Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17254 del 18/08/2020

Cassazione civile sez. I, 18/08/2020, (ud. 08/07/2020, dep. 18/08/2020), n.17254

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. VELLA Paolo – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 36033/2018 proposto da:

J.E., rappresentato e difeso dall’avvocato MARIA DANIELA SACCHI,

e domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2581/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 24/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

08/07/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA;

vista la requisitoria del P.G., in persona del Sostituto Dott.ssa

FRANCESCA CERONI, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il ricorrente, cittadino gambiano, proponeva ricorso avverso il provvedimento di diniego emesso dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Milano. Con ordinanza dell’20.4.2017 il Tribunale di Milano rigettava il ricorso. Interponeva appello J.E. e la Corte di Appello di Milano, con la sentenza impugnata, n. 2581/2018, rigettava il gravame.

Propone ricorso per la cassazione di detta decisione J.E. affidandosi a cinque motivi.

Il Ministero dell’Interno, intimato, non ha svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.

Il ricorrente ha depositato memoria in prossimità dell’adunanza camerale, originariamente fissata per l’8.5.2020. Il P.G. ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, perchè la Corte di Appello non avrebbe applicato i principi sul cd. onere della prova attenuato. Poichè il ricorrente aveva compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare il suo racconto, il giudice di merito avrebbe dovuto ritenere credibile il racconto e veritieri i fatti in cui esso si articolava.

La censura è inammissibile. La Corte di Appello ha ritenuto che il racconto dello J. fosse da un lato generico, e dall’altro lato non idoneo ad integrare una forma di persecuzione rilevante ai sensi dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra (cfr. pag.8 della sentenza impugnata). Il ricorrente non attinge in modo specifico questa duplice motivazione, limitandosi a sostenere che la sua storia era stata adeguatamente dettagliata, peraltro senza aver cura di fare alcun cenno specifico a fatti, eventi o dichiarazioni rese nel corso del giudizio di merito. La generica affermazione di aver “… reso un racconto particolareggiato della vicenda che lo ha costretto a lasciare il Gambia, del tutto coerente con la situazione del suo Paese di origine, riferendo di professare la religione cristiana e di essere fuggito dal suo paese per timore di gravi ritorsioni nei suoi confronti da parte di chi lo accusa della morte del padre a causa della sua volontà di convertirsi al cristianesimo” (cfr. pag.4 del ricorso) non è certamente sufficiente a rendere specifica la doglianza, posto che non si chiarisce nè quale sarebbe la condizione esistente in Gambia dalla quale il ricorrente sarebbe fuggito, nè chi lo avrebbe minacciato, nè in cosa sarebbero consistite tali minacce, nè in quali occasioni esse si sarebbero manifestate, nè -soprattutto- in quale momento del giudizio di merito il richiedente avrebbe precisato i predetti elementi, posto che questo non si evince dalla lettura della decisione impugnata. Non è idonea, a tal riguardo, la lunga nota contenuta a pag.5 del ricorso, poichè con essa si chiarisce quali sarebbero state le contraddizioni in cui sarebbe incorsa la Commissione territoriale e si fanno alcuni accenni al contenuto del racconto dello J., dai quali tuttavia continuano a non evincersi quei riferimenti, temporali o di altro genere, precisi ed univoci che la Corte di Appello ha ritenuto difettare.

Infine, la censura non attinge in modo specifico la vera ratio per cui la Corte lombarda ha considerato generica e non credibile la narrazione dello J., che si risolve nel fatto che costui non aveva dimostrato alcuna conoscenza della religione cristiana. Il ricorrente non contesta in modo specifico tale affermazione, pur in sè contrastante con il principio per cui “In tema di protezione internazionale, non rientra nell’ambito della valutazione di credibilità della storia del richiedente, il sindacato sul percorso individuale che egli abbia seguito per abbracciare un determinato credo, nè il livello di conoscenza dei relativi riti, fondato sul grado delle conoscenze teologiche, senza considerare che la mutevolezza delle modalità dell’atteggiarsi della fede personale rende il concetto stesso di conoscenza delle pratiche religiose di un determinato culto estremamente vago e, come tale, non idoneo a fondare alcun giudizio oggettivamente apprezzabile” (Cass. Sez.1, Ordinanza n. 5225 del 26/02/2020, Rv.657002).

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5, 7 e 14, e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, perchè la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria. Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di merito, infatti, il Gambia sarebbe ancor oggi uno Stato caratterizzato da una grave instabilità e da una condizione di violenza ed insicurezza generalizzate.

Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, perchè la Corte lombarda avrebbe errato nel non ravvisare la persecuzione religiosa ai danni degli appartenenti alla religione cristiana. Le fonti internazionali, infatti, evidenzierebbero una criticità in tal senso e il Gambia sarebbe un Paese solo formalmente laico, ma in realtà governato da leggi e usanze musulmane e caratterizzato dall’intolleranza religiosa.

Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, perchè la Corte ambrosiana non avrebbe svolto il potere-dovere di cooperazione istruttoria, in particolare non procedendo ad una corretta ricostruzione della situazione interna del Gambia.

Le tre doglianze, che meritano un esame congiunto poichè con esse si censura, sotto diversi profili, l’esercizio da parte del giudice di merito dei poteri istruttori ufficiosi che caratterizzano il giudizio finalizzato al riconoscimento della protezione internazionale e umanitaria, sono inammissibili.

La Corte di Appello ha infatti ricostruito la condizione interna del Gambia avendo cura di indicare le fonti internazionali consultate e le informazioni da esse tratte (cfr. pag.5 della sentenza impugnata), e quindi rispettando i principi posti, in materia, da questa Corte (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 13449 del 17/05/2019 Rv.653887; Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 13897 del 22/05/2019, Rv.654174). Il ricorrente contesta tale ricostruzione, invocando fonti diverse da quelle consultate dal giudice di merito, ma non si confronta con il principio, che merita di essere ribadito, secondo cui “In tema di protezione internazionale, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito, non può procedersi alla mera prospettazione, in termini generici, di una situazione complessiva del Paese di origine del richiedente diversa da quella ricostruita dal giudice, sia pure sulla base del riferimento a fonti internazionali alternative o successive a quelle utilizzate dal giudice e risultanti dal provvedimento decisorio, ma occorre che la censura dia atto in modo specifico degli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, dovendo la censura contenere precisi richiami, anche testuali, alle fonti alternative o successive proposte, in modo da consentire alla S.C. l’effettiva verifica circa la violazione del dovere di collaborazione istruttoria” (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 26728 del 21/10/2019, Rv.655559). Ove manchi tale specifica allegazione, è precluso a questa Corte procedere ad una revisione della valutazione delle risultanze istruttorie compiuta dal giudice del merito. Solo laddove nel motivo di censura vengano evidenziati precisi riscontri idonei ad evidenziare che le informazioni sulla cui base il predetto giudice ha deciso siano state effettivamente superate da altre e più aggiornate fonti qualificate, infatti, potrebbe ritenersi violato il cd. dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice del merito, nella misura in cui venga cioè dimostrato che quest’ultimo abbia deciso sulla scorta di notizie ed informazioni tratte da fonti non più attuali. In caso contrario, la semplice e generica allegazione dell’esistenza di un quadro generale del Paese di origine del richiedente la protezione differente da quello ricostruito dal giudice di merito si risolve nell’implicita richiesta di rivalutazione delle risultanze istruttorie e nella prospettazione di una diversa soluzione argomentativa, entrambe precluse in questa sede.

Con il quinto ed ultimo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5 e 19, perchè la Corte territoriale avrebbe erroneamente denegato anche la tutela umanitaria.

La censura è infondata. Nel ricorso e nella successiva memoria si afferma infatti che lo J. sarebbe stato assunto con contratto di lavoro come operaio saldatore, dapprima a tempo determinato, da marzo 2018, e poi – a seguito di trasformazione del rapporto – a tempo indeterminato, con effetto dal 23 luglio 2018 (cfr. pag.14 del ricorso). La circostanza non è stata considerata dal giudice di merito perchè il rapporto di lavoro si è costituito successivamente alla data del 27 febbraio 2018, allorquando si è svolta l’udienza davanti alla Corte ambrosiana, nel corso della quale lo J. aveva dichiarato di “… lavorare come badante presso l’abitazione di una signora anziana di (OMISSIS), dove risiede” (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata). Trattandosi di fatti successivi al momento in cui la causa è stata introitata in decisione dalla Corte territoriale, il giudice di merito non li ha potuti considerare ai fini della decisione. Nè, del resto, il ricorrente ha dedotto e documentato di aver tentato di introdurre tali fatti nel giudizio di merito, sia pure dopo il trattenimento della causa per la decisione e nonostante la rinuncia ai termini di cui all’art. 190 c.p.c., che pure emerge dalla sentenza impugnata (cfr. ancora a pag.3). Tuttavia tali circostanze, proprio in quanto sopravvenute rispetto al momento in cui il giudizio di appello è stato introitato in decisione, potranno esser dedotte dallo J., appunto come fatti nuovi, in un eventuale richiesta reiterata di protezione, non essendosi verificata alcuna preclusione processuale a carico della parte. Il vizio denunciato in questa sede, dunque, non sussiste, sia sotto il profilo della censura dell’operato del giudice di merito, che appare coerente alla legge, sia quanto alla eventuale lesione del diritto di difesa del ricorrente che, alla luce delle suesposte considerazioni, non sussiste.

Quanto al resto, la censura in esame si risolve in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez.U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv.627790). La Corte ambrosiana ha infatti ritenuto che il rapporto lavorativo dichiarato dal ricorrente in udienza non fosse idoneo a dimostrare una stabile occupazione e che il processo di integrazione sociale fosse, a quella data, embrionale. Tale affermazione, che peraltro è confermata proprio dal successivo progredire del processo di stabilizzazione socio-lavorativa dello J., non viene attinta in sè dalla doglianza in esame, che è in sostanza incentrata sulla mancata considerazione di circostanze successive all’udienza del 27 febbraio 2018, che la Corte milanese non aveva nè il potere, nè il dovere, di prendere in esame ai fini della decisione.

In definitiva, vanno dichiarati inammissibili i primi quattro motivi mentre va rigettato l’ultimo; il ricorso va quindi complessivamente rigettato.

Nulla per le spese, in assenza di svolgimento di attività difensiva da parte del Ministero dell’Interno intimato nel presente giudizio di legittimità.

Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titoloContributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 8 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 agosto 2020

 

 

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