Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17193 del 17/08/2020

Cassazione civile sez. lav., 17/08/2020, (ud. 06/02/2020, dep. 17/08/2020), n.17193

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10463/2018 proposto da:

COMPAGNIA AEREA ITALIANA S.P.A., (già ALITALIA – Compagnia Aerea

Italiana S.p.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE QUATTRO FONTANE n. 161,

presso lo studio degli avvocati DARIO CLEMENTI, GIAMMARCO NAVARRA,

FILIPPO DI PEIO, rappresentata e difesa dagli avvocati MAURIZIO

MARAZZA, MARCO MARAZZA, DOMENICO DE FEO;

– ricorrente –

nonchè da: RICORSO SUCCESSIVO SENZA N. R.G.:

ALITALIA – SOCIETA’ AEREA ITALIANA S.P.A., IN AMMINISTRAZIONE

STRAORDINARIA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE TRE MADONNE 8 presso lo

studio degli Avvocati MAURIZIO MARAZZA, MARCO MARAZZA, DOMENICO DE

FEO, che la rappresentano e difendono;

– ricorrente successivo –

contro

R.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OSLAVIA 14

presso lo studio dell’avvocato EUGENIO BARRILE, che lo rappresenta e

difende unitamente all’Avvocato ELISABETTA DURANTE;

– controricorrente ai ricorsi –

avverso la sentenza n. 468/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 01/02/2018 R.G.N. 5088/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/02/2020 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso Alitalia

CAI, rigetto dei primi due motivi ricorso Alitalia SAI, rimessione

alle SS.UU. sul terzo motivo;

udito l’Avvocato MARCO MARAZZA;

udito l’Avvocato EUGENIO BARRILE.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 468/2018, rigettava i reclami proposti da Alitalia – Società Aerea Italiana s.p.a. (Alitalia S.A.I. s.p.a.) e da Compagnia Aerea Italiana s.p.a. (C.A.I. s.p.a., già Alitalia – Compagni Aerea Italiana s.p.a.) e così confermava la sentenza con cui il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, aveva annullato il licenziamento intimato a R.G. per violazione della L. n. 68 del 1999, art. 10, comma 4, e aveva ordinato ad Alitalia S.A.I. di reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro, applicando la tutela di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4.

2. Alitalia SAI s.p.a. aveva proposto reclamo censurando la sentenza del Tribunale di Roma per avere: a) omesso di pronunciare sull’eccezione di carenza di legittimazione passiva sollevata dalla resistente, atteso che la cessione del compendio aziendale era avvenuta ai sensi della L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 4 bis; b) erroneamente respinto l’eccezione di improcedibilità della domanda proposta secondo il c.d. rito Fornero; c) erroneamente rigettato l’eccezione di decadenza dall’impugnazione, atteso che il licenziamento non era stato impugnato in via stragiudiziale nei confronti di Alitalia S.A.I.; d) omesso di valutare la deroga all’art. 2112 c.c., introdotta dalla L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 4 bis, che, in caso di aziende in crisi, consente alle parti sociali una piena disponibilità degli effetti del trasferimento di azienda nel caso in cui sia raggiunto l’accordo sindacale circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione.

3. Il reclamo proposto da C.A.I. s.p.a. verteva, invece, sulle seguenti questioni: a) mancata ammissione di attività istruttoria sulla specifica posizione di lavoro occupata dal R. e sulle modalità di applicazione dei criteri di scelta; b) violazione della L. n. 68 del 1999, art. 10, comma 4, e delle quote di riserva, in quanto l’art. 3, comma 5, della stessa legge autorizza le aziende in crisi a sospendere l’assunzione dei soggetti disabili e la medesima sospensione non può che ripercuotersi sul raggiungimento e sul successivo mantenimento della quota di riserva; c) errata condanna alla reintegra del R. nel posto di lavoro, poichè il licenziamento non rientrava tra le ipotesi di licenziamenti considerati nulli; d) omessa valutazione della clausola di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 12, e all’accordo sindacale del 24 ottobre 2014, diretta a sanare ogni eventuale vizio relativo agli adempimenti procedurali.

4. Nel respingere tali censure la Corte di appello osservava, in sintesi, quanto segue.

5. Rigetto del reclamo proposto da Alitalia S.A.I. s.p.a..

5.1. è da confermare l’interpretazione del giudice di primo grado in merito all’art. 47 cit., comma 4 bis, introdotto dal D.L. 135 del 2009, conv. in L. n. 166 del 2009, recante disposizioni urgenti per l’attuazione degli obblighi comunitari, in ottemperanza a quanto deciso dalla sentenza della CGUE dell’11 giugno 2009, adottata all’esito della procedura di infrazione promossa dalla Commissione dei confronti del Governo italiano. La Corte di giustizia ha ritenuto che la precedente formulazione della L. n. 428 del 1990 (art. 47, commi 5 e 6), che escludeva l’applicabilità dell’art. 2112 c.c., oltre che ai casi di imprese fallite e in liquidazione coatta amministrativa, anche alle imprese in stato di crisi a norma della L. 12 agosto 1977, n. 675, art. 2, lett. C), violasse la Direttiva n. 2001/23/CE.

La Corte di Giustizia ha, difatti, osservato che la deroga prevista all’art. 5, par. 1 della Direttiva non è estensibile anche ai casi di crisi d’impresa, dichiarata ai sensi della L. n. 675 del 1977. Il par. 39 della sentenza precisa che non può ritenersi che la procedura di accertamento dello stato di crisi aziendale sia teso ad un fine analogo a quello perseguito nell’ambito della procedura di insolvenza, nè che essa si trovi sotto il controllo di autorità pubblica competente.

Dal tenore della statuizione della Corte e dal vincolo che la Direttiva unitaria, pur non immediatamente precettiva, pone al giudice nazionale di pervenire ad una interpretazione conforme del diritto interno a quello dell’Unione, discende che i “termini” e “le limitazioni previste dall’accordo” cui fa riferimento la L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 4 bis, devono essere intesi nel senso che l’accordo non può prevedere limitazioni al diritto dei lavoratori di passare all’impresa cessionaria, ma semplicemente la modifica delle condizioni di lavoro al fine del mantenimento dei livelli occupazionali. Il diritto al trasferimento dei rapporti di lavoro dei dipendenti della cedente alla cessionaria è infatti garantito dalle previsioni dell’art. 4, della Direttiva e le limitazioni concernono, secondo il dettato dell’art. 5, par. 2 lett. b) e par. 3), unicamente la possibilità di prevedere modifiche alle condizioni di lavoro. 5.2. Il reclamo è infondato pure avverso la statuizione concernente la compatibilità della menzionata disciplina normativa con la L. n. 68 del 1999, art. 10, comma 4, secondo cui il recesso di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, ovvero il licenziamento per riduzione di personale, esercitato nei confronti del lavoratore occupato obbligatoriamente, sono annullabili qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista dall’art. 3 della stessa legge. Poichè il venir meno del rapporto di riserva nel caso di specie non è in contestazione tra le parti, non può ritenersi legittimo il licenziamento, stante la doverosa applicazione del menzionato L. n. 68 del 1999, art. 10, comma 4.

5.3. Va condivisa la pronuncia di rigetto del giudice di primo grado circa le sollevate eccezioni di improcedibilità della domanda, siccome proposta ai sensi della L. n. 92 del 2012, e di decadenza per omessa impugnativa del licenziamento nei confronti di Alitalia S.A.I.: l’atto di recesso è stato adottato da Alitalia C.A.I. e nei suoi confronti lo stesso è stato tempestivamente impugnato, sebbene nel caso del suo annullamento gli effetti ex lege si determinano in capo cessionaria Alitalia SAI.

6. Rigetto del reclamo proposto da C.A.I. s.p.a..

6.1. Le prove non ammesse dal Tribunale sono superflue ai fini del decidere, alla luce dell’interpretazione della normativa applicabile al caso di specie, e per il resto valgono le ragioni del rigetto del reclamo proposto dall’Alitalia S.A.I. quanto all’interpretazione della Direttiva e dell’art. 47 citato, comma 4 bis.

6.2. La clausola contenuta nell’accordo sindacale 24 ottobre 2014 evidenzia il carattere sanante della procedura di licenziamento collettivo, qui non oggetto di contestazione, ma non certo l’efficacia sanante dell’eventuale violazione dei criteri di scelta.

7. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto separati ricorsi per cassazione Alitalia S.A.I. s.p.a. sulla base di tre motivi e C.A.I. s.p.a. sulla base di quattro motivi. Ha resistito con distinti controricorsi R.G..

8. Hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c. entrambe le società ricorrenti.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

RICORSO PROPOSTO DA COMPAGNIA AEREA ITALIANA (C.A.I. s.p.a.)

1. Con il primo motivo C.A.I. s.p.a. denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 10, comma 4, e della L. n. 68 del 1999, art. 3, comma 5, argomentando che la società beneficiava della sospensione degli obblighi occupazionali, per cui non era tenuta a rispettare la quota di riserva.

2. Con il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 68 del 1999, art. 10, comma 4, con riferimento alla L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3, e all’art. 12 preleggi, nella parte in cui la sentenza impugnata ha confermato il diritto del lavoratore a vedersi riconosciuta la tutela reintegratoria.

3. Con il terzo motivo la soc. C.A.I. denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3, con riferimento alla L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4 e 7, in combinato disposto con gli artt. 414 e 416 c.p.c., per avere i giudici di appello disposto la reintegra del R. nel posto di lavoro omettendo di considerare che non era stata provata dal lavoratore la violazione dei criteri di scelta.

4. Con il quarto motivo C.A.I. s.p.a. denuncia omessa pronuncia sulla domanda L. n. 223 del 1991, ex art. 17, contenuta nel reclamo della società, in violazione dell’art. 112 c.p.c.. Sostiene che la sentenza aveva omesso di pronunciare sulla domanda subordinata con cui si era invocata l’applicazione dell’art. 17 cit., secondo cui, nel caso della reintegrazione nel posto di lavoro operata per violazione dei criteri di scelta nel licenziamento collettivo, l’impresa, sempre nel rispetto dei criteri di scelta di cui all’art. 5, comma 1, può procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro di un numero di lavoratori pari a quello dei lavoratori reintegrati senza dover esperire una nuova procedura, dandone previa comunicazione alle rappresentanze sindacali aziendali.

RICORSO PROPOSTO DA ALITALIA S.A.I..

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, dell’art. 2112 c.c., e della L. n. 604 del 1966, art. 6, per avere la sentenza rigettato l’eccezione di decadenza per omessa impugnativa del licenziamento nei confronti di Alitalia S.A.I., sulla base di una non corretta lettura della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. d), che contempla una norma di chiusura, o del comma 4, lett. c), della stessa norma, riguardante le ipotesi di trasferimento di azienda.

2. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 47, per avere la Corte di appello ritenuto applicabile il rito speciale introdotto da tale legge anche ad una controversia in cui occorreva accertare la continuità del rapporto di lavoro con la cessionaria di azienda.

3. Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 4 bis, e degli accordi collettivi. Si censura la sentenza nella parte in cui ha disposto la reintegra del lavoratore in Alitalia S.A.I. (ora in amministrazione straordinaria) sull’assunto che gli accordi collettivi non avrebbero potuto derogare all’art. 2112 c.c., sulla base di una erronea lettura della sentenza CGUE 11.6.2009 (C-561-2007) e della normativa intervenuta in applicazione di tale pronuncia comunitaria (L. n. 428 del 1990, art. 47, come modificato dal D.L. n. 135 del 2009, art. 19 quater).

Si assume che, alla luce del nuovo dettato normativo, nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione, l’art. 2112 c.c., trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dal medesimo accordo, qualora il trasferimento riguardi aziende delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale L. n. 675 del 1977, ex art. 2, comma 5, lett. a). Tale ultima norma prevede che il CIPI, su proposta del Ministro per il lavoro e della previdenza sociale, accerta la sussistenza della situazione di crisi aziendale. A seguito della soppressione del CIPI avvenuto ai sensi della L. n. 537 del 1993, l’esame delle situazioni di crisi aziendali, al fine dell’adozione dei provvedimenti per l’integrazione salariale, è stato attribuito al Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, come disposto dalla L. n. 373 del 1994, art. 2, comma 4.

Nella specie, il Ministero ha esaminato la situazione di C.A.I., correlata alla crisi del settore, e nello specifico ha autorizzato il trattamento di CIGS e approvato il programma per crisi aziendale. Tale situazione ha legittimato la Compagnia a stipulare con le OO.SS. e con l’allora Alitalia S.A.I. un accordo ai sensi della L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 4 bis, che ha contemplato una parziale deroga all’art. 2112 c.c., in ragione della quale era previsto il trasferimento solo di una parte dei lavoratori precedentemente impiegati in C.A.I., in conformità al paragrafo 3) dell’art. 5 della Direttiva.

Tale ultima previsione contempla la possibilità per uno Stato membro di applicare il paragrafo 2, lettera b) ai trasferimenti in cui il cedente sia in una situazione di grave crisi economica quale definita dal diritto nazionale, purchè tale situazione sia dichiarata da un’autorità pubblica competente e sia aperta al controllo giudiziario. Tali condizioni ricorrono nella specie, poichè lo stato di grave crisi economica (quale definita dal diritto nazionale) è stato comprovato dal Ministero del lavoro con l’emanazione di provvedimenti che sono certamente aperti al controllo giudiziario, ossia i decreti ministeriali, che possono essere eventualmente impugnati davanti al Ta r.

Dunque in una lettura comunitariamente orientata, ben può ritenersi che l’accordo integri l’art. 4, comma 2, della Direttiva, che consente il licenziamento in esito al trasferimento d’impresa o di una parte di essa per motivi tecnici di organizzazione che comportino variazioni sul piano dell’occupazione.

ESAME DEI RICORSI.

Ricorso proposto da Compagnia Aerea Italiana s.p.a. (C.A.I. s.p.a.).

1. I primi tre motivi, da esaminare congiuntamente, sono infondati.

1.1. La L. n. 68 del 1999, art. 10, comma 4, espressamente prevede: “Il recesso di cui alla L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 9, ovvero il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo, esercitato nei confronti del lavoratore occupato obbligatoriamente, sono annullabili qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista all’art. 3 della presente legge”.

Come affermato da questa Corte, la ratio della norma, nel quadro delle azioni di promozione dell’inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro di cui alle finalità espresse dalla L. n. 68 del 1999, art. 1, comma 1, è quella di evitare che, in occasione di licenziamenti individuali o collettivi motivati da ragioni economiche, l’imprenditore possa superare i limiti imposti alla presenza percentuale nella sua azienda di personale appartenente alle categorie protette, originariamente assunti in conformità ad un obbligo di legge. Il divieto è in parte compensato dalla sospensione degli obblighi di assunzione per le aziende che usufruiscano dei benefici di integrazione salariale ovvero per la durata delle procedure di mobilità previste dalla L. n. 223 del 1991, così come disposto dalla L. n. 223 del 1991, art. 3, comma 5, sicchè in caso di crisi l’impresa è esonerata dall’assumere nuovi invalidi, ma non può coinvolgere quelli già assunti in recessi connessi a ragioni di riduzione del personale, ove ciò venga ad incidere sulle quote di riserva (Cass. n. 12911 del 2017; conforme, Cass. n. 26029 del 2019, in motivazione).

Pertanto, la sospensione degli obblighi di assunzione consente all’azienda di non assumere lavoratori per mantenere o per reintegrare la quota obbligatoria prevista dalla legge, e, quindi, di trovarsi legittimamente al di sotto della quota di riserva, senza però per questo legittimarla ad effettuare licenziamenti nell’ambito dei lavoratori disabili.

1.2. Inoltre, questa Corte, in punto di apparato sanzionatorio, ha affermato (v. Cass. n. 12911 del 2017 e n. 26029 del 2019, sopra citate) il principio, che si intende nuovamente ribadire in questa sede, secondo cui, nel caso di licenziamento collettivo, la violazione della quota di riserva prescritta dalla L. n. 68 del 1999, art. 3, rientra nell’ipotesi di “violazione dei criteri di scelta” in quanto assunti in contrasto con espressa previsione legale, ai sensi della L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, st. lav. novellato, quale opzione interpretativa rispettosa del dettato normativo e conforme alla finalità della disciplina – anche sovranazionale – in materia, posta a speciale protezione del disabile.

2. In ordine al quarto motivo, la società ricorrente invoca l’applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 17, secondo cui, in tema di licenziamenti collettivi: “Qualora i lavoratori il cui rapporto sia risolto ai sensi dell’art. 4, comma 9, e art. 24 vengano reintegrati a norma della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, e successive modificazioni, l’impresa, sempre nel rispetto dei criteri di scelta di cui all’art. 5, comma 1, può procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro di un numero di lavoratori pari a quello dei lavoratori reintegrati senza dover esperire una nuova procedura, dandone previa comunicazione alle rappresentanze sindacali aziendali”.

Si tratta di disposizione posta a favore del datore di lavoro, al quale viene concessa la possibilità di proseguire nella procedura svolta per evitare che i tempi di un eventuale nuovo iter possano apportare pregiudizio economico all’azienda, con una inutile reiterazione di fasi già compiute e prescrivendo che dell’esercizio di tale facoltà debba essere data comunicazione alle associazioni sindacali.

Risulta evidente che si tratta di una facoltà concessa all’imprenditore, che, esercitandola, se ne assume la responsabilità, mentre è inammissibile una domanda in forma di “autorizzazione” a licenziare altro lavoratore che si pretende debba essere emessa dal giudice.

3. Il ricorso è dunque infondato e va pertanto rigettato.

Esame del ricorso proposto da Alitalia SAI s.p.a..

1. L’eccezione di decadenza di cui al primo motivo è infondata, sia con riferimento alla lett. c) sia con riferimento alla lett. d) della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4. Secondo recenti pronunce di questa Corte, nell’ipotesi di trasferimento d’azienda, la domanda del lavoratore volta all’accertamento del passaggio del rapporto di lavoro in capo al cessionario non è soggetta a termini di decadenza, perchè non vi è alcun onere di far accertare formalmente, nei confronti del cessionario, l’avvenuta prosecuzione del rapporto di lavoro, in particolare applicandosi la L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. c), ai soli provvedimenti datoriali che il lavoratore intenda impugnare, al fine di contestarne la legittimità o la validità (cfr. Cass. n. 9469 del 2019; Cass. n. 13648 del 2019).

A fortiori non risulta applicabile la L. n. 183 del 2010, stesso art. 32, comma 4, lett. d), la quale comunque postula l’invocazione della illegittimità o invalidità di atti posti in essere da un datore di lavoro solo formale in fenomeni dal carattere propriamente interpositorio e, trattandosi di norma di chiusura di carattere eccezionale, non è suscettibile di disciplinare la fattispecie di cui all’art. 2112 c.c., già contemplata dalla lettera precedente (Cass. n. 28750 del 2019; v. pure Cass. n. 13179 del 2017; conf. Cass. n. 4883 del 2020).

1.1. Nel caso in esame, l’azione era proprio diretta a fare accertare la sussistenza del rapporto di lavoro con il cessionario e non a contestare la legittimità o validità di un trasferimento del rapporto di lavoro già disposto nei confronti del lavoratore.

2. Anche il secondo motivo non può trovare accoglimento.

Resta fermo il principio elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte secondo il quale, nell’ambito della cognizione con il rito speciale previsto dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 48, rientrano tutte le questioni che il giudice deve affrontare e risolvere nel percorso per giungere alla decisione di merito sulla domanda concernente la legittimità o meno del licenziamento (Cass. n. 21959 del 2018; cfr. pure, in motivazione, Cass. n. 12094 del 2016).

Si è così affermato che, nel rito speciale previsto dalla L. n. 92 del 2012, rientra nell’ambito di applicazione di cui all’art. 1, comma 47, della stessa legge anche la domanda proposta nei confronti di un soggetto diverso dal formale datore di lavoro, di cui si chiede di accertare la effettiva titolarità del rapporto, dovendo il giudice individuare la fattispecie secondo il canone della prospettazione, con il solo limite di quelle artificiose, sicchè, una volta azionata dal lavoratore una impugnativa di licenziamento postulando l’applicabilità delle tutele previste dall’art. 18 dello Statuto, il procedimento speciale deve trovare ingresso a prescindere dalla fondatezza delle allegazioni, senza che la veste formale assunta dalle relazioni giuridiche tra le parti ne possa precludere l’accesso. (v. Cass. n. 17775 del 2016 e Cass. n. 29889 del 2019; sull’accertamento della subordinazione, v. Cass. n. 186 del 2019).

Nella specie, la domanda proposta nei confronti di Alitalia S.A.I. s.p.a. è strettamente connessa a quella proposta nei confronti di C.A.I. e dipendente dall’impugnativa del licenziamento. Pertanto, secondo l’orientamento interpretativo sopra richiamato, una volta che il lavoratore svolge un’impugnativa di licenziamento postulando l’applicabilità delle tutele di cui all’art. 18 L. n. 300 del 1970 trova applicazione il rito speciale, a prescindere dalla fondatezza delle allegazioni e a prescindere dalla posizione processuale delle parti convenute e dalla posizione dalle stesse assunta nelle relazioni giuridiche sottostanti al rapporto dedotto in giudizio. Anche la questione della titolarità sul lato passivo del rapporto obbligatorio, conseguente alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento, è questione di merito che non incide sul rito applicabile, ma solo sulla fondatezza della domanda.

2.1. Inoltre la sentenza già richiamata (Cass. n. 12094 del 2016) ha ribadito che l’error in procedendo rileva nei limiti in cui determini la nullità della sentenza o del procedimento, a mente dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per cui, secondo giurisprudenza costante di questa Corte, l’inesattezza del rito non determina di per sè la nullità della sentenza.

La violazione della disciplina sul rito assume rilevanza invalidante soltanto nell’ipotesi in cui, in sede di impugnazione, la parte indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte (Cass. n. 19942 del 2008; Cass. SS.UU. n. 3758 del 2009; Cass. n. 22325 del 2014; Cass. n. 1448 del 2015). Perchè la violazione assuma rilevanza invalidante occorre, infatti, che la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi il suo fondato interesse alla rimozione di uno specifico pregiudizio processuale da essa concretamente subito per effetto della mancata adozione del rito diverso. Ciò perchè l’individuazione del rito non deve essere considerata fine a se stessa, ma soltanto nella sua idoneità ad incidere apprezzabilmente sul diritto di difesa, sul contraddittorio e, in generale, sulle prerogative processuali della parte.

Nel motivo in esame parte ricorrente non specifica adeguatamente il pregiudizio processuale che avrebbe determinato l’adozione di un rito diverso da quello ordinario. 3. Il terzo motivo investe l’interpretazione e la portata applicativa della L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 47, comma 4 bis, introdotto dal D.L. 25 settembre 2009, n. 135, art. 19 quater, (Disposizioni urgenti per l’attuazione degli obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità Europee), conv. in L. 20 novembre 2009, n. 166, “al fine di dare esecuzione alla sentenza di condanna emessa dalla Corte di giustizia delle Comunità Europee l’11 giugno 2009 nella causa C561/07”, la quale aveva affermato che, con i commi 5 e 6 della L. n. 428 del 1990, art. 47, la “Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva” 2001/23/CE.

3.1. Tale Direttiva, per quanto qui interessa, prevede agli artt. 3 e 4 regole generali, cui non è consentito derogare in senso sfavorevole ai lavoratori da parte degli Stati membri, al fine di assicurare il mantenimento dei loro diritti in caso di trasferimento d’impresa.

In particolare: “I diritti e gli obblighi che risultano per il cedente da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento sono, in conseguenza di tale trasferimento, trasferiti al cessionario” (art. 3, par. 1); “Dopo il trasferimento, il cessionario mantiene le condizioni di lavoro convenute mediante contratto collettivo nei termini previsti da quest’ultimo per il cedente fino alla data della risoluzione o della scadenza del contratto collettivo o dell’entrata in vigore o dell’applicazione di un altro contratto collettivo. Gli Stati membri possono limitare il periodo del mantenimento delle condizioni di lavoro, purchè esso non sia inferiore ad un anno” (art. 3, par. 3); “Il trasferimento di un’impresa, di uno stabilimento o di una parte di impresa o di stabilimento non è di per sè motivo di licenziamento da parte del cedente o del cessionario. Tale dispositivo non pregiudica i licenziamenti che possono aver luogo per motivi economici, tecnici o d’organizzazione che comportano variazioni sul piano dell’occupazione” (art. 4, par. 1).

Le regole volte a garantire il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di cambiamento dell’imprenditore, consentendo loro di restare al servizio del nuovo datore di lavoro alle stesse condizioni pattuite con il cedente, (cfr., tra le altre, CGUE, 15 settembre 2010, Briot, C 386/09, punto 26 e giurisprudenza citata), possono essere derogate dalle legislazioni nazionali nei soli casi espressamente previsti dall’art. 5 della Direttiva 2001/23/CE.

La prima deroga è contenuta nel paragrafo 1 dell’art. 5: “A meno che gli Stati membri dispongano diversamente, gli artt. 3 e 4 non si applicano ad alcun trasferimento di imprese, stabilimenti o parti di imprese o di stabilimenti nel caso in cui il cedente sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso e che si svolgono sotto il controllo di un’autorità pubblica competente (che può essere il curatore fallimentare autorizzato da un’autorità pubblica competente)’:

Il successivo paragrafo 2 dell’art. 5 contiene la seconda deroga: “Quando gli artt. 3 e 4, si applicano ad un trasferimento nel corso di una procedura di insolvenza aperta nei confronti del cedente (indipendentemente dal fatto che la procedura sia stata aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso) e a condizione che tali procedure siano sotto il controllo di un’autorità pubblica competente (che può essere un curatore fallimentare determinato dal diritto nazionale), uno Stato membro può disporre che: a) nonostante l’art. 3, paragrafo 1, gli obblighi del cedente risultanti da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro e pagabili prima dei trasferimento o prima dell’apertura della procedura di insolvenza non siano trasferiti al cessionario, a condizione che tali procedure diano adito, in virtù della legislazione dello Stato membro, ad una protezione almeno equivalente a quella prevista nelle situazioni contemplate dalla direttiva 80/987/CEE del Consiglio, del 20 ottobre 1980, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro; e/o b) il cessionario, il cedente o la persona o le persone che esercitano le funzioni del cedente, da un lato, e i rappresentanti dei lavoratori, dall’altro, possano convenire, nella misura in cui la legislazione o le prassi in vigore lo consentano, modifiche delle condizioni di lavoro dei lavoratori intese a salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa, dello stabilimento o di parti di imprese o di stabilimenti”.

Una terza deroga è contenuta nel paragrafo 3 dell’art. 5, secondo cui: “Uno Stato membro ha facoltà di applicare il paragrafo 2, lettera b), a trasferimenti in cui il cedente sia in una situazione di grave crisi economica quale definita dal diritto nazionale, purchè tale situazione sia dichiarata da un’autorità pubblica competente e sia aperta al controllo giudiziario, a condizione che tali disposizioni fossero già vigenti nel diritto nazionale il 17 luglio 1998”.

3.2. Nella originaria versione la predetta L. n. 428 del 1990, art. 47, stabiliva, al comma 5, una disciplina speciale tanto per le aziende o unità produttive per le quali fosse stato accertato “lo stato di crisi aziendale a norma della L. 12 agosto 1977, n. 675, art. 2, comma 5, lett. c)”, quanto per le imprese nei cui confronti fossero in atto procedure concorsuali liquidative nel corso delle quali la continuazione dell’attività non fosse stata disposta o fosse cessata (testualmente: “imprese nei confronti delle quali vi sia stata dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei beni, emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione ad amministrazione straordinaria, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata”).

Secondo il comma 5, dell’epoca, in presenza di tali ipotesi, ove nel corso delle consultazioni sindacali “sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione”, “ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l’acquirente non trova applicazione l’art. 2112 c.c., salvo che dall’accordo risultino condizioni di miglior favore”.

3.3. Come è noto, su richiesta della Commissione delle Comunità Europee, la Corte di Giustizia (sent. 11.6.2009, C-561/07), all’esito della procedura di infrazione, ha affermato che, mantenendo in vigore le disposizioni di cui alla L. n. 428 del 1990, art. 47, commi 5 e 6, in caso di “crisi aziendale” a norma della L. n. 675 del 1977, art. 2, comma 5, lett. c), la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi si di essa incombenti in forza della Direttiva 2001/23/CE.

Con tale sentenza, per quanto di rilievo nella presente sede, è stato affermato che “il fatto che un’impresa sia dichiarata in situazione di crisi ai sensi della L. n. 675 del 1977, non può implicare necessariamente e sistematicamente variazioni sul piano dell’occupazione ai sensi dell’art. 4, n. 1, della direttiva 2001/23”; “la procedura di accertamento dello stato di crisi aziendale non può necessariamente e sistematicamente rappresentare un motivo economico, tecnico o d’organizzazione che comporti variazioni sul piano dell’occupazione ai sensi dell’art. 4, n. 1, della suddetta direttiva”. Dunque, lo stato di crisi aziendale non costituisce in sè motivo economico per riduzione dell’occupazione, nè costituisce in sè ragione di deroga al principio generale secondo cui il trasferimento di un’impresa o di parte di essa non è di per sè motivo di licenziamento da parte del cedente o del cessionario, dovendo i licenziamenti essere giustificati da motivi economici, tecnici o d’organizzazione (punto 36)

Secondo la CGUE, l’art. 5, n. 2, lett. a), della Direttiva 2001/23 consente agli Stati membri, a determinate condizioni, di non applicare talune delle garanzie di cui agli artt. 3 e 4 della direttiva stessa a un trasferimento di impresa laddove sia “aperta una procedura di insolvenza” e laddove “questa si trovi sotto il controllo di un’autorità pubblica competente”; diversamente, nel caso di trasferimento di un’impresa oggetto della procedura di accertamento dello stato di crisi, il procedimento “mira a favorire la prosecuzione dell’attività dell’impresa nella prospettiva di una futura ripresa, non implica alcun controllo giudiziario o provvedimento di amministrazione del patrimonio dell’impresa e non prevede nessuna sospensione dei pagamenti”; il CIPI si limita a dichiarare lo stato di crisi di un’impresa e tale dichiarazione consente all’impresa di beneficiare temporaneamente della CIGS. Ne discende che “non può ritenersi che la procedura di accertamento dello stato di crisi aziendale sia tesa ad un fine analogo a quello perseguito nell’ambito di una procedura di insolvenza…” (punti da 38 a 42).

E’ stato inoltre chiarito come, “ammesso che la situazione dell’impresa di cui sia stato accertato lo stato di crisi possa essere considerata come costituente una situazione di grave crisi economica”, l’art. 5, n. 3, della Direttiva 2001/23 autorizzi gli Stati membri a prevedere che “le condizioni di lavoro possano essere modificate per salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa, senza tuttavia privare i lavoratori dei diritti loro garantiti dagli artt. 3 e 4 della direttiva 2001/23” (punto 44).

Inoltre, secondo la sentenza in esame, “l’applicazione dell’art. 5, n. 3, della direttiva 2001/23 è subordinata alla possibilità del controllo giudiziario della procedura in questione” ed il diritto delle parti di adire l’autorità giudiziaria competente nell’ipotesi di mancato rispetto della procedura prevista “non può essere considerato come costitutivo del controllo giudiziario previsto dall’articolo citato, dal momento che quest’ultimo presuppone un controllo costante dell’impresa dichiarata in situazione di grave crisi economica da parte del giudice competente” (punto 45).

3.4. Alla stregua di tale ricognizione, la Corte di giustizia ha chiaramente distinto, agli effetti dell’interpretazione delle deroghe alle garanzie previste dagli artt. 3 e 4 della Direttiva, “la situazione dell’impresa di cui sia stato accertato lo stato di crisi”, il cui procedimento mira a favorire la prosecuzione dell’attività dell’impresa nella prospettiva di una futura ripresa, rispetto alla situazione di imprese nei cui confronti siano in atto procedure concorsuali liquidative, rispetto alle quali la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata.

Per la prima categoria di imprese – alveo in cui è riconducibile la vicenda oggetto del presente giudizio, come è pacifico in giudizio e neppure controverso tra le parti – l’art. 5, paragrafo 2, lettera b), così come richiamato dal paragrafo 3 della Direttiva 2001/23, autorizza gli Stati membri a prevedere che possano essere modificate “le condizioni di lavoro dei lavoratori intese a salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa”, ma – secondo la Corte di Giustizia – “senza tuttavia privare i lavoratori dei diritti loro garantiti dagli artt. 3 e 4 della direttiva 2001/23”.

Alla luce di tale bipartizione della disciplina e degli effetti, la L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 5, è stato giudicato in contrasto con i principi della direttiva, in quanto priva “puramente e semplicemente” i lavoratori, in caso trasferimento di un’impresa di cui sia stato accertato lo stato di crisi, della garanzie previste dagli artt. 3 e 4 delle direttiva e “non si limita, di conseguenza, ad una modifica delle condizioni di lavoro, quale è autorizzata dall’art. 5 n. 3 delle direttiva” (punto 45 della sentenza).

Quanto poi a cosa debba intendersi come “condizioni di lavoro”, la Corte di Giustizia ha nell’occasione ben precisato che esse non possono riguardare il diritto del lavoratore al trasferimento. “Poichè le norme della direttiva sono imperative nel senso che non è consentito derogarvi in senso sfavorevole ai lavoratori, i diritti e gli obblighi in capo al cedente risultanti da un contratto collettivo in essere alla data del trasferimento si trasmettono ipso iure al cessionario per il solo fatto del trasferimento (sentenza 9 marzo 2006, causa C-499-04, Werhof, punti 26 e 27). Ne discende che la modifica delle condizioni di lavoro autorizzata dall’art. 5, n. 3, della direttiva 2001/23 presuppone che il trasferimento al cessionario dei diritti dei lavoratori abbia già avuto luogo” (punto 46).

3.5. In base alle riferite indicazioni ermeneutiche, va condotta la lettura delle modifiche apportate alla L. n. 428 del 1990, art. 47, dal D.L. n. 135 del 2009, conv. in L. n. 166 del 2009, che, con l’art. 19 quater, ha inserito, dopo il comma 4, il seguente comma 4 bis: “Nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione, l’art. 2112 del codice civile trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo qualora il trasferimento riguardi aziende: a) delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi della L. 12 agosto 1977, n. 675, art. 2, comma 5, lett. c); b) per le quali sia stata disposta l’amministrazione straordinaria, ai sensi del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attività”.

Il comma 4 bis è inserito proprio “al fine di dare esecuzione alla sentenza di condanna emessa dalla Corte di giustizia delle Comunità Europee l’11 giugno 2009 nella causa C-561/07”, tanto che il medesimo art. 19 quater, comma 1, lett. b) ha previsto la soppressione, all’art. 47, comma 5, delle parole: “aziende o unità produttive delle quali il CIPI abbia accertato lo stato di crisi aziendale a norma della L. 12 agosto 1977, n. 675, art. 2, comma 5, lett. c)”, con il contestuale inserimento delle aziende “delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale”, a norma di detta L. n. 675 del 1977, nella lett. a) del comma di nuovo conio; quindi il comma 4 bis appare destinato alle procedure non liquidative a differenza del comma 5, che invece presuppone la cessazione dell’attività d’impresa o, comunque, la sua non continuazione, in simmetria con le deroghe consentite rispettivamente dal paragrafo 2 e dal paragrafo 1 dell’art. 5 della Direttiva 2001/23/CE.

La diversità dei casi disciplinati dai due commi in successione non consente di attribuire all’inciso contenuto in entrambi – “nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione” – la medesima valenza semantica, altrimenti non si registrerebbe alcuna differenza tra le ipotesi previste dal comma 4 bis e quelle del comma 5, in contrasto con la ratio della Direttiva e con l’esigenza manifesta di prestare ottemperanza alla condanna della Corte di Giustizia del 2009. Pertanto non si può estrapolare l’inciso “anche parziale” per accreditare l’ipotesi che l’accordo sindacale possa disporre, in senso limitativo, dei trasferimenti dei lavoratori dell’impresa cedente, ove si tratti di azienda rientrante nell’ipotesi di cui al comma 4 bis. La suddetta complessiva locuzione esprime piuttosto il contesto di riferimento ed, essendo presente sia nel comma 4-bis sia nel comma 5, risulta in sè non decisiva ai fini interpretativi, laddove il senso qui avversato ponga problemi di conformità al diritto dell’Unione.

Assume invece centralità dirimente l’espressione, di cui al comma 4 bis, secondo cui “trova applicazione” l’art. 2112 c.c., diametralmente opposta a quella contenuta nel comma 5, secondo cui “non trova applicazione” l’art. 2112 c.c..

Nel contesto dell’art. 47, comma 5, in caso di trasferimento di imprese o parti di imprese il cui cedente sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso, il principio generale è (per i lavoratori trasferiti alle dipendenze del cessionario) l’esclusione delle tutele di cui all’art. 2112 c.c., salvo che l’accordo preveda condizioni di miglior favore; la regola è dunque l’inapplicabilità, salvo deroghe.

Al contrario, nel comma 4-bis la regola è di ordine positivo (“trova applicazione”), per cui la specificazione “nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo” non può avere un significato sostanzialmente equivalente – con sovrapposizione di effetti – rispetto al comma 5, se non contraddicendo la ratio sottesa alla diversità testuale delle previsioni.

L’unica lettura coerente della legge risulta quella che si coordina con le indicazioni offerte dalla Corte di Giustizia, nel senso che gli accordi sindacali, nell’ambito di procedure di insolvenza aperte nei confronti del cedente sebbene non “in vista della liquidazione dei beni”, non possono disporre dell’occupazione preesistente al trasferimento di impresa. Tanto vero che solo nell’art. 47, comma 5, “nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata”, è previsto che gli accordi possano stabilire la non applicazione dell’art. 2112 c.c. “… ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l’acquirente…” (con il che ammettendo esplicitamente che vi siano rapporti di lavoro che non continuano con l’acquirente), mentre espressioni analoghe, che alludano alla possibilità dell’accordo di limitare il trasferimento dei lavoratori dell’azienda cedente, non si rinvengono nel comma 4-bis, al di fuori del già detto inciso di esordio circa il mantenimento “anche parziale” dell’occupazione. Nè l’assenza di tale previsione può essere recuperata – in contrasto con il criterio logico-sistematico e con l’intenzione del legislatore di dare attuazione alla sentenza della Corte di Giustizia – attraverso la specificazione “nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo”, accordo che deve riguardare “le condizioni di lavoro” ma non la continuità dei rapporti di lavoro con la cessionaria.

Come detto, infatti, l’art. 5, n. 3, della Direttiva, che richiama il paragrafo 2, lett. b) dello stesso art. 5, autorizza gli Stati membri a prevedere, secondo la lettura offerta dalla Corte di Giustizia, che “le condizioni di lavoro possano essere modificate per salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa, senza tuttavia privare i lavoratori dei diritti loro garantiti dagli artt. 3 e 4 della direttiva 2001/23”.

3.6. Deve ritenersi, dunque, che, a fronte di espressioni generiche, le quali possano condurre a risultati interpretativi diversi, deve essere privilegiato il significato conforme al diritto dell’Unione e alla interpretazione che dello stesso fornisce la CGUE, che, peraltro, nel caso di specie è anche più coerente con l’interpretazione logico-sistematica e con la voluntas legis, per cui l’accordo con le organizzazioni sindacali raggiunto ai sensi della L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 4 bis, a differenza di quello raggiunto ai sensi del comma 5 dello stesso articolo, non consente di incidere sulla continuità del rapporto di lavoro, in quanto la deroga all’art. 2112 c.c., cui il comma 4 bis, si riferisce può riguardare esclusivamente le “condizioni di lavoro”, nel contesto di un rapporto di lavoro comunque trasferito.

3.7. Ulteriori elementi testuali portano ad escludere la possibilità che l’accordo sindacale di cui al comma 4 bis, possa disporre in senso limitativo del diritto al trasferimento dei rapporti di lavoro. Infatti solo il comma 5, ultima parte, dell’art. 47 contempla l’ipotesi che l’accordo sindacale possa “prevedere che il trasferimento non riguardi il personale eccedentario e che quest’ultimo continui a rimanere, in tutto o in parte, alle dipendenze dell’alienante”; il successivo comma 6 prevede poi, per i lavoratori non destinatari del trasferimento alle dipendenze dell’acquirente, il diritto di precedenza nelle assunzioni che l’acquirente intendesse effettuare entro un anno dalla data del trasferimento ovvero entro il periodo maggiore stabilito dagli accordi collettivi. Trova così conferma, anche per questo verso, che il legislatore ha inteso limitare ai soli casi di procedure concorsuali liquidative nel corso delle quali non sia stata disposta o sia cessata l’attività la deroga al generale principio della continuità dei rapporti di lavoro di tutti i dipendenti addetti all’azienda trasferita, consentendo ai sindacati di concordare il numero dei lavoratori il cui rapporto prosegua con l’acquirente e prevedendo, al contempo, che vi siano lavoratori eccedentari esclusi dal trasferimento che restano alle dipendenze dell’acquirente. Ritenere che anche il comma 4 bis consenta tale eventualità, da parte dell’accordo sindacale, di derogare al principio di continuità, costituirebbe una indebita estensione interpretativa di una previsione testualmente riferita alle ipotesi disciplinate dal comma 5.

In definitiva, il comma 4-bis ammette solo modifiche, eventualmente anche in peius, all’assetto economico-normativo in precedenza acquisito dai singoli lavoratori, ma non autorizza una lettura che consenta anche la deroga al passaggio automatico dei lavoratori all’impresa cessionaria.

3.8. Ai fini interpretativi e come ulteriore avallo della soluzione accolta, giova anche richiamare la recente sentenza del 16 maggio 2019 – C-509/17 – con cui la CGUE ha ribadito che, poichè l’art. 5, paragrafo 1, della Direttiva 2001/23 rende, in linea di principio, inapplicabile il regime di tutela dei lavoratori in determinati casi di trasferimento di imprese e si discosta dall’obbiettivo principale alla base di tale direttiva, esso deve necessariamente essere oggetto di una interpretazione restrittiva (punto 38, che richiama la sentenza del 22 giugno 2017, Federatie Nederlandse Vakvereniging C-126/16, punto 41).

A tale riguardo, la Corte di Lussemburgo ha dichiarato che l’art. 5, par. 1, richiede che il trasferimento soddisfi i tre requisiti cumulativi fissati dalla citata disposizione, vale a dire che il cedente sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga, che questa procedura sia stata aperta al fine di liquidare i beni del cedente e che si svolga sotto il controllo di un’autorità pubblica competente (punto 40, nonchè sentenza del 22 giugno 2017, cit., punto 44). Per quanto riguarda il requisito secondo il quale la procedura deve essere aperta ai fini della liquidazione dei beni del cedente, non soddisfa tale requisito una procedura che miri al proseguimento dell’attività dell’impresa interessata (punto 44, che richiama la predetta sentenza dal 22 giugno 2017, punto 47 e la giurisprudenza ivi citata). Ove non ricorrano tali condizioni, gli artt. 3 e 4 della Direttiva 2001/23 restano applicabili.

Esaminando dunque il caso della legislazione belga, secondo cui il concessionario ha il diritto di scegliere i lavoratori che intende riassumere, la Corte ha concluso che la Direttiva 2001/23/CE, e segnatamente gli articoli da 3 a 5, deve essere interpretata nel senso che osta ad una legislazione nazionale, la quale, in caso di trasferimento di un’impresa intervenuto nell’ambito di una procedura di riorganizzazione giudiziale mediante trasferimento soggetto a controllo giudiziario, applicata al fine di conservare in tutto o in parte l’impresa cedente o le sue attività, prevede, per il cessionario, il diritto di scegliere i lavoratori che intende riassumere.

3.9. Alla stregua di tutte le argomentazioni esposte, deve escludersi che si versi in una situazione di impossibilità di procedere ad una interpretazione della norma interna compatibile con quella dell’Unione, essendo il rinvio pregiudiziale non necessario quando -come nella specie- l’interpretazione della norma comunitaria sia autoevidente o il senso della stessa sia stato già chiarito da precedenti pronunce della Corte di giustizia (Cass., sez. un., 24 maggio 2007, n. 12067; v. pure Cass. n. 15041 del 2017 e n. 14828 del 2018) e la norma interna sia tale da potere essere interpretata in conformità al diritto dell’Unione.

L’obbligo di interpretazione conforme impone di ritenere che il legislatore del 2009, attraverso il comma 4 bis, abbia inteso riconoscere alle parti negoziali la possibilità di derogare all’art. 2112 c.c., ma che tale deroga contenga un limite implicito, costituito dalle norme della Direttiva 2001/23/CE nonchè dai criteri interpretativi e dai principi fissati dalla Corte di Giustizia.

3.10. Da ultimo rileva il Collegio che il D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (“Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza in attuazione della, L. 19 ottobre 2017, n. 155”; G.U. n. 38 del 14.2.2019, che entrerà in vigore il 4-9-2021, all’art. 368, comma 4, lett. b), ha disposto la sostituzione del comma 4-bis con il seguente: “4-bis. Nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo, nel corso delle consultazioni di cui ai precedenti commi, con finalità di salvaguardia dell’occupazione, l’art. 2112 c.c., fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro, trova applicazione, per quanto attiene alle condizioni di lavoro, nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo, da concludersi anche attraverso i contratti collettivi di cui all’art. 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, qualora il trasferimento riguardi aziende: a) per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo in regime di continuità indiretta, ai sensi dell’art. 84, comma 2, del codice della crisi e dell’insolvenza, con trasferimento di azienda successivo all’apertura del concordato stesso; b) per le quali vi sia stata l’omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti, quando gli accordi non hanno carattere liquidatorio; c) per le quali è stata disposta l’amministrazione straordinaria, ai sensi del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attività”.

Il medesimo art. 368, al comma 4, lett. c), ha disposto la sostituzione dell’art. 47, comma 5, con il seguente: “5. Qualora il trasferimento riguardi imprese nei confronti delle quali vi sia stata apertura della liquidazione giudiziale o di concordato preventivo liquidatorio, ovvero emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata, i rapporti di lavoro continuano con il cessionario. Tuttavia, in tali ipotesi, nel corso delle consultazioni di cui ai precedenti commi, possono comunque stipularsi, con finalità di salvaguardia dell’occupazione, contratti collettivi ai sensi del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, art. 51, in deroga all’art. 2112 c.c., commi 1, 3 e 4; resta altresì salva la possibilità di accordi individuali, anche in caso di esodo incentivato dal rapporto di lavoro, da sottoscriversi nelle sedi di cui all’art. 2113 c.c., u.c.”.

Il legislatore del Codice della crisi, espunto l’equivoco inciso precedente sul “mantenimento anche parziale dell’occupazione” e ribadito come “fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro”, ha così più esplicitamente inteso recepire, meglio conformando il futuro dettato normativo, l’unica lettura del comma 4 bis, che questa Corte ritiene già percorribile in via ermeneutica anche per il passato, quale unica “interpretazione conforme” al diritto dell’Unione, per cui va respinta la tesi, sostenuta in giudizio da Alitalia SAI, secondo cui la disciplina citata avrebbe carattere radicalmente innovativo.

3.11. Infine, è opportuno evidenziare che per la prima volta giunge all’attenzione di questa Corte l’interpretazione della L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 4 bis, per cui non può assumere rilievo il richiamo, negli atti di giudizio della società cessionaria, alle sentenze di questa Corte (Cass. n. 1383 del 2018 e le precedenti ivi richiamate, così come le successive Cass. nn. 5370, 7061 e 31946 del 2019) che hanno riguardato l’interpretazione del medesimo art. 47, comma 5.

3.12. La Corte di appello con la sentenza impugnata ha adottato una soluzione in linea con l’interpretazione qui accolta e quindi resta immune dalla censure che le sono state mosse. In conclusione, va rigettato anche il ricorso per cassazione proposto da Alitalia S.A.I. s.p.a..

3.13. Ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, venendo risolta una questione di diritto di particolare importanza, in funzione nomofilattica va enunciato il seguente principio di diritto:

“In caso di trasferimento che riguardi aziende delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi della L. 12 agosto 1977, n. 675, art. 2, comma 5, lett. c), ovvero per le quali sia stata disposta l’amministrazione straordinaria, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attività, ai sensi del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, l’accordo sindacale di cui alla L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 47, comma 4 bis, inserito dal D.L. n. 135 del 2009, conv. in L. n. 166 del 2009, può prevedere deroghe all’art. 2112 c.c., concernenti le condizioni di lavoro, fermo restando il trasferimento dei rapporti di lavoro al cessionario”.

4. Per effetto del rigetto di entrambi i ricorsi, ciascuna delle società ricorrenti va condannata al pagamento, in favore del resistente R., delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

5. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte di ciascuna delle società ricorrenti, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019).

PQM

La Corte rigetta entrambi i ricorsi e condanna ciascuna società ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 6 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 agosto 2020

 

 

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