Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17234 del 13/07/2017


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Cassazione civile, sez. III, 13/07/2017, (ud. 26/05/2017, dep.13/07/2017),  n. 17234

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16037/2015 proposto da:

P.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA D. CHELINI 5,

presso lo studio dell’avvocato FABIO VERONI, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato MASSIMO CECIARINI giusta procura

speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COOPERATIVA AGAPE in persona del legale rappresentante pro tempore

B.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA C.

MIRABELLO 18, presso lo studio dell’avvocato UMBERTO RICHIELLO, che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO BASTIANINI

giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 762/2015 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 17/04/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

26/05/2017 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA CIRILLO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO Alberto, che ha concluso per il rigetto;

udito l’Avvocato MASSIMO CECIARINI;

udito l’Avvocato MARIA LUISA JAUS per delega.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La società cooperativa Agape, gestrice di una struttura di riposo per anziani, ottenne dal Tribunale di Grosseto un decreto ingiuntivo nei confronti di P.F. per la somma di Euro 30.179,49, a titolo di residuo retta di degenza della madre dello stesso, G.D., per gli anni 2010 e 2011 e di spese di acquisto di medicinali.

Avverso il decreto propose opposizione il P. e nel giudizio si costituì la società cooperativa, chiedendo il rigetto dell’opposizione.

Il Tribunale rigettò l’opposizione, confermò il decreto ingiuntivo e condannò l’opponente al pagamento delle spese di lite.

2. Impugnata la pronuncia dal P., la Corte d’appello di Firenze, con sentenza del 17 aprile 2015, ha rigettato l’appello, ha confermato la decisione del Tribunale ed ha condannato l’appellante al pagamento delle ulteriori spese del grado.

Ha osservato la Corte territoriale che era stato stipulato tra la società cooperativa Agape ed il P. un contratto di natura privatistica, fondato su di una causa pienamente lecita, rispetto al quale l’esistenza di una complessa normativa pubblicistica diretta a tutelare il diritto all’assistenza delle persone anziane e disabili rimaneva su un piano differente. Il contratto, da considerare come a favore di terzo, prevedeva l’obbligo, in capo al P., di fare fronte al pagamento della retta di degenza dell’anziana madre in caso di “comprovata indigenza” della medesima. Ora, anche ipotizzando che simile previsione fosse da intendere, come voleva l’opponente, nel senso di individuare un vero e proprio beneficio di escussione, era onere del P. dimostrare che sua madre fosse in possesso di risorse economiche tali da escludere l’indigenza; d’altronde, ha aggiunto la Corte d’appello, lo stesso P. aveva dichiarato di avere pagato sempre lui la retta di degenza, in tal modo “implicitamente ammettendo lo stato di indigenza della madre”.

Quanto all’ulteriore affermazione dell’appellante secondo cui l’obbligo di pagamento della retta a carico del degente o dei suoi familiari opera in mancanza di una convenzione con gli istituti a ciò predisposti (ASL, Comune e Comunità montana), la Corte fiorentina ha rilevato che era onere del P., che al contrario invocava l’esistenza di una simile convenzione, dimostrare la validità del suo assunto. A tal fine doveva ritenersi inutile la prova per interrogatorio e per testi già rigettata dal Tribunale, essendo idonea la sola prova documentale; prova che l’appellante non aveva fornito, senza neppure chiedere al giudice di disporre l’esibizione di tale documento ai sensi dell’art. 210 c.p.c..

3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Firenze propone ricorso P.F. con atto affidato a quattro motivi.

Resiste la società cooperativa Agape con controricorso.

Il ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2721-2724, 2725 e 2697 c.c., nonchè degli artt. 228, 230, 210, 213, 115, 116 e 633 c.p.c..

Il ricorrente contesta, innanzitutto, la mancata ammissione delle sue richieste istruttorie finalizzate a dimostrare l’esistenza di quella convenzione con gli enti locali che avrebbe reso non operativo l’obbligo di pagamento della retta a carico dei familiari della degente. La prova per interrogatorio e per testi, riportata in parte nel motivo, doveva essere ammessa, siccome finalizzata a dimostrare l’esistenza della convenzione come un semplice fatto. Sarebbero state poi violate anche le regole sull’onere della prova, perchè il ricorrente sostiene che non doveva essere lui a dimostrare l’esistenza della convenzione, bensì la società cooperativa a dimostrarne la mancanza, tramite il rilascio di apposita certificazione amministrativa.

1.1. Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

Osserva il Collegio, innanzitutto, che esso non contesta in alcun modo quella parte della motivazione nella quale la sentenza impugnata ha precisato che, ove l’odierno ricorrente si fosse trovato nella impossibilità di procurarsi l’atto scritto (cioè la convenzione), egli avrebbe comunque ben potuto attivarsi per sollecitare il giudice di merito ad utilizzare i poteri di cui all’art. 210 c.p.c.; mentre ciò non era stato mai fatto.

Tanto premesso, è appena il caso di aggiungere che la sentenza ha correttamente rilevato che nel caso in esame il documento, tanto più in considerazione della natura delle contestazioni avanzate dal ricorrente, aveva una valenza decisiva ed assorbente che non poteva essere surrogata dalla prova orale, la quale è stata, quindi, giustamente esclusa.

Quanto, infine, al presunto errore sul riparto dell’onere della prova, osserva la Corte che è fondato il rilievo, contenuto nel controricorso della società cooperativa Agape, secondo cui la questione andava dedotta, semmai, come violazione delle regole sull’interpretazione del contratto; posta nei termini di cui al motivo in esame, invece, la contestazione si risolve nell’evidente tentativo di sollecitare questa Corte ad un riesame del merito, per cui tale aspetto della censura è inammissibile.

2. Con il secondo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c..

Richiamato il testo della clausola contrattuale con cui si prevedeva l’obbligo di pagamento della retta a carico del firmatario (cioè il P.) a condizione che vi fosse uno stato di “comprovata indigenza dell’ospite”, il ricorrente osserva di aver prodotto in giudizio il modello 730 del 2011 della propria madre attestante il godimento di redditi di pensione e la sussistenza di redditi di fabbricati in proprietà per il 50 per cento; ciò dimostrerebbe l’assenza dell’indigenza. Sul punto vi sarebbe anche un errore nel riparto dell’onere della prova, posto che doveva essere la società Agape a dimostrare l’esistenza dell’indigenza, elemento che costituiva un presupposto di esigibilità della pretesa.

2.1. Il motivo non è fondato.

La valutazione della documentazione che dimostrerebbe l’assenza dell’indigenza della madre del ricorrente – con conseguente venire meno dell’obbligo del P. di far fronte al pagamento in questione – attiene ad un giudizio di merito che non è sindacabile in questa sede; oltre tutto, non è neppure contestata l’affermazione della sentenza impugnata, valutabile come argomento di prova, per cui era stato sempre il P. a pagare la retta. Quanto, infine, al presunto errore sulle regole di riparto dell’onere della prova, vanno ribadite le considerazioni già fatte a proposito del primo motivo di ricorso, e cioè che la contestazione sarebbe stata ammissibile soltanto se posta in termini di violazione delle regole in tema di ermeneutica contrattuale.

3. Con il terzo motivo si lamenta violazione dell’art. 1418 c.c., commi 1 e 2.

La censura è finalizzata a dimostrare che la Corte d’appello avrebbe errato nel negare l’esistenza della nullità del contratto stipulato tra le parti. Nella specie, infatti, la causa del contratto sarebbe quella di sopperire ad inadempienze ed obblighi che gravano sulle ASL e sui Comuni in base ad una serie di disposizioni che regolano l’assistenza di anziani e disabili. Il ricorso richiama l’art. 117 Cost., L. 8 novembre 2000, n. 328, art. 1, comma 1, D.Lg. 19 giugno 1999, n. 229, art. 3, comma 3 e la L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 54. Da tali norme deriverebbe la sussistenza di una previsione legale nel senso che il costo complessivo dell’assistenza del soggetto disabile sarebbe a carico per metà del Servizio sanitario nazionale e per l’altra metà del Comune di residenza. I familiari possono farsi carico, per ragione solidaristiche, di una compartecipazione alla spesa nei limiti dei loro mezzi; ma ciò non escluderebbe la nullità di un contratto finalizzato a porre a carico del familiare del degente un obbligo di fare fronte alle spese necessarie (si richiama la sentenza 23 febbraio 2012, n. 4558, di questa Corte).

3.1. Il motivo non è fondato.

3.2. Osserva la Corte, innanzitutto, che le numerose disposizioni di legge richiamate a sostegno della tesi della presunta nullità del contratto in questione non forniscono alcun riscontro nel senso auspicato dal ricorrente. In tal senso vanno letti della L. n. 328 del 2000, art. 1, comma 1, che genericamente prevede l’assicurazione alle persone ed alle famiglie di un sistema integrato di interventi e servizi sociali finalizzato a prevenire le condizioni di disabilità, bisogno e disagio derivanti dalla inadeguatezza delle condizioni di reddito; la L. n. 289 del 2002, art. 54, che individua i c.d. LEA (livelli essenziali di assistenza); nonchè del D.Lgs. n. 229 del 1999, art. 3, comma 3, che, aggiungendo il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, art. 3-septies, individua le prestazioni sociosanitarie “ad elevata integrazione sanitaria” nonchè le prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, poste a carico dei Comuni nei limiti delle risorse disponibili correlate ai livelli essenziali di assistenza.

Nessuna di tali disposizioni, che peraltro paiono connotarsi per il loro carattere programmatico, stabilisce la nullità di contratti stipulati da privati con altri privati per il mantenimento (integrale o parziale) di un familiare bisognoso di prestazioni assistenziali presso una struttura ricettiva che tali prestazioni sia in grado di offrire.

3.3. Non pertinente è, poi, il richiamo alla sentenza di questa Corte n. 4558 del 2012.

In quella pronuncia, infatti, si trattava della domanda proposta dai familiari di un soggetto affetto da morbo di Alzheimer volta alla ripetizione di quanto versato ad un Comune in relazione al ricovero del familiare presso una struttura di assistenza. La domanda fu accolta dalla Corte di merito ed il relativo ricorso fu rigettato da questa Corte, ma la diversità delle due situazioni è evidente. In quel caso, infatti, il Collegio rilevò che gli oneri delle attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio assistenziali erano da ritenere a carico del servizio sanitario nazionale e che “nel caso in cui, oltre alle prestazioni socio assistenziali siano erogate prestazioni sanitarie, l’attività va considerata comunque di rilievo sanitario e, pertanto, di competenza del Servizio sanitario nazionale”. In altri termini, in presenza di una “stretta correlazione fra prestazioni sanitarie ed assistenziali, tali da determinare la totale competenza del servizio sanitario nazionale”, non c’è spazio per un riparto di quote che presuppone la scindibilità delle due prestazioni. Fu proprio la “netta prevalenza degli aspetti di natura sanitaria” a guidare la decisione della Corte in quell’occasione, evidenziando la “totale assenza di una reale funzione economica del negozio, vale a dire un difetto genetico della causa intesa come ragione giustificativa, in concreto, del contratto” col quale il privato si era assunto il relativo onere economico, con conseguente nullità dello stesso.

Sulla stessa linea della sentenza ora richiamata si pone anche la più recente sentenza 9 novembre 2016, n. 22776, la quale, nell’interpretare la L. 27 dicembre 1983, n. 730, art. 30, ha stabilito che, nel caso in cui, oltre alle prestazioni socio assistenziali, siano erogate prestazioni sanitarie, tale attività va considerata comunque di rilievo sanitario in quanto diretta in modo prevalente alla tutela della salute, e quindi posta a carico del Servizio sanitario nazionale.

D’altra parte la sentenza 10 giugno 2010, n. 14006, pur occupandosi della legislazione della Regione Siciliana, ha affermato che le prestazioni socio assistenziali (in quel caso, il ricovero di persone anziane presso strutture private) possono essere poste a carico dei Comuni, trattandosi di prestazioni a tutela di un diritto costituzionalmente garantito, ma sempre nel limite dei relativi stanziamenti e delle risorse disponibili, dovendosi comunque effettuare un bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti (v. pure, in argomento, la sentenza 2 dicembre 2016, n. 24655, ove si affronta il problema dell’obbligo, per i Comuni, di disporre il ricovero delle persone anziane presso strutture private solo in presenza della relativa copertura finanziaria, posto che l’obbligo di assistenza non è incondizionato).

3.4. Dando continuità a tale complessa giurisprudenza, il Collegio osserva che, per esempio, sarebbe affetto da nullità il contratto col quale una persona si obbligasse a corrispondere una determinata somma come compenso per il ricovero in un ospedale pubblico, perchè è pacifico che in quel caso il carattere sanitario delle prestazione renderebbe nullo un simile contratto. Ma è altrettanto evidente che nel caso in esame le prestazioni delle quali si controverte, per come sono state descritte dal giudice di merito e sostanzialmente non contestate dal ricorrente, erano di carattere meramente assistenziale, trattandosi di rette per la degenza di un’anziana non autosufficiente presso una struttura residenziale assistita. La lettura del terzo motivo di ricorso, anzi, lascia intuire in filigrana che i problemi tra il P. e la società cooperative Agape si posero quando questa subentrò nella gestione della casa di residenza dell’anziana madre del ricorrente; per cui non è ipotizzabile alcuna nullità del contratto stipulato tra le parti, posto che non risulta essere stata neppure prospettata l’esistenza di prestazioni sanitarie, in forma esclusiva o prevalente su quelle di carattere assistenziale.

Tutto ciò comporta l’infondatezza del motivo in esame.

4. Con il quarto motivo si lamenta violazione dell’art. 1418 c.c., sotto altro e diverso profilo.

Osserva il ricorrente che il contratto da lui firmato sarebbe nullo perchè contrario ai principi sulla dignità della tutela del disabile, principi che escluderebbero interventi “compassionevoli” in suo favore ove avvenuti a sua insaputa e benchè a suo vantaggio.

4.1. Il motivo è inammissibile.

Esso contiene, infatti, un’evidente forzatura laddove giunge ad ipotizzare una nullità del contratto che deriverebbe dalla lesione della dignità personale della persona assistita, sul rilievo che sarebbero esclusi interventi “compassionevoli” all’insaputa del beneficiario (il ricorso richiama, addirittura, la Convenzione di New York del 13 dicembre 2006 sui diritti delle persone con disabilità).

La doglianza investe piuttosto profili di valutazione politica, rilevando che il disabile dovrebbe essere assistito con onere integrale a carico del bilancio dello Stato, senza essere a sua insaputa ricoverato con oneri a carico dei propri familiari. E’ appena il caso di notare che tali riflessioni esulano dal campo giuridico e che, comunque, l’obbligo di assistenza nei confronti dei genitori rientra tra i doveri di solidarietà familiare che sono certamente oggetto di espresso riconoscimento a livello di norme costituzionali ed ordinarie.

5. Il ricorso, pertanto, è rigettato.

A tale esito segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

Sussistono inoltre le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 4.000, di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 26 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2017

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