Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17258 del 12/08/2011

Cassazione civile sez. lav., 12/08/2011, (ud. 16/06/2011, dep. 12/08/2011), n.17258

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – rel. Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’Avvocato DI MODICA SERGIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

F.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO

76, presso lo studio dell’avvocato DE VINCENTI ANGELO, rappresentato

e difeso dall’avvocato FERAUDO VINCENZO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 863/2006 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 20/07/2006 R.G.N. 2196/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/06/2011 dal Consigliere Dott. GIULIO MAISANO;

udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega DI MODICA SERGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza dell’8 giugno 2006 la Corte d’Appello di Catanzaro, in riforma della sentenza del Tribunale di Cosenza del 13 maggio 2005, ha dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato in data 8 giugno 1998 fra la Poste Italiane s.p.a. e F.S., ha dichiarato che da tale data è intercorso fra le parti un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ed ha condannato Poste Italiane a ripristinare il rapporto di lavoro fra le parti ed a risarcire i conseguenti danni alla F. nella misura pari alle retribuzioni maturate dal 10 aprile 2003 fino alla riammissione in servizio. La Corte territoriale ha motivato tale sentenza ritenendo infondata l’eccezione sollevata da Poste Italiana relativa alla inammissibilità del ricorso introduttivo proposto dalla F. per asserita risoluzione del rapporto per mutuo consenso desumibile dal decorso del tempo tra la data di cessazione del rapporto e la data di proposizione del ricorso giudiziario, considerando che il mero silenzio protratto per un determinato lasso di tempo non è sufficiente a determinare effetti legali salvo che il datore di lavoro non provi che la sussistenza della volontà certa e chiara delle parti a porre fine al rapporto. Inoltre la Corte d’Appello ha considerato che la possibilità di stipulare contratti a termine per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali, era prevista dall’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994 e dai successivi accordi integrativi del 25 settembre 1997 e 27 aprile 1998, fino al 30 maggio 1998, mentre il contratto in questione è stato stipulato solo successivamente. In ordine al risarcimento del danno la Corte territoriale ha considerato che al lavoratore spettano le retribuzioni maturate dall’epoca in cui ha messo formalmente a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative, e tale momento è stato individuato in quello del tentativo di conciliazione presso la Direzione Provinciale del Lavoro il 10 aprile 2003.

Poste Italiane propone ricorso per cassazione avverso tale sentenza articolandolo in nove motivi.

Resiste con controricorso la F..

Poste Italiane ha presentato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, degli artt. 1175, 1375, 2697, 1427 e 1431 cod. civ., e dell’art. 100 cod. proc. civ. (art. 360 c.p.c., n. 3). In particolare si deduce che il giudice di 2^ grado ha disatteso l’eccezione di inammissibilità dell’avversa domanda fondata sull’intervenuta risoluzione consensuale del contratto attesa la prolungata inerzia assunta dal lavoratore a far valere in giudizio le proprie ragioni, e si censura il ragionamento dalla Corte d’Appello secondo il quale il mero decorso del tempo, in assenza di altri ulteriori elementi, non può assurgere a fatto idoneo a far presumere la rinuncia dell’appellato a far valere la nullità della clausola di apposizione del termine, e si sostiene che il rapporto a tempo determinato, connotato da illegittimità del termine, può, al pari di tutti i contratti, risolversi per mutuo consenso, anche in forza di fatti e comportamenti concludenti, e si deduce che la sentenza di secondo grado sarebbe illegittima nella parte in cui non avrebbe considerato e valutato la prolungata inerzia della ricorrente a far valere le proprie ragioni. Si deduce inoltre, che la sentenza sarebbe illegittima in rapporto all’art. 2697 cod. civ., nella parte in cui i giudici di appello avrebbero posto a carico delle Poste Italiane s.p.a. l’onere di fornire la prova delle circostanze rilevatrici del comportamento concludente del lavoratore.

Con secondo motivo si lamenta contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio. In particolare si afferma la illegittimità della sentenza di 2^ grado adducendo la contraddittorietà della motivazione in ordine alla individuazione di quegli ulteriori elementi rispetto al mero decorso del tempo che possano qualificare la condotta del lavoratore in termini solutori.

Deduce parte ricorrente che i giudici di appello non avrebbero considerato la previsione di cui all’art. 8 CCNL 26 novembre 1994 secondo la quale: “in caso di esigenze eccezionali a tempo indeterminato, nell’arco della vigenza contrattuale, avranno la precedenza quei lavoratori che abbiano prestato servizio con contratto a termine per un periodo complessivo di almeno sei mesi anche non continuativo negli ultimi tre anni”, avendo la corte ritenuto che trattasi di impegno unilateralmente assunto dall’azienda. Deduce la ricorrente che l’inerzia della lavoratrice protrattasi oltre i tre anni collettivamente previsti, dovrebbe qualificarsi come circostanza ulteriore significativa della volontà della stessa alla definitiva cessazione del rapporto di lavoro.

Con terzo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto: artt. 414, 434,112 cod. proc. civ. In particolare la ricorrente lamenta un vizio di ultra petizione in cui sarebbero incorsi i giudici di secondo grado i quali, dichiarando la nullità del termine finale di durata apposto al contratto stipulato per il periodo 8 giugno – 30 settembre 2009 reputando inefficace la previsione collettiva di cui all’art. 8 CCNL 26 novembre 1994, avrebbero travalicato i limiti delle deduzioni e censure formulate dalla F..

Con quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto: della L. n. 56 del 1987, art. 23 dell’art. 8 CCNL 26 novembre 1994, degli accordi integrativi del 25 settembre 1997, 16 gennaio 1998 e 27.04.98 in connessione con l’art. 1362 c.c. e segg.

In particolare la società ricorrente lamenta che la corte d’appello, richiamando gli accordi integrativi sopra indicati, attraverso una loro errata interpretazione, avrebbe sancito che le Poste Italiane potessero effettuare assunzioni a termine solo entro i limiti temporali previsti dalla contrattazione collettiva, e quindi fino al maggio 1998.

Con il quinto motivo si deduce insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo del giudizio. In particolare si lamenta che la sentenza impugnata sarebbe contraddittoriamente motivata nella parte in cui individua un limite temporale alla facoltà di stipula di contratti a termine ai sensi dell’art. 8 CCNL del 26 novembre 1994. Deduce la ricorrente che da un lato viene dichiarata la nullità del termine al contratto sulla base del limite temporale fissato al 31 maggio 1998; dall’altro lato si richiama l’accordo del 2 luglio 1998 che ha previsto la possibilità di apporre il termine fino al 31 dicembre 1998 per le assunzioni effettuate per la sostituzione di lavoratori in ferie.

Con sesto motivo si lamenta omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio. In particolare si censura la genericità di quanto affermato dai giudici di secondo grado nel ritenere la “illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto in questione in quanto in aperta violazione delle disposizioni della L. n. 230 del 1962, unica norma applicabile”.

Con il settimo motivo si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 2, lett. b, art. 8 CCNL 26 novembre 1994, L. 56 del 1987, art. 23 art. 1362 cod. civ. In particolare parte ricorrente assume che, diversamente da quanto ritenuto dai giudici di appello, la previsione contrattuale posta a fondamento dell’assunzione, è da reputarsi legittima in quanto costituente estrinsecazione dell’ampio e incondizionato potere conferito dalla L. n. 56 del 1987, art. 23 alle parti collettive.

Sostiene la ricorrente che l’ipotesi di legittima apposizione del termine individuata dalla contrattazione collettiva, in forza della L. 56 del 1987, art. 23 sarebbe ipotesi autonoma e diversa da quella contemplata in via generale dalla legge e, pertanto, verrebbe sottratta alla condizioni di legittima apposizione del termine prevista dalla disciplina legislativa. Si assume inoltre che la legittima apposizione del termine prevista dall’art. 8 CCNL 26 novembre 1994 relativa alla “necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno-settembre” sarebbe ipotesi diversa rispetto a quella prevista dalla L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 2, lett. b e, pertanto, non richiederebbe, quale requisito di legittimità, l’indicazione del nome del soggetto sostituito.

Con ottavo motivo si adduce la violazione ed erronea applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1218, 1219, 1223, 2094,2099,2697 cod. civ. Deduce la ricorrente che avrebbe errato il giudice di secondo grado nel riconoscere alla F. il diritto dell’obbligo retributivo a carico del datore di lavoro a decorrere dalla data di esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione. Ritiene la società Poste Italiane che tale obbligo dovrebbe collegarsi alla “effettiva ripresa del servizio” da parte del lavoratore. Si assume inoltre il vizio della sentenza impugnata per violazione dell’art. 1223 cod. civ. nella parte in cui i giudici di secondo grado non hanno accertato se, e in che misura, la lavoratrice avesse svolto ulteriori e successive attività lavorative in epoca successiva alla scadenza del termine.

Con nono motivo si lamenta contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. In particolare si deduce la contraddittorietà della motivazione nella parte in cui da un lato afferma il principio secondo il quale il pagamento delle retribuzioni può decorrere solo dalla data di messa in mora della società, e dall’altro lato ha disposto la corresponsione di dette retribuzioni dalla data dell’esperimento del tentativo di conciliazione che, a giudizio della ricorrente, non dimostrerebbe alcuna offerta della prestazione.

Il primo motivo è infondato. La decisione della Corte d’Appello sul punto dell’asserito mutuo consenso alla risoluzione del rapporto risulta conforme al principio più volte affermato da questa Corte e che va qui nuovamente enunciato, secondo cui “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto” (v. Cass. 10 novembre 2008 n. 26935, Cass. 28 settembre 2007 n. 20390, Cass. 17 dicembre 2004 n. 23554, Cass. 11 dicembre 2001 n. 15621). Inoltre, come pure è stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v.

Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070). Erronea in diritto è quindi la tesi della società ricorrente in ordine al regime dell’onere probatorio, e d’altra parte l’accertamento di fatto relativo, operato dalla Corte di merito, risulta congruamente motivato.

Il secondo motivo è generico e incongruente, in quanto il diritto di precedenza all’assunzione previsto dall’art. 8 CCNL 26 novembre 1994 per i lavoratori che hanno prestato servizio con contratto a termine, non rileva ai fini della valutazione del comportamento del lavoratore, trattandosi, fra l’altro, di obbligo contrattuale assunto dal datore di lavoro.

Il terzo motivo è pure infondato. Questa Corte ha più volte affermato che l’interpretazione della domanda giudiziale, consistendo in un giudizio di fatto, è incensurabile in sede di legittimità (da ultimo Cass. 11 marzo 2011 n. 5876), per cui la ricorrente non può lamentarsi perchè il giudice di merito, al fine di valutare la domanda della originaria ricorrente volta ad accertare l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro con le Poste Italiane, abbia considerato, quale ragione di nullità, la circostanza della prevista fissazione di un termine ultimo fino al quale sarebbe stata possibile la stipula di contratti a tempo determinato.

Il quarto, quinto, sesto e settimo motivo possono essere trattati congiuntamente riguardando tutti il termine ultimo previsto per la possibilità di stipula di contratti a termine e considerato al fine di determinare l’illegittimità del termine apposto ad un contratto stipulato successivamente.

Osserva il Collegio che la Corte di merito ha, tra l’altro, attribuito rilievo decisivo alla considerazione che l’assunzione a termine, essendo avvenuta oltre la delimitazione temporale effettuata dalle parti sociali con gli accordi integrativi di quello in data 25- 9-1997, introduttivo della nuova ipotesi di contratto a termine di cui si discute, non è da ritenere legittima per la scadenza temporale dell’accordo 25-9- 1997″… (“31 gennaio 1998 prorogato al 30 aprile 1998″). Tale considerazione, idonea a sostenere da sola la impugnata decisione, relativamente alla illegittimità del contratto de quo (dell’8 giugno 2008), resiste alla censura della società ricorrente (di violazione dell’art. 1362 c.c. e segg., in relazione agli accordi collettivi intercorsi), rivolta, in sostanza, alla affermazione della natura meramente ricognitiva degli accordi attuativi citati. Con numerose sentenze questa Corte Suprema (cfr. ex plurimis, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378), decidendo su fattispecie sostanzialmente identiche a quella in esame, ha confermato le sentenze dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto a contratti stipulati, in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997 sopra richiamato (esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione..)” dopo il 30 aprile 1998. Richiamato quanto già affermato circa la configurabilità, in relazione alla L. n. 56 del 1987, art. 23, di una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati nell’individuazione di nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, e premesso altresì che in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998), della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che, per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione, l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo determinato; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo. Questa Corte ha osservato in particolare che la suddetta interpretazione degli accordi attuativi non viola alcun canone ermeneutico atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453).

Inoltre è stato rilevato che tale interpretazione è rispettosa del canone ermeneutico di cui all’art 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi de quibus (nel senso che con essi erano stati stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nel primo accordo sindacale del 25 settembre 1997); diversamente opinando, ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano “senza senso” (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866). Infine, questa Corte ha ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione è comunque conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141).

In base a tale orientamento ed al valore dei relativi precedenti, pur riguardanti la interpretazione di norme collettive (cfr. Cass. 29 luglio 2005 n. 15969, Cass. 21 marzo 2007 n. 6703), così respingendosi la censura in esame, va confermata la nullità del termine apposto al contratto in esame (successivo al 30 aprile 1998), restando assorbite le ulteriori censure rivolte in sostanza alle ulteriori argomentazioni svolte nell’impugnata sentenza sotto altri profili. Infondato è poi il quarto motivo con il quale la ricorrente lamenta che la Corte d’Appello “pur affermando che il diritto alla retribuzione può sorgere solo con la messa in mora, non ha verificato la sussistenza di rigorosa prova del fatto che il lavoratore avesse messo espressamente a disposizione del datore di lavoro la propria prestazione lavorativa”. L’ottavo motivo è inammissibile per la genericità del quesito di diritto.

La ricorrente formula, quindi, il seguente quesito di diritto: “Per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all’art. 1206 c.c. e segg.”.

Tale quesito non riguarda il tema dell’aliunde perceptum e comunque, anche in ordine all’argomento della mora credendi risulta del tutto generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v.

fra le altre Cass. 4-1-2001 n. 80). Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass, S.U. 5-1-2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto è stato anche precisato che “è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie” (v. Cass. S.U. 30 ottobre 2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7 aprile n. 8463).Peraltro neppure può ignorarsi che nella fattispecie anche la illustrazione del motivo risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica da parte della Corte territoriale sul punto, senza che la ricorrente indichi se e in che modo il punto stesso (per nulla trattato nell’impugnata sentenza) sia stato oggetto di specifico motivo di appello da parte della società (cfr. Cass. 15 febbraio 2003 n. 2331, Cass. 10 luglio 2001 n. 9336).

Pure inammissibile è il nono motivo in cui manca il quesito di diritto da esplicitare ex art. 366 bis cod. proc. civ. quale momento di sintesi. Infatti, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo “iter” argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (Cass. 25 febbraio 2009 n. 4556). Al rigetto del ricorso segue la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in Euro 40,00 oltre ad Euro 2.500,00 per onorario, più spese generali, IVA e CPA da distrarsi in favore dell’avv. Vincenzo Feraudo.

Così deciso in Roma, il 16 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 agosto 2011

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