Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1725 del 28/01/2014


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 1725 Anno 2014
Presidente: LA TERZA MAURA
Relatore: MAROTTA CATERINA

ORDINANZA
sul ricorso 9570-2012 proposto da:
POSTE ITALIANE SPA 97103880585 – società con socio unico in
persona del Responsabile della Direzione Affari Legali della Società,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE EUROPA 190, presso
l’AREA LEGALE TERRITORIALE CENTRO della Società,
rappresentata e difesa dagli avvocati ROBERTA AIAZZI, ANNA
TERESA LAURORA, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente contro
OCCHIPINTI ANNA, COCCHIARA FILIPPA, COCCHIARA
MATTIA RITA, COCCHIARA DOMENICO, elettivamente
domiciliati in ROMA, CORSO D’ITALIA 102, presso lo studio
dell’avvocato GIOVANNI PASQUALE MOSCA, che li rappresenta e
difende, giusta procura a margine del controricorso;

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Yg

Data pubblicazione: 28/01/2014

- controrícorrenti nonché contro
COCCHIARA CALOGERO, COCCHIARA MARIA TERESA;

– intimati –

ROMA del 22.3.2011, depositata 11 07/04/2011;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
14/11/2013 dal Consigliere Relatore Dott. CATERINA MAROTTA;
udito per i controricorrenti l’Avvocato ERICA DUMONTEL (per
delega avv. GIOVANNI PASQUALE MOSCA) che si riporta agli
scritti.
E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott.
GIANFRANCO SERVELLO che si riporta alla relazione scritta.
1 – Considerato che è stata depositata relazione del seguente
contenuto:
“Con sentenza del 25 maggio 2007, il Tribunale di Roma
accoglieva la domanda di Anna Occhipinti, Maria Teresa Cocchiara,
Mania Rita Cocchiara e Domenico Cocchiara, quali eredi di Vincenzo
Cocchiara, nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, di accertamento
della nullità della clausola del contratto collettivo applicabile al
rapporto di lavoro, che stabiliva l’automatico collocamento a riposo
del personale al raggiungimento della massima anzianità contributiva e
pertanto di annullamento del conseguente atto di risoluzione del
rapporto, con condanna della società al risarcimento in favore delle
retribuzioni di fatto maturate e non percepite dal

de cuius

dall’interruzione del rapporto al decesso.
A seguito di appello della società Poste Italiane, la Corte di appello
di Roma, con sentenza n. 2620/2011 del 7 agosto 2011, confermava la
Ric. 2012 n. 09570 sez. ML – ud. 14-11-2013
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avverso la sentenza n. 2620/2011 della CORTE D’APPELLO di

decisione di primo grado, escludendo la nullità del ricorso introduttivo
del giudizio, l’intervenuta acquiescenza in ordine alla domanda di
risarcimento del danno, la violazione del principio del ne bis in idem,
l’intrasmissibilità agli eredi.
Avverso tale sentenza propone ora ricorso per cassazione la

– la violazione dell’art. 1372 c.c., per non avere la Corte di merito
accolto l’eccezione di inammissibilità delle domande per intervenuta
acquiescenza alla risoluzione del rapporto di lavoro;
– la violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 cod. civ. laddove la
sentenza ha completamente disatteso un punto decisivo della
controversia imperniato sulla intervenuta acquiescenza nei confronti
della richiesta di risarcimento del danno;
– la violazione o falsa applicazione degli artt. 324 cod. proc. civ. e
2909 cod. civ. laddove la sentenza impugnata ha ritenuto che non fosse
stato violato il principio del ne bis in idem;
– la omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un
fatto controverso e decisivo del giudizio laddove il giudice di appello
ha omesso di motivare in ordine alla eccezione sollevata dalla difesa
della società di assenza di qualunque prova dei presunti danni subiti e
dell’entità degli stessi.
Resistono con controricorso Anna Occhipinti, Maria Teresa
Cocchiara, Mania Rita Cocchiara e Domenico Cocchiara.
Il ricorso si palesa manifestamente manifestamente infondato.
Il primo motivo investe la sentenza della Corte territoriale laddove
questa ha escluso che il solo comportamento omissivo tenuto per un
certo tempo dal lavoratore in ordine all’atto datoriale di comunicazione
della risoluzione del rapporto di lavoro configuri una risoluzione di
questo per mutuo consenso.
Ric. 2012 n. 09570 sez. ML – ud. 14-11-2013
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società, deducendo:

In proposito va ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa
Corte, cui il collegio aderisce, è suscettibile di essere sussunto nella
fattispecie legale di cui all’art. 1372, comma 1, cod. civ. il
comportamento delle parti che determini la cessazione della
funzionalità di fatto del rapporto lavorativo a termine in base a

trovando siffatta operazione ermeneutica supporto nella crescente
valorizzazione, che attualmente si registra nel quadro della teoria e
della disciplina dei contratti, del piano oggettivo del contratto, a
discapito del ruolo e della rilevanza della volontà psicologica dei
contraenti, con conseguente attribuzione del valore di dichiarazioni
negoziali a comportamenti sociali valutati in modo tipico; e ciò con
particolare riferimento alla materia lavoristica ove operano,
nell’anzidetta prospettiva, principi di settore che non consentono di
considerare esistente un rapporto di lavoro senza esecuzione (cfr., ad
es., Cass. 6 luglio 2007 n. 15264; id. 7 maggio 2009 n. 10526).
Al riguardo, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa
ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di voler porre fine al
rapporto grava sul datore di lavoro che deduce la risoluzione dello
stesso per mutuo consenso (cfr. ad es. Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070;
id. 2 dicembre 2000 n. 15403).
È, poi, consolidato l’orientamento secondo cui il giudizio sulla
configurabilità o meno, in concreto, di un tale accordo per facta
concludentia, viene devoluto al giudice di merito, la cui valutazione, se
adeguatamente motivata, si sottrae a censure in sede di controllo di
legittimità della decisione (cfr., diffusamente, tra le altre, le sentenze
citate).
Ciò posto in via di principio, si rileva che la Corte territoriale ha
elaborato una congrua ed articolata motivazione al riguardo,
Ric. 2012 n. 09570 sez. ML – ud. 14-11-2013
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modalità tali da evidenziare il loro disinteresse alla sua attuazione,

pervenendo alla conclusione che la tacita risoluzione consensuale
invocata da Poste Italiane s.p.a. non è realizzata in quanto “la mera
inerzia all’esercizio del diritto entro il termine prescrizionale, in assenza
di altri elementi, non può costituire prova della volontà abdicativa”. La
Corte di merito ha, inoltre, evidenziato che, nel caso in esame,

licenziamento fino al 2004, che rendeva ancora sub iudice il presupposto
giuridico della domanda risarcitoria e quindi il ritardo nell’esercizio del
diritto è rimasto nei termini fisiologici di un anno (il ricorso di primo
grado è stato introdotto all’inizio del 2006)”. La sentenza impugnata
ha, dunque, considerato adeguatamente tutte le circostanze che la
ricorrente assume omesse rilevando, in ogni caso, correttamente che
rispetto alla mera inerzia è necessario un quid plutis per configurare
l’effetto cancellatoti° a seguito del decorso di un tempo inferiore a
quello fissato per la prescrizione.
Il secondo motivo è inammissibile sia per la mancata produzione
del ricorso rispetto al quale la violazione del ne bis in idem si sarebbe
verificata sia perché la ricorrente si limita a richiamare il principio
secondo il quale l’autorità di giudicato investe non soltanto quanto
dedotto dalle parti ma anche quanto le stesse avrebbero potuto
dedurre in ordine al medesimo oggetto, riproponendo pedissequamente
l’eccezione formulata in sede di appello (tanto si evince dal contenuto
del gravame riprodotto testualmente nel presente ricorso), laddove la
Corte di merito ha superato tale censura con articolata motivazione
(volta specialmente a contrastare la dedotta sussistenza del medesimo
oggetto) che non risulta investita da specifici rilievi.
Il terzo motivo è infondato.
Questa Corte ha già da tempo chiarito che non può attribuirsi il
valore di un atto di licenziamento, illegittimo in ragione della nullità
Ric. 2012 n. 09570 sez. ML – ud. 14-11-2013
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“l’inerzia è giustificata dalla pendenza del giudizio relativo al

della clausola contrattuale, alla comunicazione con cui il datore di
lavoro non abbia manifestato al lavoratore la volontà di risolvere il
rapporto, ma si sia limitato a richiamare, a fini ricognitivi, la presunta
cessazione del rapporto determinata dalla clausola contrattuale
collettivo (cfr. Cass. 17 novembre 2000, n. 14882; id., 19 ottobre 2001,

Alla luce di detto principio può affermarsi che la nullità della
clausola contrattuale, da cui la società datrice di lavoro pretendeva di
far derivare l’automatica cessazione del rapporto di lavoro, ha
determinato la continuità giuridica dello stesso secondo le modalità
preesistenti, fino al verificarsi di una legittima causa di risoluzione.
Pertanto il datore di lavoro, avendo rifiutato la prestazione lavorativa
collocando a riposo il dipendente contro la sua volontà, versa in mora
accipiendi dalla data in cui quest’ultimo gli ha fatto offerta della
prestazione, costituendolo in mora, ed è obbligato al risarcimento del
danno causato dalla propria inadempienza contrattuale, danno che può
essere individuato nella mancata corresponsione delle retribuzioni.
In applicazione, poi, dei principi comuni in tema di responsabilità
contrattuale, il diritto al risarcimento può riconoscersi solo a decorrere
dal momento in cui il lavoratore mise a disposizione del datore di
lavoro le proprie energie lavorative, offrendo l’esecuzione della
prestazione. Tale presupposto deve ritenersi realizzato, come
correttamente sostenuto dalla Corte di appello, già al momento
dell’operatività della risoluzione (15/9/96) visto che il Cocchiara, come
si evince dalla puntuale indicazione contenuta nel controricorso, prima
ancora di tale operatività (e cioè con richiesta del 12/1/96 – doc. 2
fasc. di primo grado -) aveva rappresentato all’azienda la propria
volontà di rimanere in servizio mettendo così a disposizione della
stessa le proprie energie lavorative. Peraltro, non si rileva dal
Ric. 2012 n. 09570 sez. ML – ud. 14-11-2013
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n. 12844; 4 aprile 2002 n. 4836; 30 aprile 2010, n. 10527).

contenuto dell’atto di appello, come riprodotto nel ricorso per
cassazione, che fosse stata posta specificamente dalla società la
questione del momento iniziale da cui far decorrere il risarcimento
essendo le censure incentrate solo sull’inesistenza del danno in ragione
della percezione da parte del Cocchiara del trattamento pensionistico.

Non può essere condivisa la necessità di detrarre, a titolo di aliunde
perceptum, dal complessivo ammontare del risarcimento il trattamento di
pensione percepito a seguito del collocamento in quiescenza (invero
parte ricorrente pone tale questione non tanto ai fini della detrazione
bensì per sostenere la mancanza di un danno risarcibile che, a ben
guardare, è argomento che introduce comunque la problematica della
sussistenza e rilevanza di fatti che incidano sull’entità del risarcimento fino eventualmente ad escluderlo – ).
E’ pur vero che, in linea di principio, l’applicazione del principio
della compensatio lucri cum damno – volto ad evitare che il risarcimento del
danno si risolva in un indebito arricchimento del danneggiato – trova
applicazione ogni volta che si affermi il diritto al ripristino del rapporto
di lavoro (indipendentemente dall’applicazione dell’art 18 della legge n.
300/70), “sicché al lavoratore spetta un risarcimento commisurato alle
retribuzioni non percepite, ma dal suddetto importo sono deducibili i ricavi che
sarebbero stati incompatibili con la prosecuzione della prestazione lavorativa e resi
possibili, quindi, solo dalla sua interruzione” (cfr. Cass., sez. un., 22 marzo
1995, n. 3319; Cass. 3 novembre 2000, n. 14387).
A tale fine non è dubitabile che il giudice debba tenere conto in
generale, a titolo di aliunde perceptum ed in applicazione del richiamato
principio della compensatio lucri cum damno, di tutte le attribuzioni
patrimoniali, senza distinzioni – ivi comprese, sia pure in astratto come
di seguito si vedrà, quelle derivanti da rapporti previdenziali o
Ric. 2012 n. 09570 sez. ML – ud. 14-11-2013
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Anche il quarto motivo è infondato.

assistenziali – “allorquando

altera ione del rapporto di lavoro

costituisca evento generatore unico tanto del diritto alferognione quanto del
mancato guadagno de/lavoratore” (Cass. n. 14387/2000 cit.).
Tuttavia, se in astratto può convenirsi che anche i trattamenti
previdenziali sono ricollegabili allo stesso fatto che ha generato il

loro detraibilità dal risarcimento spettante al lavoratore non può non
tenersi conto della precarietà dell’acquisizione patrimoniale medesima.
Ed infatti, questa Corte, nella pronuncia a Sez. Un. del 13 agosto 2002,
n. 12195 ha così affermato: “In caso di licenziamento illegittimo del
lavoratore, il risarcimento del danno spettante a quest’ultimo a norma
dell’art. 18 legge n. 300 del 1970, commisurato alle retribuzioni perse a
seguito del licenziamento fino alla riammissione in servizio, non deve
essere diminuito degli importi eventualmente ricevuti dall’interessato a
titolo di pensione, atteso che il diritto al pensionamento discende dal
verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla legge, sicché
le utilità economiche che il lavoratore ne ritrae, dipendendo da fatti
giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, si
sottraggono all’operatività della regola della . Tale , d’altra parte, non può configurarsi
neanche allorché, eccezionalmente, la legge deroghi ai requisiti del
pensionamento, anticipando, in relazione alla perdita del posto di
lavoro, l’ammissione al trattamento previdenziale, sicché il rapporto fra
la retribuzione e la pensione si ponga in termini di alternatività, né
allorché il medesimo rapporto si ponga invece in termini di soggezione
a divieti più o meno estesi di cumulo tra la pensione e la retribuzione,
posto che in tali casi la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del
licenziamento travolge “ex tund’ il diritto al pensionamento e
sottopone l’interessato all’azione di ripetizione di indebito da parte del
Ric. 2012 n. 09570 sez. ML – ud. 14-11-2013
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danno risarcibile (cioè l’illegittima alterazione del rapporto), ai fini della

soggetto erogatore della pensione, con la conseguenza che le relative
somme non possono configurarsi come un lucro compensabile col
danno, e cioè come un effettivo incremento patrimoniale del
lavoratore”.
Se allora conseguenza diretta ed immediata della pronuncia di

declaratoria di nullità della clausola risolutiva) è il venir meno del titolo
in base al quale l’appellato ha percepito il trattamento pensionistico,
essendo stato ripristinato il rapporto lavorativo dalla cui cessazione
detto trattamento aveva avuto origine, qualora tale trattamento sia
divenuto una attribuzione sine titulo, il lavoratore reintegrato viene a
trovarsi, relativamente ai ratei percepiti, nella posizione di un qualsiasi
creditore apparente, esposto in quanto tale ad un’azione di ripetizione
dell’indebito da parte dell’ente previdenziale.
Così stando le cose, poco importa se al momento della pronuncia
non può esservi ancora certezza della ripetizione da parte dell’ente
interessato, dovendo il giudice porsi nell’ottica del rispetto della legge,
secondo la quale alla pronuncia di inefficacia del licenziamento ed al
conseguente ripristino del rapporto di lavoro illegittimamente
interrotto non può che conseguire l’obbligo giuridico, da parte
dell’istituto previdenziale erogatore, di recuperare una prestazione
pensionistica divenuta ormai indebita perché priva di titolo.
E’ in questa prospettiva che deve escludersi la possibilità di
detrarre dal risarcimento del danno il trattamento pensionistico
percepito dal lavoratore, non potendo ritenersi tale attribuzione
acquisita, se non in modo apparente e del tutto precario, al suo
patrimonio.
In conclusione, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza, ai
sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5″.
Ric. 2012 n. 09570 sez. ML – ud. 14-11-2013
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illegittimità del licenziamento (id est, come nello specifico, della

2 – Ritiene questa Corte che le considerazioni svolte dal relatore
siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla consolidata
giurisprudenza di legittimità in materia. Ricorre con ogni evidenza il
presupposto dell’art. 375, n. 5, cod. proc. civ. per la definizione
camerale del processo, soluzione non contrastata dalle parti – che non

ha aderito alla relazione.
3 – Conseguentemente, il ricorso va rigettato.
4 – La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.

P.Q.M.
LA CORTE rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al
pagamento, in favore degli intimati costituiti, delle spese del presente
giudizio di legittimità che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro
2.500,00 per compensi da attribuirsi all’avv.to Giovanni Pasquale
Mosca anticipatati°.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 novembre 2013.

hanno depositato memoria – e condivisa dal Procuratore generale, che

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