Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17213 del 12/07/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 12/07/2017, (ud. 09/05/2017, dep.12/07/2017),  n. 17213

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11021/2016 proposto da:

COFFEE POINT SRL, in persona del legale rappresentante, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA LUIGI BOCCHERINI 3 SC II, presso lo studio

dell’avvocato RAFFAELLO GLINNI, rappresentato e difeso dall’avvocato

CARLO FRANCESCO GLINNI;

– ricorrente –

contro

IL VASCELLO 81 SRL, in persona dell’amministratore unico,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIOVANNI BETTOLO 6, presso lo

studio dell’avvocato CARLA MARIA SODINI, che la rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1054/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 16/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 09/05/2017 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA

CIRILLO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La s.r.l. Vascello 81 convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, la Coffee Point s.r.l. e – sulla premessa di averle affittato un’azienda ad uso bar e che la convenuta si era resa morosa nel pagamento dei canoni di affitto a decorrere dal gennaio 2009 – chiese che fosse dichiarata la risoluzione di diritto del contratto, avvalendosi della clausola risolutiva espressa pattuita, e, in subordine, che fosse dichiarata la risoluzione del contratto per inadempimento dell’affittuaria, con condanna della stessa al pagamento di tutte le somme dovute.

Si costituì in giudizio la società convenuta, chiedendo il rigetto della domanda principale e domandando in via riconvenzionale che la società attrice fosse condannata, ai sensi dell’art. 2932 c.c., all’obbligo di concludere il contratto di vendita dell’azienda concordato in occasione della stipulazione del contratto di affitto.

Il Tribunale, verificato che non era in contestazione la circostanza del mancato pagamento dei canoni fin dall’aprile 2009, accolse la domanda principale e dichiarò la risoluzione di diritto del contratto di affitto ai sensi dell’art. 1456 c.c., con condanna della società convenuta al pagamento dei canoni maturati nella misura di Euro 142.440 nonchè di quelli da maturarsi in futuro, con gli interessi legali ed il carico delle spese di lite.

2. La pronuncia è stata impugnata dalla Coffee Point s.r.l. e la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 16 febbraio 2016, ha dichiarato inammissibile l’appello e, confermata la decisione del Tribunale, ha condannato l’appellante al pagamento delle ulteriori spese del grado.

Ha osservato la Corte territoriale che non risultava essere stata impugnata la decisione di primo grado nella parte in cui aveva dichiarato la risoluzione di diritto del contratto, essendosi avvalsa legittimamente la società affittante delle clausole risolutive espressamente previste. Da tanto conseguiva che sul punto si era maturato il giudicato interno, con conseguente assorbimento delle ulteriori questioni dedotte ed inammissibilità delle domande nuove proposte per la prima volta in appello dalla società appellante.

3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Roma ricorre la Coffee Point s.r.l. atto affidato a due motivi.

Resiste la s.r.l. il Vascello 81 con controricorso.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio, sussistendo le condizioni di cui agli artt. 375, 376 e 380-bis c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), violazione e falsa applicazione degli artt. 1460, 1456 e 1454 c.c., nonchè omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti; con il secondo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione degli artt. 1460, 1456, 1454, 1218 e 1375 c.c..

1.1. I motivi, da trattare congiuntamente siccome tra loro evidentemente connessi, sono entrambi privi di fondamento.

Rileva la Corte, innanzitutto, che, come la Corte di merito ha evidenziato nella propria decisione, l’odierna parte ricorrente aveva proposto in appello per la prima volta alcune domande nuove, che sono state dichiarate inammissibili. Ciò trova conferma nello stesso ricorso il quale, nel riportare le conclusioni rassegnate dalle parti in primo grado e in appello, mostra in modo palese che la domanda di esecuzione in forma specifica di cui all’art. 2932 c.c., era stata abbandonata e che la domanda di risoluzione del contratto di affitto, peraltro da ritenere subordinata in primo grado, era stata tramutata in domanda di annullamento, posto che in appello si faceva riferimento alla pretesa esistenza del dolo da parte della società affittante.

Tanto premesso, si osserva che la sentenza impugnata ha dichiarato inammissibile l’appello sul semplice rilievo che l’esistenza delle condizioni per l’applicazione della risoluzione di diritto (per clausola risolutiva espressa) non era stata contestata in sede di appello.

A fronte di tale motivazione, le censure contenute nel ricorso non spostano i termini del problema, perchè nulla dicono per superare la ratio decidendi della decisione impugnata. Il primo motivo, infatti, contesta un’omessa considerazione di un fatto decisivo, costituito dal presunto inadempimento della società affittante la quale avrebbe taciuto che non esistevano le condizioni per esercitare l’opzione di acquisto dell’azienda, stante l’esistenza di uno sfratto da parte del proprietario dei locali, cioè l’INPS. Da ciò trae la conseguenza che la Corte d’appello avrebbe dovuto vagliare quale dei due inadempimenti fosse da ritenere logicamente sovraordinato. Il secondo motivo osserva che l’esistenza di una clausola risolutiva espressa non fa venire meno l’obbligo di comportamento secondo buona fede e che comunque non sarebbe stata valutata la correttezza dell’applicazione dell’eccezione di inadempimento fatta valere dall’affittuaria.

E’ appena il caso di notare, però, che tutto ciò non scalfisce in nulla la correttezza della decisione impugnata, la quale si è limitata a rilevare il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado per mancata impugnazione della statuizione sull’applicazione della risoluzione di diritto. Nè dal contenuto dello stesso ricorso emerge che la restituzione del complesso aziendale abbia avuto luogo, mentre è pacifica la circostanza del mancato pagamento dei canoni di affitto.

2. Il ricorso, pertanto, è rigettato.

A tale esito segue la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

Sussistono inoltre le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna della società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 5.600, di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 3, il 9 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2017

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