Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17242 del 22/07/2010

Cassazione civile sez. II, 22/07/2010, (ud. 28/04/2010, dep. 22/07/2010), n.17242

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – rel. Consigliere –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 5642/2005 proposto da:

V.A. (OMISSIS), C.C.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA NIZZA 59,

presso lo studio dell’avvocato DI AMATO ASTOLFO, rappresentati e

difesi dall’avvocato STANGA Domenico;

– ricorrenti –

contro

B.G. (OMISSIS), quale procuratore speciale di

G.M. elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MAGNA

GRECIA 39, presso lo studio dell’avvocato FRANCHITTI GIUSEPPE,

rappresentato e difeso dall’avvocato BATTISTA Antonio;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1771/2004 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 27/05/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

28/04/2010 dal Consigliere Dott. EMILIO MIGLIUCCI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

APICE Umberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso proposto ai sensi dell’art. 1171 cod. civ., al Pretore di Caserta B.G., in qualità di procuratore generale di G.M., denunziava che V.A. e C.C. da qualche mese stavano realizzato, in violazione delle norme di attuazione del P.R.G. in vigore, un nuovo fabbricato sulle p.le (OMISSIS), a distanza illegale (inferiore a cinque metri dal confine, lato sud) dell’edificio sito in (OMISSIS), con annesso piccolo giardino, di essa attrice.

Disatteso dal Pretore il ricorso e riassunto da parte dell’attrice il giudizio di merito dinanzi al giudice competente nel quale si costituivano V.A. e C.C., con sentenza n. 399/02 il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere condannava queste ultime ad arretrare il fabbricato fino alla distanza di metri cinque dal confine.

Con sentenza dep. il 27 maggio 2004 la Corte di appello di Napoli respingeva l’appello principale con cui le convenute avevano dedotto che, nella misurazione delle distanze legali, non dovevano essere considerati gli aggetti costituiti da balconi e pensiline; in accoglimento dell’impugnazione incidentale proposta dal B. nella indicata qualità, condannava le convenute ad arretrare il fabbricato – relativamente alla parete finestrata – fino alla distanza di metri dieci da quello dell’attrice.

Nel respingere l’appello principale, i giudici escludevano che i balconi realizzati dalle convenute rientrassero in quegli sporti che, essendo di limitata entità ed avendo funzione meramente decorativa, non sono idonei a creare intercapedini dannose atteso che nella specie gli stessi rappresentavano un ampliamento dell’edificio in superficie e in volume, tenuto conto che il fronte dell’immobile di proprietà delle appellanti presentava degli archi murari perfettamente solidali con il fabbricato al di sopra dei quali si sviluppava una muratura di tamponamento che trovavasi ad una distanza media di cm. 286, per cui era risultato violato l’art. 122 del regolamento edilizio del Comune di Caserta che prescrive la distanza di metri cinque dal confine.

Per quanto riguardava l’impugnazione incidentale diretta ad ottenere l’arretramento fino a metri 10 del fabbricato delle convenute relativamente alla parete finestrata, secondo la Corte erroneamente il primo Giudice aveva ritenuto che non trovasse applicazione il Decreto n. 1444 del 1968, art. 9, allorchè si fronteggino una parete finestrata e una parete cieca, posto che tale disposizione prevede che, per gli edifici ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona (OMISSIS), è prescritta in tutti i casi la distanza minima di dieci metri fra pareti finestrate e pareti degli edifici antistanti, indipendentemente dalla circostanza che una soltanto sia la parte finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio e o dell’edificio preesistente o che si trovi alla medesima altezza o diversa altezza rispetto all’altra.

Avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione V. A. e C.C. sulla base di tre motivi. Resiste con controricorso l’intimato.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo le ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 900 cod. civ., D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, della L. n. 150 del 1942, art. 41 quinquies, artt. 118 e 122 del regolamento edilizio del Comune di Caserta, censurano la sentenza impugnata che, nell’escludere l’applicabilità della norma del regolamento edilizio di Caserta che impone la distanza dal confine di cinque metri, aveva erroneamente ritenuto che la fattispecie era disciplinata dalla D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 – vincolante per i Comuni ma non per i privati – che stabilisce le distanze fra edifici con pareti finestrate che si fronteggino. Al riguardo osservava che gli edifici in oggetto si fronteggiano direttamente solo per una distanza limitata (cm. 55) e per tale tratto non vi sono aperture che si affacciano sul fondo viciniore: la finestra, affacciando direttamente ed esclusivamente sul confine, non era idonea a qualificare come finestrata tutta la parete non essendo in grado di incidere sulla restante parte dell’edificio tenuto conto che – alla stregua della ratto di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, diretto ad impedire intercapedini dannose – la nozione di parete finestrata va determinata con riferimento alla funzione delle aperture che, ai sensi dell’art. 900 cod. civ., è quella di dare aria e luce, essendo peraltro necessario che la stessa sia una veduta; qualora la parete fronteggi un muro di confine, che è muro di cinta, non trova applicazione l’art. 9 citato, dovendo considerarsi che le intercapedini dannose sono provocate dalla eccessiva vicinanza a un edificio finestrato di un altro edificio che gli tolga luce e aria sufficiente con conseguente pericolo per l’igiene e la salute.

Pertanto, nella specie la distanza da osservare era di mt. 5 sia per la zona non finestrata, da calcolare fra la parete dell’edificio delle convenute e il confine, sia nella parte in cui gli edifici si fronteggiano, non essendovi aperture sia infine per la zona finestrata dove il distacco andava determinato rispetto al muro di confine.

Il motivo è infondato.

Il D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, che, in applicazione dell’art. 41 “quinquies” Legge Urbanistica (come modificato dalla L. n. 765 del 1967, art. 17), detta i limiti di densità, altezza, distanza tra i fabbricati, all’art. 9, comma 1, n. 2, con disposizione tassativa ed inderogabile, dispone che negli edifici ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona (OMISSIS), è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Tale prescrizione, stante la sua assolutezza ed inderogabilità, risultante da fonte normativa statuale è sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali, dovendo qui ricordarsi che il principio secondo cui tale norma, imponendo limiti edilizi ai comuni nella formazione di strumenti urbanistici, non è immediatamente operante nei rapporti tra privati, va interpretato nel senso che l’adozione, da parte degli enti locali,di strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta l’obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9, divenuta, per inserzione automatica,parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata (Cass. 21888/2004).

Pertanto, nel caso di esistenza sul confine tra due fondi di un fabbricato avente il muro perimetrale finestrato, il proprietario dell’area confinante che voglia, a sua volta, realizzare una costruzione sul suo terreno deve mantenere il proprio edificio ad almeno dieci metri dal muro altrui, senza alcuna deroga neppure per il caso in cui la nuova costruzione realizzata nel mancato rispetto del menzionato D.M. sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell’art. 907 c.c., comma 3, così come è irrilevante che una soltanto delle pareti sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o di quello preesistente.

La circostanza che nella specie gli edifici siano fronteggianti soltanto per un breve tratto nel quale non vi sono aperture e che la parete nella parte in cui si apre la finestra dell’edificio delle convenute si affaccia su un muro che le ricorrenti qualificano di cinta (trattasi di circostanza di fatto che non risulta dalla sentenza impugnata) è irrilevante, tenuto conto che la natura di parete finestrata deve esser determinata con riferimento al suo intero sviluppo, sicchè il conseguente obbligo di rispettare la distanza prevista dal Decreto n. 1444 del 1968, art. 9, non viene meno in considerazione della collocazione dell’apertura: attesa la ratto di tale disposizione diretta ad impedire intercapedini dannose nell’interesse delle salute e dell’igiene pubblica, tale distacco deve essere assicurato in ogni punto del fabbricato ed indipendentemente da alcuna verifica in ordine all’effettivo pregiudizio del diritto di veduta, tenuto conto che, ai fini del calcolo delle distanze, i dati di riferimento sono le pareti e non le finestre aperte in esse (Cass. 9207/1991).

Con il secondo motivo le ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 122 del regolamento edilizio del Comune di Caserta, censurano la decisione impugnata laddove aveva ritenuto l’illegittimità dei balconi in quanto costruiti in violazione delle distanze previste da tali norme. In considerazione della indeterminatezza e della genericità del regolamento edilizio che definisce il balcone e le pensiline aggetti, la loro estensione non doveva essere computata nel calcolo delle distanze legali; tenuto conto che di fronte alla finestra balconata non vi erano costruzioni od ostacoli evidenti, il manufatto non comportava alcuna compressione di quei beni (luminosità, salute, igiene) che le norme regolamentari tendono a tutelare: l’aggetto, computabile ai fini delle distanze, è quello implicante ampliamento dell’edificio in superficie e volume;

il balcone non creava intercapedini dannose.

Con il terzo motivo le ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 122 del regolamento edilizio del Comune di Caserta nonchè del Decreto n. 1444 del 1968, censurano la sentenza gravata laddove aveva ritenuto: in relazione alle coperture dei balconi, che gli archi facessero parte del genere pensiline e quindi degli aggetti, che i piastrini presenti nei balconi, in quanto sporgenti dai balconi, creassero intercapedini dannose.

Le coperture dei balconi dovevano considerarsi come sporti ornamentali, atteso i che gli archi erano composti da mattoni forati e poggiavano su piastrini non portanti in mattoni pieni con funzione meramente ornamentale; le coperture non potevano considerarsi – come ritenuto dai Giudici – archi murari solidali con l’edificio, tenuto conto che erano state eliminate senza intaccare e modificare le caratteristiche costruttive dell’edificio; la decisione si era basata su una acritica accettazione dei rilievi del consulente, avendo mal valutato le circostanze di fatto, cioè la lesività del balcone, il pericolo igienico e gli sporti.

Il secondo e il terzo motivo, che possono esaminarsi congiuntamente stante la connessione, sono infondati.

La sentenza ha escluso che i balconi costituissero sporti ornamentali avendo accertato che il fronte dell’immobile di proprietà delle appellanti presentava degli archi murari perfettamente solidali con il fabbricato al di sopra dei quali si sviluppava una muratura di tamponamento, osservando che gli sporti, per le loro caratteristiche strutturali e funzionali, non avevano carattere meramente ornamentale ma, in considerazione dell’apprezzabile profondità e ampiezza dei balconi, la costruzione rappresentava un ampliamento in superficie e in volume: pertanto la misurazione, che andava calcolata dai pilastri, quali punto di massima sporgenza, e non dalla parete retrostante, aveva consentito di accertare la violazione della distanza al riguardo prescritta dall’art. 122 del regolamento edilizio vigente.

La decisione è corretta, avendo i giudici fatto puntuale applicazione del principio elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui in tema di distanze fra edifici, mentre rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili, costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza.

In realtà, la doglianza, pur facendo riferimento a violazioni di legge, da cui la sentenza è immune, si risolve nella censura dell’accertamento di fatto compiuto dai Giudici in ordine alla natura e alla consistenza del balcone, che è evidentemente oggetto dell’indagine riservata al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione che nella specie non è neppure specificamente formulato, posto che il motivo tende a una diversa rivalutazione delle risultanze processuali: oltretutto il ricorso difetta di autosufficienza laddove in modo del tutto generico si denuncia l’adesione acritica alla consulenza tecnica senza trascriverne il testo e senza evidenziare i relativi errori in modo che non consente alla Corte di Cassazione, che non ha accesso diretto agli atti, di verificarne la decisività. Al riguardo, è appena il caso di ricordare che il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5, si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione; tali vizi non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo al giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, mentre alla Corte di Cassazione non è conferito il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, non essendo compito del giudice di legittimità verificare l’esattezza della decisione rispetto alle risultanze istruttorie: spetta alla Cassazione che, come si è detto, non può esaminare gli atti, tranne che sia dedotto un error in procedendo, quello di controllare, sotto il profilo logico e formale, la correttezza giuridica del provvedimento impugnato attraverso l’esame del suo contenuto. Il ricorso va rigettato. Le spese della presente fase vanno poste in solido a carico delle ricorrenti, risultate soccombenti.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna le ricorrenti in solido al pagamento in favore del resistente delle spese relative alla presente fase che liquida in Euro 1.700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 1.500,00 per onorari di avvocato oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 28 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2010

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