Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1724 del 23/01/2019

Cassazione civile sez. VI, 23/01/2019, (ud. 25/10/2018, dep. 23/01/2019), n.1724

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18281-2017 proposto da:

CAL.ME SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FILIPPO DE GRENET 15, presso

lo studio dell’avvocato MICHELE DE CILLIS, rappresentata e difesa

dagli avvocati NATALIA GIULIANO, GEROLAMO ANGOTTI;

– ricorrente –

contro

TELECOM ITALIA SPA (OMISSIS), in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato

GIUSEPPE DE LUCA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1165/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 21/06/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 25/10/2018 dal Consigliere Dott. GRAZIOSI CHIARA.

La Corte:

Fatto

RILEVATO

che:

Con atto di citazione del 19 giugno 2008 CAL.ME S.p.A. conveniva davanti al Tribunale di Catanzaro Telecom Italia S.p.A. per ottenerne il risarcimento di danni, patrimoniali e non patrimoniali, che le sarebbero derivati da suoi disservizi telefonici; la convenuta si costituiva resistendo.

Con sentenza del 24 maggio 2012 il Tribunale condannava la convenuta a risarcire controparte nella misura di Euro 27.948,50, e a rifonderle le spese processuali.

Telecom Italia S.p.A. proponeva appello, cui controparte resisteva, e che la Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza del 9 maggio – 21 giugno 2017, accoglieva, respingendo la domanda e condannando l’appellata a rifondere a controparte le spese di entrambi i gradi.

CAL.ME S.p.A. ha proposto ricorso, articolato in tre motivi – illustrati poi anche con memoria -, da cui si è difesa con controricorso Telecom Italia S.p.A.

Diritto

RITENUTO

che:

1. Il primo motivo denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 347 c.p.c., dell’art. 77disp. att. c.p.c., degli artt. 112,115 e 116 c.p.c. nonchè vizio motivazionale in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 e all’art. 111 Cost.

Il giudice d’appello afferma di non potere effettuare “autonoma valutazione delle eventuali fonti di prova delle prove documentali allegate al fascicolo di primo grado poichè detto fascicolo non è presente nell’incarto processuale”. Obietta la ricorrente che i documenti sarebbero stati numerati nell’atto di citazione in primo grado e ampiamente richiamati “nella parte motiva dell’atto”; pertanto la corte territoriale, se non poteva consultare il fascicolo dell’attuale ricorrente relativo al primo grado, avrebbe potuto però leggere “la copia ufficio” ove i documenti erano “indicati e richiamati”. Non si tratterebbe quindi di documenti eventuali, bensì esistenti; e la ricorrente “pretende che vengano valutati” insieme alle altre prove.

Quanto alla violazione e/o falsa applicazione di legge, la ricorrente osserva che il giudice d’appello ha deciso in assenza del fascicolo di parte; questo però risulterebbe depositato e mai ritirato, e la giurisprudenza insegnerebbe che la decisione adottata della corte territoriale è corretta solo se il fascicolo viene ritirato e non più depositato. Per dimostrare che il fascicolo di parte era stato depositato “si allega, a tal fine, la copia autentica del 29.06.2017” da cui risulterebbe che non fu mai ritirato. Pertanto il fascicolo sarebbe stato smarrito dalla cancelleria o dal relatore. Cass. n. 20184/2014afferma che, in caso di mancato rinvenimento di documenti al momento della decisione, il giudice è obbligato a disporne la ricerca; e lo stesso insegnamento detta la giurisprudenza per l’ipotesi di smarrimento del fascicolo (si invocano Cass. nn. 11352/2010 e 3055/2013), per cui, se manca il fascicolo o manca una parte di esso, il giudice deve disporre la ricostruzione qualora risulti che la mancanza sia involontaria: disposizione qui non data dalla corte territoriale, che in tal modo avrebbe omesso l’esame di fatti e documenti decisivi.

Questo motivo è privo di consistenza, perchè non indica in che termini gli elementi deducibili dai documenti prodotti nel fascicolo de quo sarebbero stati, appunto, rilevanti e decisivi rispetto alla prospettazione difensiva dell’attuale ricorrente, ovvero come avrebbero avuto un valore incidente ai fini della decisione di riconoscimento della mancata prova della domanda assunta poi dalla corte territoriale accogliendo l’appello. Sotto tale profilo, in effetti, il motivo deve essere qualificato inammissibile ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 2, in quanto non impregna di decisorietà concretizzante l’interesse sotteso la violazione dei principi regolatori del giusto processo che denuncia (cfr. da ultimo, tra gli arresti massimati, Cass. sez. 3, 26 settembre 2017 n. 22341 per cui la censura relativa ai “principi regolatori del giusto processo”, ovvero alle regole processuali ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “deve avere carattere decisivo, cioè incidente sul contenuto della decisione e, dunque, arrecante un effettivo pregiudizio a chi la denuncia” – e Cass. sez. 6-3, 2 agosto 2016 n. 16102 – per cui in tal caso “è necessaria l’illustrazione del carattere decisivo della prospettata violazione”, essendo altrimenti inutile la cassazione della decisione gravata -).

2. Il secondo motivo denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 342 e 345 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 e all’art. 111 Cost.; lamenta pure contraddittorietà decisionale nonchè omesso esame di fatti e documenti decisivi della controversia.

I motivi d’appello non sarebbero stati specifici, come l’attuale ricorrente avrebbe eccepito. La sentenza sarebbe inoltre affetta da una estrema contraddittorietà, e vi si rinverrebbero espressioni generiche, approssimative e prive di motivazione.

Questo motivo appare non autosufficiente in ordine alla conformazione dei motivi d’appello, per il cui contenuto non fornisce supporto neppure la sintesi posta nella della premessa espositiva dei fatti di causa. Per tutte le argomentazioni che lo intessono, comunque, la censura è generica pervenendosi quindi alla fattispecie di inammissibilità che discende dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6. Meramente ad abundantiam, quindi, si osserva che il giudice d’appello ha offerto una più che adeguata motivazione, peraltro neppure considerata integralmente nel presente motivo.

3. Il terzo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.

Anche qualora si aderisse alla tesi del giudice d’appello in ordine alla carenza probatoria, il danno dovrebbe comunque essere riconosciuto in via equitativa, e dovrebbero essere altresì riconosciuti sia le spese vive documentate degli stessi servizi resi “da altre società” durante il periodo di disservizio sia “l’importo previsto nelle condizioni dei servizi ed esattamente l’indennizzo del canone mensile corrisposto per ogni giorno lavorativo di ritardo”.

Il motivo presenta una natura direttamente fattuale, ovvero mirante ad ottenere dal giudice di legittimità una revisione della valutazione probatoria operata dal giudice di merito. Peraltro, anche qualora vi si riconoscesse la presenza di censure di diritto, non è negabile che si manifestano con modalità assertoria, scadendo quindi nella genericità (cfr. S.U. n. 7074/2017).

In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna della ricorrente alla rifusione delle spese del grado liquidate come da dispositivo – alla controricorrente; sussistono altresì D.P.R. n. 115 del 2012, ex art. 13, comma 1 quater, i presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso, condannando la ricorrente a rifondere alla controricorrente le spese processuali, liquidate in complessivi Euro 2200, oltre a Euro 200 per gli esborsi e al 15% per spese generali, nonchè agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 25 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2019

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