Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17260 del 12/08/2011

Cassazione civile sez. lav., 12/08/2011, (ud. 16/06/2011, dep. 12/08/2011), n.17260

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – rel. Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALINA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’avvocato CARRIERI MARIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

L.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RENO 21,

presso lo studio dell’avvocato RIZZO ROBERTO, che lo rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2483/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 24/07/2006 R.G.N. 1856/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/06/2011 dal Consigliere Dott. GIULIO MAISANO;

udito l’Avvocato ANNA BUTTAFOCO per delega CARRIERI MARIO;

udito l’Avvocato RIZZO ROBERTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 17 marzo 2006 la Corte d’Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Roma del 15 marzo 2004 che aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso tra le Poste Italiane s.p.a. e L.D. dal 13 dicembre 1999 al 29 febbraio 2000 con la condanna della stessa società Poste Italiane al ripristino del rapporto di lavoro con il L., ed al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data dell’illegittimo licenziamento, ha condannato la società Poste Italiane al pagamento delle stesse retribuzioni dalla data della messa in mora 1 luglio 2002, anzichè dalla data del licenziamento, confermando nel resto l’impugnata sentenza. La Corte d’Appello territoriale ha motivato tale decisione, in relazione alla conferma della sentenza impugnata, ritenendo non risolto il rapporto per mutuo consenso desumibile dalla mera inerzia dell’interessato per un determinato periodo di tempo; nel merito la stessa Corte ha considerato che il contratto in questione è stato stipulato dopo lo spirare del termine massimo di vigenza della contrattazione collettiva che autorizzava le ipotesi ulteriori di apposizione del termine ai contratti con le Poste Italiane ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la società Poste Italiane articolato su tre motivi. Resiste con controricorso il L. chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità del ricorso o, comunque, il suo rigetto.

Entrambe le parti hanno presentato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto e, in particolare, dell’art. 1372 c.c., comma 1, artt. 1175, 1375, 2697, 1427, 1431 cod. civ. e art. 100 cod. proc. civ., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia, insistendo sulla eccezione di inammissibilità della domanda introduttiva della lavoratrice, essendosi il rapporto risolto per mutuo consenso dovuto al disinteresse manifestato dalla stessa dopo la cessazione del rapporto.

Con secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione di norme dì diritto in relazione all’art. 1362 c.c. e segg., e insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla efficacia dell’accordo del 25 settembre 1997 integrativo dell’art. 8 del CCNL del 1994. In particolare si assume che detto accordo non conterrebbe alcuna limitazione temporale; che gli accordi ed i verbali intervenuti tra le parti successivamente al 25 settembre 1997 e sino al 18 gennaio 2001, non avevano natura negoziale ma meramente ricognitiva del fenomeno della ristrutturazione e riorganizzazione aziendale in atto e della necessità di stipulare ulteriori contratti a termine; che i termini individuati negli accordi successivi a quello del 25 settembre 1997 non si riferiscono alla scadenza dell’autorizzazione a stipulare contratti a termine ma alla durata delle assunzioni, una volta accertata la persistenza delle esigenze riorganizzative di cui all’accordo; che la posizione giuridica azionata nel giudizio potrebbe definirsi quale diritto quesito e quindi indisponibile da parte degli agenti contrattuali anche prima dell’accertamento giudiziale della sua esistenza.

Con il terzo motivo si lamenta che è stato disposto il pagamento delle retribuzioni a decorrere dalla data della messa in mora anzichè dell’effettiva ripresa della attività lavorativa, e non è stato svolto alcun accertamento riguardo all’aliunde perceptum.

Il primo motivo è infondato. Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative -una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto” (v.

Cass. 10 novembre 2008 n. 26935, Cass. 28 settembre 2007 n. 20390, Cass. 17 dicembre 2004 n. 23554, Cass. 11 dicembre 2001 n. 15621).

Tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevando, inoltre che, come pure è stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070).

Anche il secondo motivo è infondato. Osserva il Collegio che la Corte di merito ha, tra l’altro, attribuito rilievo decisivo alla considerazione che l’assunzione a termine, essendo avvenuta oltre la delimitazione temporale effettuata dalle parti sociali con gli accordi integrativi di quello in data 25 settembre 1997, introduttivo della nuova ipotesi di contratto a termine di cui si discute, non è da ritenere legittima per la scadenza temporale dell’accordo 25 settembre 1997 (31 gennaio 1998 prorogato al 30 aprile 1998). Tale considerazione, idonea a sostenere da sola la impugnata decisione, relativamente alla illegittimità del contratto de quo (dell’1 marzo 2000), resiste alla censura della società ricorrente (di violazione dell’art. 1362 c.c. e segg., in relazione agli accordi collettivi intercorsi), rivolta, in sostanza, alla affermazione della natura meramente ricognitiva degli accordi attuativi citati. Con numerose sentenze questa Corte Suprema (cfr. ex plurimis, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378), decidendo su fattispecie sostanzialmente identiche a quella in esame, ha confermato le sentenze dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto a contratti stipulati, in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997 sopra richiamato (esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione..), dopo il 30 aprile 1998. Richiamato quanto già affermato circa la configurabilità, in relazione alla L. n. 56 del 1987, art. 23, di una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati nell’individuazione di nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, e premesso altresì che in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998), della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che, per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione, l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo determinato; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo.

Questa Corte ha osservato in particolare che la suddetta interpretazione degli accordi attuativi non viola alcun canone ermeneutico atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453).

Inoltre è stato rilevato che tale interpretazione è rispettosa del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi de quibus (nel senso che con essi erano stati stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nel primo accordo sindacale del 25 settembre 1997); diversamente opinando, ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano “senza senso” (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866). Infine, questa Corte ha ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione è comunque conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141). In base a tale orientamento ed al valore dei relativi precedenti, pur riguardanti la interpretazione di norme collettive (cfr. Cass. 29-7- 2005 n. 15969, Cass. 21-3-2007 n. 6703), così respingendosi la censura in esame, di cui al terzo motivo, va confermata la nullità del termine apposto al contratto in esame (successivo al 30-4-1998), restando assorbite le ulteriori censure (contenute nel primo e nel secondo motivo), rivolte in sostanza alle ulteriori argomentazioni svolte nell’impugnata sentenza sotto altri profili.

Il terzo motivo è inammissibile. La prima censura risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica da parte della Corte territoriale sul punto, ma non indica se e in che modo il punto stesso (per nulla trattato nell’impugnata sentenza) fosse stato oggetto di specifico motivo di appello da parte della società (cfr.

Cass. 15-2-2003 n. 2331, Cass. 10-7-2001 n. 9336). Peraltro la ricorrente neppure riporta il contenuto della comunicazione (dell’istanza per il tentativo obbligatorio di conciliazione, cfr.

Cass. Cass. 28-7-2005 n. 15900, Cass. 30-8-2006 n. 18710) che secondo il suo assunto non avrebbe integrato la messa in mora.

Parimenti, poi, del tutto generica e priva di autosufficienza è la censura relativa all’aliunde perceptum. Anche al riguardo la ricorrente non specifica come e in quali termini abbia allegato davanti ai giudici di merito un aliunde perceptum in relazione al quale è pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della prova, pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato (cfr.

Cass. 16 maggio 2005 n. 10155, Cass. 20 giugno 2006 n. 14131, Cass. 10 agosto 2007 n. 17606, Cass. S.U. 3 febbraio 1998 n. 1099).

Al rigetto del ricorso segue la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in Euro 40,00, oltre ad Euro 2.500,00 per onorario, più spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 16 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 agosto 2011

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