Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17232 del 13/07/2017


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Cassazione civile, sez. III, 13/07/2017, (ud. 19/04/2017, dep.13/07/2017),  n. 17232

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14043/2015 proposto da:

D.C.G.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

NOMENTANA 257, presso lo studio dell’avvocato GIANFRANCO DOSI,

rappresentato e difeso dagli avvocati LAURA MARCHESE, PIETRO PAOLO

FERRARA giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

D.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL TRITONE

N. 169 C/O LO STUDIO D’AVACK, presso lo studio dell’avvocato RENATA

SULLI, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 105/2015 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 26/01/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/04/2017 dal Consigliere Dott. SALVATORE SAIJA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SOLDI Anna Maria, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato LAURA MARCHESE;

udito l’Avvocato MASSIMO DI PAOLO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Pescara, con sentenza del 17.2.2011, rigettò l’opposizione proposta da D.C.G.A. avverso il precetto intimatogli dalla ex coniuge D.C. per il pagamento di Euro 843.157,97, a titolo di arretrati per il mantenimento per sè e per i figli G. e A.. Il Tribunale ha infatti ritenuto che l’assegno divorzile deve essere corrisposto dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio (nella specie avvenuto nel 2001, essendo stata emessa sentenza parziale sul vincolo) e non da quello della emissione della sentenza concernente gli aspetti patrimoniali, pubblicata il 10.1.2006, come invece sostenuto dall’opponente. Per quanto ancora qui interessa (e da ciò che può ricavarsi dal ricorso e dalla sentenza impugnata), pronunciando sulla proposta opposizione a precetto, il Tribunale pescarese rigettò anche nel resto l’opposizione, per mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del D.C. in ordine ai dedotti fatti estintivi, modificativi o impeditivi della pretesa della D., successivi alla formazione dei titoli giudiziali azionati dalla predetta.

Il D.C. appellò la decisione del Tribunale di Pescara, ma la Corte d’appello dell’Aquila, con sentenza del 26.1.2015, rigettò il gravame, confermando la sentenza di primo grado.

Ricorre ora per cassazione D.C.G.A., affidandosi a quattro motivi. L’intimata resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1 – Con il primo motivo, deducendo “violazione e/o falsa applicazione di principi di diritto in materia di cessazione della materia del contendere in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, si contesta la sentenza impugnata laddove ha ritenuto che gli effetti della decisione sugli aspetti economici riguardo ai figli (ossia, la sentenza del Tribunale di Pescara del 10.1.2006, parzialmente confermata dalla Corte d’appello dell’Aquila con sentenza n. 49/2009 del 29.1.2009, che peraltro aveva dichiarato la cessazione della materia del contendere sull’assegno concernente i figli, e passata in cosa giudicata) dovessero retroagire al momento della proposizione della domanda, senza peraltro tener conto degli effetti della stessa decisione d’appello n. 49/2009. Ciò perchè la pronuncia di cessazione della materia del contendere è inidonea al giudicato, se non rispetto al venir meno dell’interesse alla pronuncia, e travolge le statuizioni di merito non coperte dal giudicato stesso (Cass., Sez. Un. n. 1048/2000). Pertanto, tra la data di proposizione della domanda divorzile e l’emanazione della relativa decisione, quanto alle statuizioni sui figli, non potevano che applicarsi le disposizioni della separazione (di cui al decreto di omologa emesso dal Tribunale di Pescara in data 15.3.1995), cui il D.C. s’era sempre attenuto.

1.2 – Con il secondo motivo, deducendo “violazione dei principi di diritto nulla executio sine titulo e non est inchoandum ab executione e conseguente mancata declaratoria di nullità e/o inefficacia del precetto nella parte avente ad oggetto la richiesta di somme per arretrati assegni figli nonchè violazione degli artt. 474 e 480 c.p.c., il tutto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, riguardo alle statuizioni sugli arretrati per il mantenimento dei figli, si censura la decisione impugnata perchè non si è rilevato che la D. non aveva diritto di procedere ad esecuzione forzata per difetto di titolo, tale non potendo intendersi la sentenza del Tribunale di Pescara del 10.1.2006, proprio perchè caducata dalla decisione della Corte d’appello dell’Aquila n. 49/2009, che aveva dichiarato in proposito la cessazione della materia del contendere. Conseguentemente, la Corte territoriale aveva anche errato nel non rilevare la violazione dell’art. 480 c.p.c., che impone la descrizione nel corpo del precetto del titolo esecutivo azionato.

1.3 – Con il terzo motivo, deducendo “violazione o falsa applicazione di norme e principi di diritto in materia di decorrenza dell’assegno di mantenimento in favore della prole in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3″, si sostiene che erroneamente la Corte d’appello ha fatto retroagire gli effetti delle statuizioni sui figli al momento della proposizione della domanda, anzichè a quello della pubblicazione della decisione, stante la natura meramente determinativa della pronuncia, che non può operare per il passato. Il ricorrente” invoca in proposito l’insegnamento di Cass. n. 18538/2013, secondo cui “In tema di mantenimento dei figli minori, l’assegno perequativo disposto dal giudice nella sentenza di separazione decorre dalla data della decisione e non dalla data della proposizione della domanda, trattandosi di una pronuncia determinativa che non può operare per il passato, per il quale continuano a valere le determinazioni provvisorie di cui agli artt. 708 e 709 c.p.c.”.

1.4 – Con il quarto motivo, infine, deducendo “violazione dei principi di diritto nulla executio sine titulo e non est inchoandum ab executione e conseguente mancata declaratoria di nullità e/o inefficacia del precetto nella parte avente ad oggetto la richiesta di somme per rivalutazione ed arretrati vacanze nonchè violazione nonchè falsa applicazione dell’art. 474 e dell’art. 480 c.p.c., il tutto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in relazione alle somme richieste per “rivalutazione ed arretrati vacanze” estive ed invernali, pari ad Euro 75.221,44, si censura la decisione impugnata perchè anzitutto egli aveva puntualmente corrisposto il dovuto; inoltre, la Corte territoriale non ha rilevato il difetto di titolo esecutivo al riguardo: il titolo, infatti, non è costituito dalla sentenza del Tribunale di Pescara del 10.1.2006, bensì dal decreto di omologa della separazione consensuale, emesso dallo stesso Tribunale abruzzese in data 15.3.1995; tale titolo, tuttavia, non è stato indicato in precetto dalla D., che pertanto non ha inteso avvalersene a sostegno della propria azione esecutiva, il che sarebbe stato espressamente eccepito dallo stesso D.C. con l’atto di citazione in appello. Infine, la Corte sarebbe incorsa nella violazione dell’art. 480 c.p.c., analogamente a quanto già esposto col secondo motivo.

2.1 – Preliminarmente, vanno disattese le eccezioni della controricorrente in relazione al primo motivo, che sarebbe affetto, in tesi, da difetto di autosufficienza e al secondo, contenente censura di violazione di norma di diritto anzichè denuncia di error in procedendo.

Infatti, il ricorso riporta anzitutto il dictum della sentenza della Corte d’appello n. 49/2009, con cui si dichiara “cessata la materia del contendere in relazione all’assegno dovuto ai figli”, il che – contrariamente all’assunto e tenuto conto che detta sentenza è proprio uno dei titoli esecutivi azionati dalla D. – basta ad assolvere l’onere in discorso. Quanto al secondo motivo, la relativa eccezione è del pari infondata, perchè il D.C. lamenta chiaramente un error juris in judicando, non essendosi in tesi rilevato il presupposto dell’azione esecutiva, ossia l’esistenza del titolo. Peraltro, la questione può dirsi in concreto superata alla luce dell’insegnamento di Cass., Sez. Un. n. 17931/2013, poichè – a prescindere dall’esatta indicazione del paradigma di cui all’art. 360 c.p.c. – nella specie la censura è del tutto specifica e circostanziata e non riguarda nè la nullità della sentenza, nè del procedimento.

2.2 – Riguardo al quarto motivo, la controricorrente ha in primo luogo eccepito che esso – nella parte concernente il preteso integrale adempimento degli obblighi in questione da parte del D.C. -, non sarebbe stato sviluppato come un vero e proprio motivo. Inoltre, relativamente al profilo concernente la pretesa omessa pronuncia circa la nullità del precetto per violazione dell’art. 480 c.p.c., la D. ha eccepito l’inammissibilità della censura per non essere stato riportato il motivo d’appello che sarebbe stato in tesi pretermesso, per non essere stata indicata la data di notifica dell’opposizione a precetto e per non aver fornito quindi il D.C. elementi idonei affinchè la Corte potesse verificare la tempestività dell’opposizione, trattandosi di questione denunciabile nei termini di cui all’art. 617 c.p.c.; sul punto, ha comunque dedotto che tale motivo di opposizione non era stato mai prima formulato, come evincibile dal testo dell’atto introduttivo e della sentenza di primo grado, riprodotti nel controricorso.

Dette eccezioni sono fondate, ma involgendo le relative questioni l’intero ricorso, e non solo il quarto motivo, di esse si dirà meglio nel prosieguo, anche per comodità espositiva.

3.1 – Ciò posto, i motivi possono esaminarsi congiuntamente, stante l’intima connessione, e vanno dichiarati inammissibili per plurime concorrenti ragioni.

4.1 – Al riguardo, deve anzitutto rilevarsi che il D.C. non ha riportato, nel corpo del ricorso, gli specifici motivi d’appello proposti avverso la sentenza del Tribunale di Pescara del 17.2.2011, ma soltanto le conclusioni rassegnate (v. ricorso, pp. 8-9). Ora, ciò determina, ex se, l’inammissibilità della seconda censura del quarto motivo (ossia, quella concernente il fatto che la D., quanto agli arretrati per le vacanze dei figli, fosse sprovvista di titolo esecutivo – v. ricorso, p. 19), essendo stata denunciata, sostanzialmente, l’omessa pronuncia (v. Cass. n. 17049/2015; Cass. n. 14561/2012), come anche eccepito dalla controricorrente; tuttavia, avuto riguardo anche alle restanti censure, con cui il D.C. lamenta pretese violazioni di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), non v’è dubbio che dal ricorso stesso debba comunque emergere se la controversia, come dipanatasi in primo grado, sia stata interamente o solo parzialmente devoluta al giudice d’appello: soltanto in tal modo la Corte può essere messa in condizione di verificare se, dalla sola lettura del ricorso, i motivi proposti in questa sede di legittimità concernano ancora questioni “vive”, ovvero riguardino questioni ormai non più attuali, perchè coperte dal giudicato interno. Il che ulteriormente presuppone che il ricorrente debba anche indicare, seppur sommariamente, l’esatto oggetto del contendere del giudizio di primo grado (id est, nella specie, almeno le specifiche ragioni dell’opposizione a precetto) e il contenuto della decisione adottata dal primo giudice, comprensiva delle relative motivazioni.

Nulla di tutto ciò emerge dal ricorso in esame, in patente violazione del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3).

4.2 – Nè assume rilievo, al riguardo, la condotta processuale della D., che ha trascritto nel controricorso il contenuto dell’atto di opposizione a precetto e della sentenza di primo grado.

In proposito, deve anzitutto evidenziarsi che tale scelta processuale della controricorrente non vale a colmare la lacuna espositiva in cui è incorso il D.C., giacchè i requisiti di cui all’art. 366 c.p.c., sono dettati a pena di inammissibilità, non sanabili dalla condotta processuale dell’avversario, insuscettibile di determinare il raggiungimento dello scopo (si vedano sul punto, in tema d’appello, Cass., Sez. Un. n. 16/2000 e, più recentemente, Cass. n. 18932/2016); inoltre, va rilevato che la Corte non può, motu proprio, accedere direttamente all’esame degli atti (consentito soltanto per gli errores in procedendo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) e sempre che il ricorso abbia superato lo scrutinio di ammissibilità – v. da ultimo Cass. n. 2771/2017 -, il che esclude che tale accesso sia percorribile anche soltanto riguardo alla già descritta seconda censura del quarto motivo), poichè quelli denunciati dal D.C. sono vizi rientranti nel paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

5.1 – Peraltro, dall’esame dei motivi che occupano, emerge che il D.C., nella sostanza, imputa alla Corte d’appello aquilana: a) il mancato rilievo d’ufficio del difetto di titolo esecutivo in capo alla D. circa le somme pretese per il mantenimento dei figli, in ragione della pretesa caducazione delle statuizioni che li concernono, contenute nella sentenza del Tribunale di Pescara del 10.1.2006, a seguito della declaratoria di cessazione della materia del contendere disposta dalla Corte d’appello dell’Aquila con sentenza n. 49/2009; b) l’errore di giudizio circa la decorrenza dell’assegno di mantenimento dei figli, individuata nel momento di proposizione della domanda anzichè, come da lui ritenuto, nel momento della decisione; c) l’errore di giudizio nel non aver rilevato il difetto di titolo esecutivo in capo alla D. riguardo agli arretrati per le vacanze estive ed invernali dei figli, consistente a suo dire nel decreto di omologa del 15.3.1995 e non, invece, nella sentenza del 10.1.2006 (censura, come già detto, comunque inammissibile); e d) il preteso mancato rilievo dell’assenza di indicazione del titolo esecutivo effettivamente azionabile (ossia, il ripetuto decreto di omologa) nel precetto, in violazione dell’art. 480 c.p.c..

5.2 – Tuttavia, dalla semplice lettura della sentenza impugnata, emerge con assoluta chiarezza che il D.C., con l’appello, aveva proposto quattro motivi d’impugnazione, di cui due soltanto concernenti le statuizioni riguardo ai figli, ancora oggetto di discussione in questa sede: aa) col secondo motivo, in particolare, il D.C. lamentava l’erroneità della decisione di primo grado, per aver il Tribunale di Pescara computato l’assegno di mantenimento dei figli anche per un periodo dell’anno 1998, per il 1999, per il 2000 e per il mese di gennaio 2001, mentre ai figli spettava l’assegno solo a decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza parziale sul vincolo, quindi dal 1.2.2001 fino al 10.1.2006; bb) col terzo motivo, poi, il D.C. lamentava l’erroneità della prima decisione in relazione alla domanda di pagamento degli arretrati per le vacanze estive ed invernali dei figli, perchè la D. non avrebbe fornito la prova delle spese effettivamente sostenute al riguardo, nè che l’ex coniuge non avesse adempiuto.

In proposito, la Corte aquilana – rigettando l’appello – ha ritenuto, quanto al secondo motivo e richiamando la relativa giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 3050/1994; Cass. n. 21087/2004), che l’assegno divorzile in favore dei figli minori debba computarsi dalla data della domanda, e non da quella della decisione; quanto al terzo motivo, che le spese per le vacanze dei figli risultavano determinate forfetariamente in sede di separazione e che il D.C. non aveva fornito la prova dell’adempimento.

5.3 – Queste essendo le ragioni della decisione, rese in funzione dei motivi d’appello proposti dal D.C. (come risultanti dalla sentenza stessa, giacchè egli, come già detto, non li ha riportati in seno al ricorso), è assolutamente evidente come i motivi qui in esame difettino di congruenza rispetto alla “porzione” di controversia devoluta al giudice di secondo grado: essi sono talmente incompatibili con la ratio decidendi della sentenza impugnata da sembrare prescinderne, e sono quindi inammissibili anche per tal verso.

In altre parole, se in appello il D.C. – dopo aver affermato con l’opposizione a precetto di null’altro dovere, oltre quanto già pagato (v. ricorso, p. 7) – ha censurato la prima decisione soltanto riguardo alla ritenuta non debenza dell’assegno di mantenimento dei figli nel periodo giugno 1998-gennaio 2001, senza però dolersi dell’entità dell’assegno stesso, che il Tribunale di Pescara, con la sentenza del 17.2.2011, aveva considerato correttamente quantificato in precetto dalla D. (in misura pari ad Euro 7.000,00 mensili per entrambi i figli; ciò si evince dal fatto che, come riportato in ricorso, il giudice di primo grado aveva rigettato in toto l’opposizione a precetto), non può egli in questa sede dolersi del fatto che, a causa della dichiarata cessata materia del contendere di cui alla ripetuta sentenza n. 49/2009, detto assegno mensile andava in realtà determinato come da decreto di omologa del 15.3.1995.

Quanto poi agli arretrati per le vacanze dei figli, che anche qui si pretenderebbe di determinare nella misura stabilita dal detto decreto di omologa, anzichè dalla sentenza del 10.1.2006, a parte il già rilevato profilo di inammissibilità, il D.C. non ha minimamente censurato la decisione della Corte d’appello dell’Aquila, che, nel rigettare il terzo motivo di gravame, aveva ritenuto che dette spese erano state determinate forfetariamente e che egli, contrariamente all’assunto, non aveva dato prova del proprio adempimento. Anche la prima censura del quarto motivo, come correttamente eccepito dalla D., è quindi inammissibile, risolvendosi essa in un “non motivo”.

5.4 – Non è casuale, a ben vedere, che il D.C. (con argomenti spesi nel primo e soprattutto nel secondo e quarto motivo del ricorso in esame) lamenti il preteso errore in cui sarebbe al riguardo incorso il giudice d’appello, ancorando però espressamente la presunta erroneità non già – come invece avrebbe dovuto – alle specifiche censure da esso ricorrente proposte in appello rispetto alla decisione di primo grado, che il secondo giudice avrebbe erroneamente disatteso, bensì al mancato esercizio del potere-dovere del giudice di verificare, anche d’ufficio, la sussistenza del titolo esecutivo in capo a colui che minacci l’esecuzione forzata. Il che costituisce la miglior riprova che le censure in discorso non erano state proposte dinanzi alla Corte d’appello e che, pertanto, esse non possono più esserlo in questa sede.

Infatti, dalla formulazione del secondo motivo d’appello (come emergente dalla sentenza impugnata) si evince che il D.C. non contestò il fatto che il titolo esecutivo per l’assegno di mantenimento dei figli non potesse essere costituito dalla sentenza del Tribunale di Pescara del 10.1.2006, dandolo anzi per presupposto; in particolare, il D.C. si lamentò (soltanto) della concessione dell’assegno per i figli per il periodo giugno 1998-gennaio 2001, mentre in questa sede sostiene (col terzo motivo) che, invece, lo stesso sarebbe spettato solo dalla data della decisione (ossia, dal 10.1.2006). Nulla aggiunge, poi, al riguardo, la formulazione del terzo motivo d’appello (v. sentenza impugnata, p. 8), dal momento che esso si risolve in una mera contestazione della presunta violazione delle regole sull’onere probatorio.

6.1 – Nè tantomeno la questione del difetto di titolo esecutivo può recuperarsi, come tenta di fare il D.C., censurando il mancato esercizio dei poteri officiosi da parte del giudice d’appello, quale giudice dell’opposizione all’esecuzione.

Sostiene infatti il ricorrente che la sentenza della Corte d’appello dell’Aquila n. 49/2009 del 29.1.2009, nel confermare parzialmente la sentenza del Tribunale di Pescara del 10.1.2006, aveva anche dichiarato la cessazione della materia del contendere sull’assegno concernente i figli; conseguentemente, detta sentenza avrebbe travolto (anche) dette ultime statuizioni, sicchè la pretesa della D. non può dirsi assistita da titolo esecutivo (nel senso, cioè, che questo non può individuarsi nella sentenza del 10.1.2006, bensì nel decreto del 15.3.1995, tuttavia non azionato dalla stessa D. in seno al precetto): la Corte d’appello abruzzese, quindi, con la sentenza impugnata, avrebbe omesso di esercitare i detti poteri officiosi.

6.2.1 – In proposito, è noto che, nella giurisprudenza di questa Corte, si contrappongono due orientamenti: secondo il primo, maggioritario, “Il giudice dell’opposizione all’esecuzione è tenuto a compiere d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, ed anche per la prima volta nel giudizio di cassazione, la verifica sulla esistenza del titolo esecutivo posto alla base dell’azione esecutiva, potendo rilevare sia l’inesistenza originaria del titolo esecutivo sia la sua sopravvenuta caducazione, che – entrambe – determinano l’illegittimità dell’esecuzione forzata con effetto “ex tunc, in quanto l’esistenza di un valido titolo esecutivo costituisce presupposto dell’azione esecutiva stessa” (tra le altre, Cass. n. 15363/2011; Cass. n. 11021/2011; Cass. n. 22430/2004; Cass. n. 7631/2002; Cass. n. 9293/2001; Cass. 3728/2000; ma il principio era già stato affermato da Cass. n. 4092/1974). Ancora di recente (Cass. n. 16610/2011), è stato affermato che “L’opposizione all’esecuzione a norma dell’art. 615 c.p.c., si configura come accertamento negativo della pretesa esecutiva del creditore procedente che va condotto sulla base dei motivi di opposizione proposti, che non possono essere modificati dall’opponente nel corso del giudizio. L’esistenza del titolo esecutivo con i requisiti prescritti dall’art. 474 c.p.c., costituisce, peraltro, presupposto indefettibile per dichiarare il diritto a procedere all’esecuzione. Ne consegue che il giudice dell’esecuzione ha il potere-dovere – con accertamento che esaurisce la sua efficacia nel processo esecutivo in quanto funzionale all’emissione di un atto esecutivo e non alla risoluzione di una controversia nell’ambito di un ordinario giudizio di cognizione – di verificare l’idoneità del titolo e di controllare la correttezza della quantificazione del credito operata dal creditore nel precetto, mentre in sede di opposizione l’accertamento dell’idoneità del titolo ha natura preliminare per la decisione dei motivi proposti anche se questi non investano direttamente tale questione”. In quest’ottica, e con specifico riferimento alla regolamentazione delle spese, pur nel caso di rilievo d’ufficio, si veda infine Cass. n. 3977/2012, secondo cui “In sede di opposizione all’esecuzione con cui si contesta il diritto di procedere all’esecuzione forzata perchè il credito di chi la minaccia o la inizia non è assistito da titolo esecutivo, l’accertamento dell’idoneità del titolo a legittimare l’azione esecutiva si pone come preliminare dal punto di vista logico per la decisione sui motivi di opposizione, anche se questi non investano direttamente la questione. Pertanto, dichiarata cessata la materia del contendere per effetto del preliminare rilievo dell’avvenuta caducazione del titolo esecutivo nelle more del giudizio di opposizione, per qualunque motivo sia stata proposta, l’opposizione deve ritenersi fondata, e in tale situazione il giudice dell’opposizione non può, in violazione del principio di soccombenza, condannare l’opponente al pagamento delle spese processuali, sulla base della disamina dei motivi proposti, risultando detti motivi assorbiti dal rilievo dell’avvenuta caducazione del titolo con conseguente illegittimità “ex tunc” dell’esecuzione” (principio da ultimo confermato da Cass. n. 1925/2015).

L’indirizzo in discorso, nella sostanza, equipara – quanto alla verifica del fondamento sostanziale dell’espropriazione i poteri del giudice dell’opposizione rispetto a quelli del giudice dell’esecuzione, sul presupposto che solo l’esistenza originaria del titolo esecutivo e la sua permanenza per tutta la durata del processo giustificano quell’alterazione coattiva del rapporto tra creditore e debitore, derivante dal mancato adempimento spontaneo di quest’ultimo, che non avrebbe ragion d’essere ove esso mancasse ab origine, o venisse meno in seguito, solo così giustificandosi da un lato il potere di aggredire il patrimonio del debitore, e dall’altro l’esito finale del processo esecutivo, mediante l’attribuzione ai creditori del ricavato.

6.2.2 – A tale orientamento si contrappone altro, di segno diametralmente opposto, secondo cui “Il potere – dovere del giudice di verificare d’ufficio l’esistenza del titolo esecutivo va coordinato, in sede di opposizione all’esecuzione, con il principio della domanda e con quello della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, fissati dagli art. 99 e 112 c.p.c.. Pertanto, ove sia in contestazione la liquidità del credito fatto valere, l’eventuale difetto di titolo esecutivo non può essere rilevato d’ufficio dal giudice” (Cass. n. 3316/2002; nello stesso senso, Cass. n. 3477/2003). Si rileva infatti, a sostegno di tale indirizzo, che “l’opponente ha veste sostanziale e processuale di attore; pertanto, le eventuali eccezioni da lui sollevate per contrastare il diritto del creditore a procedere ad esecuzione forzata costituiscono causa petend’ della domanda proposta con il ricorso in opposizione e sono soggette al regime sostanziale e processuale della domanda. Ne consegue che l’opponente non può mutare la domanda modificando le eccezioni che ne costituiscono il fondamento, nè il giudice può accogliere l’opposizione per motivi che costituiscono un mutamento di quelli espressi nel ricorso introduttivo, ancorchè si tratti di eccezioni rilevabili d’ufficio” (così, più recentemente, Cass. n. 1328/2011).

6.3 – Ora, anche il tentativo così percorso dal D.C. si rivela inammissibile: infatti, perchè possa censurarsi il mancato esercizio del potere officioso da parte del giudice, occorre che si alleghino e dimostrino i presupposti (anche in fatto) che avrebbero potuto giustificare detto esercizio; avuto riguardo al ricorso in esame, il D.C. avrebbe quindi dovuto indicare che la questione dell’inidoneità del titolo esecutivo azionato dalla D. col precetto opposto non era stata da lui specificamente sollevata con l’opposizione: se così fosse stato, infatti, la relativa statuizione del primo giudice avrebbe dovuto essere oggetto di specifica impugnativa, di cui però non v’è traccia. Tale aspetto, in realtà, nella prospettazione del D.C., è rimasto totalmente oscuro, perchè l’odierno ricorrente, come già rilevato, ha soltanto riportato nel ricorso le conclusioni di primo grado (v. ricorso, pp. 7-8), da cui si rileva che egli negava di essere debitore di alcunchè, senza però specificare le ragioni di opposizione. Il deficit espositivo in cui è incorso il ricorrente, pertanto, impedisce a questa Corte di verificare se effettivamente il giudice d’appello avrebbe potuto attivare i propri poteri officiosi riguardo alla pretesa mancanza del titolo esecutivo, e ciò anche a prescindere dall’orientamento – tra quelli al riguardo prima esposti – che questo Collegio dovesse ritenere preferibile, e quindi, a prescindere dall’opzione interpretativa sulla sussistenza o meno di detti poteri officiosi.

E’ infatti evidente che, ove tale questione fosse stata proposta dall’odierno ricorrente già con l’opposizione a precetto (il che, si ripete, non emerge dal ricorso), la mancata impugnativa della decisione di primo grado sul punto da parte del D.C. (evincibile dal tenore dei motivi effettivamente proposti, come riportati nella sentenza impugnata) avrebbe comportato che la questione sarebbe comunque coperta dal giudicato già dal momento della proposizione del gravame, sicchè alcun potere avrebbe potuto esercitarsi al riguardo, ove anche in ipotesi sussistente.

6.4 – Solo per completezza, vale la pena qui aggiungere che è vero che, come sostenuto dal ricorrente, la sentenza che pronunci la cessata materia del contendere comporta la caducazione delle sentenze rese nei gradi precedenti (in tal senso, Cass., Sez. Un. n. 1048/2000); di conseguenza, potrebbe in prima battuta ritenersi che, nella specie, le statuizioni sui figli operate in primo grado sarebbero tutte venute meno.

Senonchè, nel caso in esame, assume rilievo decisivo la circostanza che la detta pronuncia di cessazione è stata adottata in funzione del fatto che i figli, nel dicembre 2005, andarono a vivere col padre. Ciò risulta dalla stessa sentenza n. 49/2009 (si veda il passaggio riportato nel controricorso, pp. 5-6), in cui si rileva che l’efficacia della sentenza del Tribunale pescarese del 10.1.2006 era stata sospesa proprio per tale ragione. Con espressa statuizione, poi, la stessa Corte aquilana ha precisato che la cessazione della materia del contendere sarebbe valsa per il futuro, mentre fino alla decisione di primo grado (ossia, fino al 10.1.2006) “l’assegno relativo ai ragazzi resta fissato nella misura precedentemente stabilita”. Se così stanno le cose, deve pertanto ritenersi che, nella specie, la pronuncia sulla cessazione della materia del contendere non ha affatto comportato la caducazione delle precedenti statuizioni, essendosi preso atto che gli ex coniugi non avevano più ragioni di contesa per effetto di un fatto sopravvenuto, ossia il trasferimento dei figli presso il padre. E’ la stessa sentenza a disporre, quindi, sotto il profilo temporale, non solo per il futuro (nel senso di cui s’è detto), ma anche per il passato (con il passaggio virgolettato prima riportato).

Di conseguenza, non s’è verificata alcuna caducazione del titolo esecutivo, come invece sostenuto in questa sede dall’odierno ricorrente, giacchè è proprio la sentenza n. 49/2009 a dettare la regola circa il mantenimento dei figli: in ogni caso, quindi, alcun potere officioso della Corte d’appello avrebbe potuto attivarsi al riguardo.

7.1 – Altra questione sarebbe, a tal punto, analizzare cosa la Corte abbia inteso dire con la ripetuta espressione virgolettata, sopra riportata, ma il suo esame resta precluso dall’inammissibilità del ricorso (o, se si preferisce, dalla mancata proposizione di pertinenti motivi d’impugnativa, concernenti l’interpretazione del titolo esecutivo e compatibili con la pregressa condotta processuale del D.C., che in primo grado è sembrato percorrere tale linea – v. controricorso, pp. 22-23 -, per poi abbandonarla in appello).

8.1 – Infine, la carenza espositiva già illustrata finisce col travolgere ulteriormente anche i pretesi profili di illegittimità della sentenza per violazione dell’art. 480 c.p.c., per non essere stato descritto il titolo esecutivo “giusto” nel corpo del precetto: ciò concerne non solo quelli di cui al quarto motivo, come eccepito dalla D., ma anche quelli di cui al secondo.

Infatti, premesso che i vizi denunciati devono farsi valere con l’opposizione agli atti c.d. preesecutiva, ex art. 617 c.p.c., il D.C. non ha neppure indicato, in ricorso, nè la data di proposizione dell’opposizione (al fine di poterne verificare la tempestività), nè se detti vizi fossero stati con essa denunciati, nè cosa abbia statuito sul punto (in eventum) il primo giudice, nè se tale ipotetica statuizione sia stata gravata d’appello, nè, infine, quale sia stata (nel caso) la decisione del secondo giudice al riguardo: insomma, stando al ricorso, deve ritenersi che i descritti vizi siano stati denunciati per la prima volta in questa sede, e le censure siano quindi inammissibili anche per questa ragione.

9.1 – In definitiva, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Le spese di lite del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

In relazione alla data di proposizione del ricorso per cassazione (successiva al 30 gennaio 2013), può darsi atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

PQM

 

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre al rimborso forfetario spese generali in misura del 15%, ad Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza del presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, il 19 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2017

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