Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17231 del 22/07/2010

Cassazione civile sez. lav., 22/07/2010, (ud. 26/05/2010, dep. 22/07/2010), n.17231

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

COOPERATIVA SOCIALE FARO 85 A.R.L., in persona del legale

rappresentante pro tempore, gia’ elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA SABOTINO 2, presso lo studio dell’avvocato DE ARCANGELIS GIORGIO,

rappresentata e difesa dall’avvocato DE ARCANGELIS EGIDIO, giusta

delega in calce al ricorso e da ultimo domiciliata d’ufficio presso

LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– ricorrente –

contro

P.V.;

– intimata –

e sul ricorso n. 32531/2006 proposto da:

P.V., gia’ elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

PAOLO MERCURI 8, presso lo studio dell’avvocato PLACANICA CESARE, che

lo rappresenta e difende, giusta delega in calce al controricorso e

ricorso incidentale e da ultimo domiciliata d’ufficio presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

COOPERATIVA SOCIALE FARO 85 A.R.L.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 449/2006 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 30/06/2006 R.G.N. 1146/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

26/05/2010 dal Consigliere Dott. PIETRO ZAPPIA;

udito l’Avvocato DE ARCANGELIS EGIDIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ABBRITTI Pietro che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale, inammissibilita’ del ricorso incidentale.

 

Fatto

Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Messina, regolarmente notificato, P.V., dipendente della Cooperativa Sociale Faro 85, impugnava il licenziamento alla stessa intimato in data 16.9.1999, assumendo l’insussistenza delle ragioni organizzative poste dalla Cooperativa a fondamento del provvedimento solutorio adottato.

Istauratosi il contraddittorio, la Cooperativa predetta eccepiva la decadenza della ricorrente dall’azione giudiziaria per la decorrenza del termine di sessanta giorni utili ai fini dell’impugnativa del licenziamento; e nel merito contestava le deduzioni della ricorrente rilevando la legittimita’ del proprio operato.

Con sentenza in data 13.10.2003 il Tribunale adito accoglieva la domanda, disattendendo l’eccezione di decadenza sollevata dalla resistente e dichiarando l’illegittimita’ del licenziamento intimato alla ricorrente, con condanna della Cooperativa convenuta alla reintegrazione nel posto di lavoro ed alla corresponsione delle retribuzioni di fatto non percepite dalla data del licenziamento sino a quella dell’effettiva reintegra.

Avverso tale sentenza proponeva appello la Cooperativa predetta lamentandone la erroneita’ sotto diversi profili; insisteva in tutte le precedenti deduzioni e chiedeva il rigetto delle domande proposte da controparte con il ricorso introduttivo.

La Corte di Appello di Messina, con sentenza in data 11.4.2006, rigettava il gravame condannando l’appellante al pagamento delle spese giudiziali nella misura di L. 1.500.000.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la Cooperativa sociale Faro 85 con un motivo di impugnazione.

Resiste con controricorso l’intimata, che propone a sua volta ricorso incidentale affidato a un motivo di gravame.

Diritto

Preliminarmente va disposta la riunione ai sensi dell’art. 335 c.p.c. dei due ricorsi perche’ avanzati avverso la medesima sentenza.

Col proposto gravame la ricorrente principale lamenta violazione dell’art. 410 c.p.c., 1 cpv. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3.

In particolare rileva che il giudice di appello, nel rigettare la censura relativa alla decadenza dall’impugnativa, non aveva svolto alcun approfondimento sulla normativa in materia, avendo del tutto ignorato che la L. n. 604 del 1966, art. 7 (che prevedeva il tentativo non obbligatorio di conciliazione) era stato abrogato dalla successiva normativa, e segnatamente dl D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 36 che, facendo seguito alla L. n. 108 del 1990 (art. 5), aveva novellato il secondo comma dell’art. 410 c.p.c.; di talche’ doveva ritenersi che la sospensione della decorrenza dei termini per l’impugnativa conseguiva non gia’ alla richiesta di effettuazione del tentativo di conciliazione, ma alla comunicazione di tale richiesta a controparte.

Avverso la stessa sentenza proponeva ricorso incidentale la P. rilevando che erroneamente, ed in violazione del D.Lgs. 24 giugno 1998, n. 213, art. 1277 la Corte d’appello aveva condannato la societa’ appellante al pagamento delle spese processuali liquidate in L. (nella misura di L. 1.500.000) anziche’ in euro; chiedeva pertanto, trattandosi evidentemente di un refuso, che venisse correttamente determinato l’importo in questione in Euro.

Il ricorso principale non e’ fondato.

Procedendo ad un breve excursus storico della normativa in questione, occorre rilevare che la L. n. 604 del 1966, art. 6, dispone che il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione, con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, idoneo a rendere nota la volonta’ del lavoratore. L’art. 7 della stessa legge prevede che il termine di gg.

60 sopra citato e’ sospeso dal giorno della richiesta, rivolta all’Ufficio Provinciale del Lavoro, di tentativo (facoltativo) di conciliazione e fino alla data del deposito del decreto del Pretore che convalida il verbale di conciliazione, ovvero fino alla data del verbale di mancata conciliazione.

La L. n. 108 del 1990, art. 5, che ha reso obbligatorio il tentativo di conciliazione, ha previsto che la comunicazione al datore di lavoro della richiesta di espletamento della procedura di conciliazione, avvenuta nel termine di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 6, impedisce la decadenza sancita dalla medesima norma.

Il D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 36, ha ulteriormente modificato la normativa, con la sostituzione del testo dell’art. 410 c.p.c.: chi intende proporre una domanda relativa ai rapporti previsti dall’art. 409 c.p.c. – quindi anche l’impugnativa di un licenziamento – deve promuovere il tentativo di conciliazione presso la commissione di conciliazione. La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza.

Orbene, se pur corretto e’ il rilievo di parte ricorrente che alla disposizione dettata dalla L. n. 604 del 1966, art. 7 ha fatto seguito una normativa innovativa che ha piu’ ampiamente regolato la materia, pervenendo alla riformulazione dell’art. 410 c.p.c., comma 2, alla stregua del contenuto del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 36 non appare tuttavia condivisibile l’assunto del ricorrente, peraltro fatto proprio da una giurisprudenza ormai risalente (v.

Cass. sez. lav., 21.1.2004 n. 967) secondo cui, in base all’art. 410, c.p.c., comma 2, la mera presentazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione, in assenza della sua comunicazione alla controparte, non puo’ avere l’effetto di sospendere il termine di decadenza.

Si pone invero il problema interpretativo se la “comunicazione” di cui all’art. 410 c.p.c., comma 2, sia quella inoltrata dal lavoratore all’Ufficio ovvero si identifichi in quella che la commissione di conciliazione inoltra al datore di lavoro.

Sul punto questa Corte ha evidenziato che, a seguito delle modifiche introdotte nel 1990 e 1998, il sopra indicato orientamento giurisprudenziale formatosi nella vigenza della precedente disciplina, “debba essere soggetto a meditato riesame, alla luce dei principi – in materia di atti processuali ricettivi – affermati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 477,2002 e recepiti nell’ordinamento positivo: vedasi in particolare il nuovo testo dell’art. 149 c.p.c., comma 3.

A partire dalla suddetta pronuncia della Corte Costituzionale, puo’ considerarsi principio generale del vigente diritto processuale quello secondo cui, quando si tratta di impedire una decadenza o una preclusione, avviene la scissione degli effetti dell’atto: per la parte attiva, gli effetti si verificano al compimento delle attivita’ richieste dalla legge per impedire la decadenza; per la parte ricevente, gli effetti si verificano al momento della ricezione dell’atto. Il D.Lgs. n. 80 del 1998, avendo inserito la materia “de qua” nel testo del Codice di Procedura Civile, ha “processualizzato” il meccanismo della sospensione della decadenza anche in materia di licenziamento. Trattasi di un termine processuale (tale essendo la “sedes materiae”) con riflessi di natura sostanziale. Ne deriva che quando la norma prevede la sospensione del termine di decadenza a partire dalla comunicazione della richiesta di tentativo di conciliazione, null’altro puo’ essere richiesto alla parte interessata, al fine di impedire la decadenza o di sospenderne il decorso, se non compiere l’attivita’ che le compete, rimanendo fuori del suo controllo l’eventuale inerzia o ritardo dell’Amministrazione Pubblica, talche’ l’impedimento al verificarsi della decadenza va ricollegato al compimento dell’atto (richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione mediante comunicazione all’Ufficio del Lavoro) e non alla data diversa e successiva, incontrollabile per il lavoratore, alla quale la richiesta sara’ trasmessa al datore di lavoro. Trattasi di interpretazione costituzionalmente orientata, quale quella compiuta, sia pure ad altri fini, da Cass. S.U. n. 21292.2005 e n. 458.2005. La comunicazione che sospende la decadenza non risulta, quindi, quella compiuta al datore di lavoro, ma quella che il lavoratore inoltra alla Commissione di Conciliazione” (Cass. sez. lav., 19.6.2006 n. 14087).

Alla stregua di siffatta interpretazione, costituzionalmente orientata, della norma, ribadita dalla recente pronuncia delle Sezioni Unite n. 8830 del 14.4.2010, la promozione dell’azione giudiziaria richiede (quale minimum necessario, ex art. 410 bis c.p.c.) la “presentazione della richiesta”, atto diretto al soggetto legittimato alla conseguente decisione; la comunicazione della richiesta alla controparte e’ fatto palesemente estraneo alla lettera della legge e costituisce attivita’ sottratta ad ogni controllo da parte del lavoratore.

Il ricorso principale non puo’ pertanto trovare accoglimento.

Passando alla trattazione del ricorso incidentale, rileva il Collegio che lo stesso si appalesa chiaramente inammissibile.

Con tale motivo la ricorrente incidentale chiede che questa Corte voglia correttamente determinare l’importo dovuto alla stessa dalla Cooperativa Faro 85, indicato, per un evidente “refuso”, in L. anziche’ in Euro.

Orbene, il suddetto motivo di ricorso denuncia in buona sostanza un errore materiale che, per giurisprudenza costante, puo’ essere rilevato ed accertato solo dal giudice di merito, ai sensi dell’art. 287 c.p.c..

A cio’ si aggiunga che assolutamente generico ed inconferente si appalesa il quesito proposto ex art. 366 bis c.p.c., cosi’ formulato:

“se la lira ha corso legale nello Stato Italiano”.

Il ricorso incidentale va di conseguenza dichiarato inammissibile.

Ricorrono giusti motivi, avuto riguardo sia al rigetto di entrambe le impugnazioni proposte che agli oscillamene giurisprudenziali in ordine alla interpretazione dell’art. 410 c.p.c., per dichiarare interamente compensate tra le parti le spese relative al presente giudizio di legittimita’.

P.Q.M.

LA CORTE riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale; dichiara inammissibile l’incidentale: compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimita’.

Cosi’ deciso in Roma, il 26 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2010

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