezzi, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate (che resiste con controricorso), avverso la sentenza in epigrafe con la quale la C.T.R. della Lombardia ha accolto l’appello dell’Ufficio, ritenendo legittimo l’avviso di accertamento notificato alla contribuente per il recupero a tassazione, a fini Irpeg, Iva e Irap per l’anno 2004, di costi portati da fatture emesse da certa Metalberio s.a.s. che, all’esito di indagini nei confronti di quest’ultima svolte dalla Guardia di Finanza, erano ritenute false e relative ad operazioni oggettivamente inesistenti;

che secondo i giudici d’appello l’atto impositivo era adeguatamente motivato con il richiamo al contenuto di pp.vv.cc. in precedenza notificati alla Malinverno e lo stesso doveva altresì considerarsi legittimamente fondato su dati, portati a conoscenza della contribuente attraverso i suddetti verbali, raccolti all’esito di indagini compiute nei confronti della suddetta Metalberio s.a.s., le quali avevano evidenziato: a) la mancanza di un ambiente per il deposito dei rottami metallici commercializzati e dell’unico mezzo di trasporto, del quale peraltro i soci non avevano neppure saputo indicare l’ubicazione; b) l’inadeguatezza, comunque, di tale mezzo, dichiaratamente utilizzato per trasporto di quantità costantemente superiori rispetto alla sua portata massima; c) l’inverosimiglianza del numero di trasporti effettuati in un solo giorno; d) l’esistenza di documenti di trasporto e correlate fatture recanti stesso numero e data nei confronti di clienti diversi;

che per contro – hanno osservato i giudici a quibus – le prove offerte dalla contribuente hanno “natura puramente contabile e cartacea”, sono “riferite ad una parte isolata dal contesto della intera gestione della Malinverno” e, per quanto formalmente corretti, “rappresentano meri elementi indiziari la cui presenza deve essere valutata nel contesto di tutte le ulteriori risultanze” e sono pertanto insufficienti a contrastare la presunzione fondata sugli elementi raccolti dall’Ufficio, posto che, a tal fine, la società avrebbe piuttosto dovuto “rappresentare la movimentazione dei rottami metallici operata nel corso dell’anno dalla Malinverno (rimanenze iniziali, acquisizioni, vendite, rimanenze finali) con la indicazione delle provenienze e delle destinazioni”;

che la sentenza impugnata ha, infine, ritenuto “ininfluente il segnalato esito del parallelo procedimento penale” (nei confronti di altro soggetto indagato in relazione ad analoghi rapporti intrattenuti con la Metalberio), “attesa l’autonomia del giudizio tributario”;

che la ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 1;

considerato che, con il primo motivo di ricorso, la società contribuente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 97 Cost., comma 1 e L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 1 e art. 12, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. ritenuto legittimo un accertamento fondato sugli esiti di indagini condotte nei confronti di terzo, alle quali essa contribuente era rimasta totalmente estranea, così violando il diritto al contraddittorio, dal momento che la Guardia di Finanza si era limitata a chiedere l’esibizione delle fatture pervenute dalla Metalberio e a fornirne un’elencazione;

che, con il secondo motivo, la ricorrente deduce, in alternativa al motivo che precede, violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, lamentando omessa pronuncia sulla censura, ribadita in appello, di “violazione dei principi di collaborazione, trasparenza, leale contraddittorio e rispetto delle esigenze difensive”, dedotta in relazione all’utilizzo, da parte dell’Ufficio, degli esiti dell’attività istruttoria compiuta nei riguardi della Metalberio cui essa era rimasta estranea: rileva che al riguardo la C.T.R. si è limitata a non pertinenti osservazioni, circa la legittimità della motivazione per relationem e l’indicazione, nel verbale ad essa notificato, delle risultanze delle indagini svolte nei confronti della Metalberio;

che con il terzo motivo la ricorrente prospetta, in relazione alla medesima doglianza, in alternativa ai motivi che precedono, anche vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;

che con il quarto la società contribuente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. (nel testo vigente ratione temporis), ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. ritenuto non dimostrata la veridicità delle forniture di merce provenienti dalla Metalberio e inidonei allo scopo i documenti prodotti, poichè “di natura puramente contabile e cartacea”, benchè formalmente corretti e come tali anche ritenuti dalla Guardia di Finanza, che aveva anche omesso di compiere le pur sollecitate verifiche dei movimenti e delle giacenze di magazzino, così dimostrando di non avere alcuna contestazione da muovere alla veridicità delle relative indicazioni contenute nei documenti esibiti;

che con il quinto motivo la ricorrente, in alternativa, deduce, con riferimento alla medesima doglianza, anche “motivazione contraddittoria su un punto decisivo per il giudizio”, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la C.T.R. ritenuto privo di efficacia probatoria il prospetto analitico da essa esibito, pur dando atto che la contabilità aziendale era stata considerata ineccepibile dall’amministrazione finanziaria;

considerato ancora che con il sesto motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere i giudici d’appello addebitato ad essa contribuente di non aver soddisfatto l’onere di provare la fornitura delle merci cedute dalla Metalberio, nonostante l’assenza di controlli ufficiali da parte dell’Ufficio relativi alle giacenze e la riconosciuta correttezza della gestione economica, le quali avrebbero dovuto condurre ad attribuire all’Amministrazione l’onere di provare l’inattendibilità di quelle rappresentazioni contabili e delle risultanze di magazzino ivi esposte;

che con il settimo motivo la ricorrente deduce ancora violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. disatteso la documentazione che attestava la valutazione di irrilevanza penale degli stessi elementi posti a fondamento dell’azione impositiva, non già per effetto di un’analisi critica del relativo contenuto, ma semplicemente in ragione della rilevata autonomia e non interferenza dei due giudizi, così dunque omettendo di valutare quello che avrebbe pur sempre dovuto considerarsi quale possibile fonte di elementi di prova;

che con l’ottavo motivo la ricorrente deduce, in alternativa, con riferimento alla medesima doglianza, anche vizio di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia;

che con il nono motivo la ricorrente deduce infine violazione e falsa applicazione del DP.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. omesso di rilevare che – stante l’accertata assenza di contestazioni di sorta in ordine alla documentazione esibita relativa ai rapporti commerciali intrattenuti – avrebbe dovuto considerarsi preclusa, a norma della disposizione richiamata (che richiede che “l’inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione risulti in modo certo e diretto e non in via presuntiva”), la rettifica del maggior imponibile Iva;

ritenuto che è infondato il primo motivo di ricorso;

che, invero, secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, nella ipotesi di fatture che l’Amministrazione finanziaria ritenga relative ad operazioni (oggettivamente o soggettivamente) inesistenti, la prova, il cui onere incombe all’Amministrazione, che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, in realtà non è mai stata posta in essere o è stata posta in essere tra altri soggetti, può ritenersi raggiunta se l’Amministrazione finanziaria fornisca validi elementi – alla stregua del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d) e art. 40 e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 2 – che possono anche assumere la consistenza di attendibili indizi (idonei ad integrare una prova logica: “presunzione semplice” ex art. 2727 c.c.), per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni (anche solo parzialmente) fittizie, ovvero fornisca elementi probatori che – ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. c) e dell’art. 54, comma 3, dei decreti indicati – dimostrino “in modo certo e diretto” la “inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione”, spettando in tal caso al contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate (cfr. Cass. 18/12/2014, n. 26854; Cass. 07/02/2008, n. 2847; Cass. 19/10/2007, n. 21953; Cass. 11/06/2008, n. 15395);

che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. c) e il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 3, specificano al riguardo che la prova di cui è onerata l’Amministrazione può essere data anche attraverso “i verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti” (cfr. Cass. n. 26854 del 2014), senza che per l’utilizzabilità dei medesimi sia richiesta l’instaurazione di un previo contraddittorio nei confronti del soggetto cui è riferita la rettifica basata sui dati così raccolti, non potendosi un tale onere desumere nemmeno, in via interpretativa, sul piano sistematico, non conoscendo l’ordinamento tributario un generalizzato onere di procedere a preventivo contraddittorio endoprocedimentale, tantomeno al momento della mera raccolta degli elementi di prova, quale condizione della successiva utilizzabilità degli stessi (salva, s’intende, la valutazione in contraddittorio degli stessi e il diritto alla controprova in sede contenziosa);

che un siffatto penetrante limite all’azione accertativa non può desumersi neppure, con riferimento all’Iva, dai principi affermati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, come noto di diretta applicazione nella relativa materia, i quali infatti richiedono bensì il rispetto del contraddittorio nell’ambito del procedimento amministrativo, non escluso quello tributario, quale esplicazione del diritto alla difesa, ogniqualvolta l’Amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo, sicchè il destinatario di provvedimento teso ad incidere sensibilmente sui suoi interessi deve, pena la caducazione del provvedimento medesimo, essere messo preventivamente in condizione di manifestare utilmente il suo punto di vista in ordine agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la propria decisione (cfr., in particolare, la decisione 18.12.08, in causa C-349/07, Sopropè, punti 36 e 37), ma non richiedono anche che un tale contraddittorio venga instaurato prim’ancora e al fine di raccogliere dati ed elementi da terzi, nel corso di ispezioni nei confronti di questi condotte, essendo stato anzi specificamente puntualizzato che “l’Amministrazione, quando procede alla raccolta d’informazioni, non è tenuta ad informarne il contribuente, nè a conoscere il suo punto di vista” (Corte giust. 22/10/2013, in causa C-276/12, Jirl Sabou: punto 41; v. anche, in argomento, Cass. Sez. U. 08/12/2015, n. 24283);

che rimane assorbito dalle considerazioni che precedono l’esame anche del secondo e del terzo motivo di ricorso, i quali investono in sostanza la medesima questione, sia pure sotto diversi e formali profili, potendosi comunque, ad abundantiam, rilevare la palese infondatezza del secondo motivo e l’inammissibilità del terzo;

che, invero, quanto alla censura di omessa pronuncia, la sua palese infondatezza discende dall’essere, nell’accoglimento del gravame proposto dall’Ufficio, evidentemente implicito anche il rigetto, da parte dei giudici a quibus, della eccezione, sul punto riproposta dalla appellata, di nullità dell’atto impositivo per l’asserita violazione dei “principi di collaborazione, trasparenza, leale contraddittorio e rispetto delle esigenze difensive”;

che, quanto poi al terzo motivo, è appena il caso di rammentare che, secondo pacifico indirizzo, la censura di vizio motivazionale non può investire questioni di mero diritto (quali, nella specie, quelle, di cui sopra si è detto, delle quali, con il motivo in esame, la ricorrente lamenta inadeguata valutazione): come noto, infatti, il giudice di legittimità è investito, a norma dell’art. 384 c.p.c., del potere di integrare e correggere la motivazione della sentenza impugnata, con la conseguenza che, se chiamato a valutare la conformità a diritto della decisione impugnata, la sua valutazione ben può prescindere dalla motivazione che, in punto di diritto, sia contenuta nella sentenza impugnata, restando del tutto irrilevante anche l’eventuale mancanza di questa, quando il giudice del merito sia, comunque, pervenuto ad una esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame (v. ex aliis Cass. 08/0512012, n. 7880; Cass. 08/08/2005, n. 16640; Cass. 17/11/1999, n. 12753), come nel caso di specie deve certamente ritenersi, alla stregua di quanto sopra evidenziato;

considerato che sono altresì infondati il quarto, il quinto e il sesto motivo di ricorso, congiuntamente esaminabili in quanto intimamente connessi;

che, in tema, è sufficiente rammentare che, secondo orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità, l’Amministrazione finanziaria, che contesti l’inesistenza delle operazioni poste a giustificazione di costi portati in deduzione dall’imponibile, deve provare, anche a mezzo di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, gli elementi di fatto attinenti al cedente (la sua natura di “cartiera”, l’inesistenza di una struttura autonoma operativa, il mancato pagamento dell’I.V.A.) e, in caso di operazioni solo soggettivamente inesistenti, la connivenza da parte del cessionario, indicando gli elementi oggettivi che, tenuto conto delle concrete circostanze, avrebbero dovuto indurre un normale operatore a sospettare dell’irregolarità delle operazioni, mentre spetta al contribuente la prova contraria di aver concluso realmente l’operazione con il cedente o di essersi trovato nella situazione di oggettiva impossibilità, nonostante l’impiego della dovuta diligenza, di abbandonare lo stato d’ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni, non essendo a tal fine sufficiente la mera regolarità della documentazione contabile e la dimostrazione che la merce sia stata consegnata o il corrispettivo effettivamente pagato, trattandosi di circostanze non concludenti (cfr. ex aliis Cass. 14/09/2016, n. 18118; Cass. 09/09/2016, n. 17818; Cass. 05/12/2014, n. 25778);

che in tale contesto si è anche ripetutamente precisato che grava sul contribuente l’onere di provare che i componenti positivi, che hanno concorso nell’accertamento alla formazione del reddito, siano anch’essi fittizi perchè “direttamente afferenti” a spese o ad altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati (Cass. n. 25967 del 2013, 21189 e 27040 del 2014; n. 2064 del 2016);

che, perfettamente in linea con tali criteri di riparto dell’onere probatorio, nel caso di specie la C.T.R. ha, da un lato, con congrua motivazione, sopra sintetizzata, intrinsecamente coerente e scevra da lacune o contraddizioni logiche, dato atto dell’esistenza di una serie di indizi idonei a giustificare il convincimento della inesistenza, in capo alla società cedente, di una struttura autonoma operativa e, dunque, della sua natura di mera società c.d. “cartiera”, dall’altro, giudicato inconcludenti le prove offerte dalla contribuente al fine di dimostrare l’effettività delle operazioni, in quanto “di natura puramente contabile e cartacea”, valutazione questa che ovviamente implica, del tutto correttamente alla luce dei principi sopra esposti, anche quella di irrilevanza della piena regolarità sul piano formale della documentazione medesima e della mancanza di contestazioni sul punto da parte dell’Ufficio;

considerato che deve, tuttavia, a questo punto, darsi atto dell’incidenza innovativa – nel quadro ermeneutico sopra succintamente esposto, ma ai soli fini dell’accertamento delle imposte sui redditi (e, conseguentemente, anche dell’Irap, in virtù del richiamo operato dal D.P.R. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 25, alle disposizioni per l’accertamento e la riscossione dettare in materia di imposte sui redditi), con esclusione di quello relativo all’Iva – dello ius superveniens costituito dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 2 (convertito dalla L. 26 aprile 2012, n. 44), a mente del quale “ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi. In tal caso si applica la sanzione amministrativa dal 25 al 50 per cento dell’ammontare delle spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati indicati nella dichiarazione dei redditi. In nessun caso si applicano le disposizioni di cui al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 12 e la sanzione è riducibile esclusivamente ai sensi del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 16, comma 3”;

che tale norma introduce invero uno ius superveniens suscettibile di diretta applicazione, d’ufficio, nella presente sede atteso che, da un lato, essa è intervenuta in epoca successiva alla proposizione del ricorso per cassazione e, dall’altro, deve ritenersi sussistente anche l’altra condizione per l’applicabilità d’ufficio dello ius superveniens nel giudizio di legittimità, costituita dalla attinenza, anche indiretta, della disciplina sopravvenuta alle questioni trattate nel ricorso (Cass. nn. 4070 del 2004, 10547 del 2006, 16642 del 2012);

che a tale ultimo riguardo occorre infatti tener presente che, secondo quanto espressamente disposto dal successivo comma 3, in via transitoria, “le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano, in luogo di quanto disposto della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove più favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al citato comma 4-bis previgente non si siano resi definitivi (…)”;

che il legislatore, quindi, da un lato, in attuazione del principio costituzionale della capacità contributiva, ha disposto che, ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi, i componenti positivi di reddito direttamente afferenti ai costi per operazioni oggettivamente inesistenti, anche se imputati a conto economico e dichiarati dal contribuente, non sono considerati imponibili entro i limiti dell’ammontare dei correlati componenti negativi per operazioni inesistenti; dall’altro, è intervenuto, in relazione all’antigiuridicità della fattispecie, sotto il profilo sanzionatorio, sia introducendo una sanzione dal 25 al 50 per cento dei componenti negativi illecitamente dedotti a carico dell’utilizzatore di fatture oggettivamente inesistenti commisurata, quindi, all’importo dei costi esposti sui documenti contabili falsi, sia escludendo, in relazione alla sanzione prevista, l’applicabilità degli istituti del concorso e della continuazione;

che la disciplina sopravvenuta, in definitiva, concerne specificamente, innovandolo al fine di renderlo conforme al principio di capacità contributiva, il regime fiscale da applicare in ipotesi di accertamento delle imposte sui redditi di costi ripresi a tassazione in quanto relativi ad operazioni oggettivamente fittizie;

ritenuto che sono poi inammissibili, in quanto generici, e comunque infondati, il settimo e l’ottavo motivo di ricorso, anch’essi congiuntamente esaminabili per la loro intima connessione;

che, invero, al di là della indubbia assenza – esplicitamente ammessa dalla stessa ricorrente – di alcun effetto vincolante in questa sede attribuibile al menzionato provvedimento penale (decreto di archiviazione emesso dal G.I.P. del tribunale di Milano nel procedimento iscritto a carico di tale S.M., in relazione ad indagini condotte nei riguardi della Metalberio), la ricorrente omette di specificare quali elementi di fatto o argomenti logici sarebbero da esso desumibili idonei a condurre a una diversa decisione della controversia tributaria in esame; donde anche l’insussistenza del denunciato error in procedendo essendo appena il caso di rammentare, al riguardo, che, secondo costante insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, la conformità della sentenza al modello di cui all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e l’osservanza degli artt. 115 e 116 c.p.c., non richiedono che il giudice del merito dia conto di tutte le prove dedotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettate dalle parti, essendo sufficiente, al fine di soddisfare l’esigenza di un’adeguata motivazione, che il raggiunto convincimento risulti da un riferimento logico e coerente a quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie vagliate nel loro complesso, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo, in modo da evidenziare l’iter seguito per pervenire alle assunte conclusioni, disattendendo anche per implicito quelle logicamente incompatibili con la decisione adottata (v. ex multis Cass. 12/04/2011, n. 8294; Cass. 28/10/2009, n. 22801);

ritenuto che è infine infondato l’ultimo motivo di ricorso postulando esso un’interpretazione della disposizione richiamata (a mente della quale “l’Ufficio può… procedere alla rettifica indipendentemente dalla previa ispezione della contabilità del contribuente qualora l’esistenza di operazioni imponibili per ammontare superiore a quello indicato nella dichiarazione, o l’inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione, risulti in modo certo e diretto, e non in via presuntiva, da verbali, questionari e fatture di cui ai numeri 2), 3) e 4) dell’art. 51, dagli elenchi allegati alle dichiarazioni di altri contribuenti o da verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti, nonchè’ da altri atti e documenti in suo possesso”) secondo la quale da essa dovrebbe desumersi una preclusione al recupero a tassazione, anche a fini Iva, di fatture passive relative a operazioni oggettivamente inesistenti, in presenza di documentazione contabile regolare: interpretazione palesemente erronea, che non trova alcun fondamento nella formulazione letterale nè nella ratio della norma, la quale pone soltanto un limite all’utilizzo di presunzioni semplici a fondamento della rettifica delle dichiarazioni Iva ma non esclude affatto che prova idonea a fondare un tale accertamento possa sussistere in presenza di contabilità formalmente regolare, circostanza dalla quale la norma espressamente anzi dispone possa prescindersi (“indipendentemente dalla previa ispezione della contabilità”); nè la previsione secondo cui “l’inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione” deve risultare “in modo certo e diretto” può assumere rilievo limitativo nel caso di specie, ove l’accertamento della indebita detrazione delle fatture discende, quale naturale e diretta conseguenza, dall’accertamento della inesistenza oggettiva delle operazioni cui esse si riferiscono: accertamento quest’ultimo che, come sopra detto, secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, può anche fondarsi su elementi presuntivi;

ritenuto che, in conclusione, vanno rigettati il primo e il nono motivo di ricorso; dichiarati assorbiti il secondo e il terzo; inammissibili il settimo e l’ottavo;

che, infine, pronunciando congiuntamente sui motivi quarto, quinto e sesto, la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione ad essi – nei limiti in cui la sentenza medesima pronuncia sulla legittimità della pretesa di maggiori Irpeg e Irap, senza ovviamente tener conto del suindicato ius superveniens – e la causa rinviata ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Lombardia, la quale procederà a nuovo esame della controversia, uniformandosi ai principi sopra enunciati e compiendo i relativi accertamenti di fatto, oltre a provvedere in ordine alle spese anche del presente giudizio di cassazione.

PQM

 

rigetta il primo e il nono motivo di ricorso; dichiara assorbiti il secondo e il terzo; dichiara inammissibili il settimo e l’ottavo; pronunciando sui motivi quarto, quinto e sesto, cassa la sentenza; rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 16 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2017

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