Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17181 del 10/08/2011

Cassazione civile sez. lav., 10/08/2011, (ud. 30/06/2011, dep. 10/08/2011), n.17181

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. CURCURUTO Filippo – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.G.P., domiciliato in ROMA, VIA MARESCIALLO PILSUDSKI

118, presso lo studio dell’avvocato STANIZZI ANTONIO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato INDOLFI NICOLA, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

ARTSANA SUD S.P.A. in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PIEMONTE 39, presso lo studio

dell’avvocato MORETTI MARCO, rappresentata e difesa dall’avvocato

ZUCCHI STEFANO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

e sul ricorso 18229-2010 proposto da:

D.G.P., domiciliato in ROMA, VIA MAREACIALLO PILSUDSKI

118, presso lo studio dell’avvocato STANIZZI ANTONIO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato INDOLFI NICOLA, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

ARTSANA SUD S.P.A. in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PIEMONTE 39, presso lo studio

dell’avvocato MORETTI MARCO, rappresentata e difesa dall’avvocato

ZUCCHI STEFANO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 657/2009 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 26/11/2009 r.g.n. 720/09;

e avverso la sentenza n. 151/10 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 26/3/2010 r.g.n. 1206/08;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/06/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO MANNA;

udito l’Avvocato INDOLFI NICOLA;

udito l’Avvocato ZUCCHI STEFANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 25.6.08 il Tribunale di Chieti dichiarava l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato senza preavviso con lettera del 23.12.02 dalla Artsana Sud S.p.A. nei confronti di D.G.P., ordinandone la reintegra con le ulteriori statuizioni L. n. 300 del 1970, ex art. 18.

La Artsana Sud aveva addebitato al lavoratore (responsabile del magazzino “prodotto finito” dello stabilimento di (OMISSIS)) di aver omesso in data 12.12.02 il controllo di merci in uscita, merci risultate superiori per valore (Euro 4.000,00) e quantità a quelle riportate (per Euro 1.403,42) sul relativo documento di trasporto.

Nella lettera di contestazione la società specificava che il prelievo e il carico delle merci erano stati effettuati da E. M., dipendente della coop. Adriatica Cislat che lavorava a disposizione del D.G., aggiungendo che il documento di trasporto era stato compilato dallo stesso D.G. senza verificarne la corrispondenza ai prodotti in concreto caricati sul camion, il tutto in violazione delle procedure aziendali.

Riteneva il primo giudice che tale omissione di controllo – pur ammessa dal D.G. – non fosse tale da giustificare la massima sanzione espulsiva, considerata l’inappuntabile condotta tenuta dal lavoratore nel corso d’un rapporto lavorativo pluridecennale, senza potersi tenere conto, perchè estranea alla contestazione, della malcelata convinzione datoriale che egli fosse coinvolto in altri episodi di sottrazione di beni aziendali.

In accoglimento del gravame della Artsana Sud, la Corte d’Appello dell’Aquila, con sentenza del 29.10.09, rigettava le domande del D. G., condannandolo alle spese del doppio grado.

Statuivano i giudici d’appello che, anche a connotare in termini meramente colposi la condotta del D.G., la circostanza che egli fosse da un trentennio dipendente della Artsana Sud, lungi dall’attenuare la colpa del lavoratore, la aggravasse, considerati il grado, le responsabilità ricoperte e i precipui compiti di controllo dei beni aziendali affidatigli.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre il D.G. articolando sette motivi.

Resiste con controricorso la Artsana Sud S.p.A. Il D.G. ha poi depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1- Preliminarmente ai sensi del combinato disposto dell’art. 274 c.p.c. e dell’art. 151 disp. att. c.p.c. si ordina, per connessione soggettiva ed oggettiva, la riunione al presente ricorso di quello recante il n. 18229/10 R.G. (chiamato innanzi a questo Collegio e alla stessa odierna udienza) avente ad oggetto l’impugnazione, sempre proposta dal D.G. nei confronti della Artsana Sud S.p.A., di altra sentenza fra le stesse parti emessa il 4.2.10 dalla Corte d’Appello dell’Aquila che, in accoglimento del gravame della Artsana Sud, rigettava l’impugnativa avanzata dal D.G. contro il secondo licenziamento intimatogli (il 13.5.03) dalla società.

In occasione di tale secondo recesso la società aveva addebitato al D.G., ancora in riferimento al sopra descritto episodio del (OMISSIS), non più una semplice omissione colposa del controllo della merce in uscita dallo stabilimento, ma una vera e propria collusione con il M. nella sottrazione di beni aziendali.

Pertanto – rileva questa S.C. – nella vicenda in esame esiste una pregiudizialità logica (non anche tecnico-giuridica ex art. 295 c.p.c.) fra il giudizio sul primo licenziamento e quello sul secondo, la cui efficacia è subordinata all’eventuale venire meno del primo recesso, pregiudizialità logica che ex art. 274 c.p.c. consente la riunione degli anzidetti giudizi.

L’istituto della riunione per connessione, volto a garantire l’economia dei giudizi e a prevenire il rischio di giudicati contraddittori, si applica anche in sede di legittimità in ossequio al precetto costituzionale della ragionevole durata del processo, cui è funzionale ogni opzione semplificatoria ed acceleratoria delle situazioni processuali che conducano alla risposta finale sulla domanda di giustizia e conformemente al ruolo istituzionale della Corte Suprema di cassazione, preposta ad assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, nonchè l’unità del diritto oggettivo nazionale (cfr. Cass. S.U. n. 18125 del 13.9.05 ed altre conformi).

2- Si esaminerà, dunque, prima il ricorso n. 3881/10.

3- Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 346 c.p.c. per aver la Corte territoriale accolto l’appello nonostante che la Artsana Sud non avesse impugnato quella parte della sentenza in cui il Tribunale, dopo aver accertato che la contestazione disciplinare aveva ad oggetto una condotta omissiva, aveva ritenuto eccessiva la massima sanzione, ritenendone più congrua una di tipo conservativo; del pari la società non aveva appellato la decisione di prime cure laddove non aveva esaminato la pretesa violazione di precise direttive aziendali, violazione per altro genericamente contestata, di guisa che la Corte aquilana non avrebbe potuto affermare tale violazione sostituendosi all’iniziativa della parte.

Il motivo è infondato.

In realtà la società, nel lamentare che il D.G. avesse agito con dolo e non con colpa (contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale), con il proprio appello ha implicitamente investito il presupposto stesso dell’argomentazione adottata dal primo giudice.

Quanto alla violazione delle direttive aziendali, il discorso va – semmai – ribaltato, nel senso che ex art. 346 c.p.c. era onere dell’appellato coltivare l’eccezione di genericità della contestazione in ordine all’asserita violazione di precise direttive aziendali, violazione implicitamente ravvisata dal Tribunale che, infatti, non ha negato la responsabilità disciplinare del D. G., ma ne ha solo ridimensionato la gravità.

4- Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 437 c.p.c. per essersi l’impugnata sentenza basata su nuovi documenti (verbali d’udienza di altri processi in corso fra le stesse parti e scaturiti da ulteriori licenziamenti irrogati al D.G.) prodotti dalla Artsana Sud unitamente all’atto d’appello e su fatti che non hanno avuto alcun supporto probatorio come il licenziamento del F., responsabile del magazzino “materie prime”, per asseriti suoi traffici illegali con una società cliente – la Same Metal S.a.s. – e come l’asserito analogo coinvolgimento del magazzino gestito dal D. G., sempre a favore di tale società; del pari non provato è il licenziamento del direttore dello stabilimento (ing. S.) per asserite irregolarità e il fatto che i soci della coop. Adriatica Cislat utilizzati presso il magazzino “materie prime” (come il teste M.) non potessero operare anche in quello “prodotto finito”.

Il motivo è ininfluente nella parte in cui si riferisce alle nuove acquisizioni relative ad altri processi in corso fra le parti, di cui la Corte territoriale espressamente dichiara di non tenere conto, limitandosi ad affermare la proporzionalità della sanzione espulsiva anche soltanto a fronte di una condotta colposa da parte dell’odierno ricorrente.

In ordine, poi, alle circostanze ulteriori che hanno delineato il contesto della vicenda, si noti che la censura sfocia in una sostanziale denuncia di travisamento dei fatti, in quanto tale astrattamente da farsi valere – al più – in via di revocazione ex art. 395 c.p.c., n. 4 e non mediante ricorso per cassazione (giurisprudenza costante: cfr., da ultimo, Cass. Sez. 3^ n. 15702 del 2.7.10 e Cass. Sez. 3^ n. 213 del 9.1.07).

5- Con il terzo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto contraddittoria la motivazione del Tribunale, che da un lato aveva richiamato l’esito del procedimento cautelare (favorevole al D.G.), che non poteva spiegare effetto alcuno su quello di merito, dall’altro non aveva considerato che lo stesso giudice della cautela aveva fatto salvi i successivi possibili approfondimenti della vicenda all’esito dell’istruzione probatoria da espletarsi in sede di cognizione piena.

Anche tale motivo è ininfluente, noto essendo che, a differenza di quanto avviene innanzi a questa S.C., il giudice di secondo grado registra gli eventuali limiti di tenuta della motivazione della sentenza di prime cure in un continuum con la formazione del proprio (se del caso, diverso) convincimento, essendogli connaturata la funzione sostitutiva e per lo più estranea, invece, quella meramente demolitoria (salvi i casi di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c.).

Per questo motivo, se si resta nella prospettiva del giudice d’appello, tecnicamente non si parla mai di motivazione di primo grado viziata, nel senso che l’eventuale sua insufficienza o illogicità, a differenza di quanto accade innanzi a questa Corte Suprema, resta con valenza eminentemente descrittiva, priva di conseguenze processuali davanti al giudice d’appello, il cui giudizio è normalmente rescissorio e, solo in via eccezionale, meramente rescindente.

In altre parole, il giudizio di secondo grado non può mai avere come oggetto esclusivo una questione di validità della sentenza che sia stata impugnata solo per violazione dei parametri esigibili di motivazione.

Semmai, la motivazione di primo grado insufficiente o illogica ha una ricaduta indiretta sull’onere di specificità dei motivi del gravame ex art. 342 c.p.c., comma 1, nel senso che a fronte di una sentenza che su determinati punti risulti priva di propri ragionamenti l’appellante, non essendogli di fatto consentito il controargomentare, può limitarsi a coltivare sic et simpliciter le difese già in precedenza svolte.

Poichè per il giudice d’appello la motivazione non presidia la deliberazione in quanto i due aspetti non sono distinguibili, più che i vizi motivazionali il giudice di secondo grado valuta direttamente l’esattezza della pronuncia nel suo complesso.

Trasferendo tali noti rilievi nel caso di specie, poco importa che la motivazione redatta dal primo giudice sia stata o meno contraddittoria circa i rapporti tra fase cautelare e cognizione del merito, poichè comunque alla decisione di primo grado la Corte territoriale ha opposto un proprio diverso avviso in termini di gravità dell’addebito ascritto al D.G..

6- Con il quarto e il settimo motivo – da trattarsi congiuntamente perchè intimamente collegati – si denuncia violazione dell’art. 118 disp. att. c.p.c. e mancata motivazione sulle difese del ricorrente, che pur non negando l’omesso controllo si era però giustificato con il notevole carico di lavoro cui era sottoposto e con l’insufficiente personale all’uopo messogli a disposizione dalla società; a tale riguardo – si duole il D.G. – l’impugnata sentenza non ha speso motivazione alcuna, sebbene i testi D. e D. avessero confermato l’eccessivo carico di lavoro cui era sottoposto il ricorrente.

Il motivo è infondato: invero, per costante insegnamento di questa S.C. (cfr., da ultimo, Cass. Sez. 3 n. 24542 del 20.11.09), nel redigere la motivazione della sentenza il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione e argomentazione delle parti, essendo necessario e sufficiente, in base al combinato disposto dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto e in diritto posti a fondamento della propria decisione, dovendo ritenersi per implicito disattesi rutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano ad ogni modo incompatibili con la soluzione adottata e con il percorso deduttivo seguito.

Nel caso in oggetto, con il valorizzare in termini di gravità dell’infrazione disciplinare – proprio la trentennale esperienza lavorativa del ricorrente (tale da fargli intendere rischi e responsabilità della posizione lavorativa ricoperta) l’impugnata sentenza ha posto a base del proprio decisum rilievi incompatibili con quelli addotti a propria difesa dal D.G..

7- Con il quinto e il sesto motivo (anche essi meritevoli di esame congiunto) ci si duole di violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 c.c., della L. n. 300 del 1970, art. 7 e della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 2 nonchè di vizio della motivazione, per avere la Corte territoriale ritenuto che la contestazione in sede disciplinare di una condotta omissiva possa astrattamente riferirsi tanto a una violazione colposa quanto ad una dolosa e che nel caso di specie il tenore della lettera di contestazione sia omnicomprensivo, cioè tale da sottendere non solo un comportamento colposo (mera omissione di controllo della merce in uscita), ma anche una possibile condotta dolosa (concorso nel furto di merce perpetrato dal M.), il che comporterebbe un ampliamento della contestazione – malgrado il principio di sua immutabilità – o una inammissibile integrazione o correzione della stessa ad opera del giudice; quanto alla pretesa violazione di “precise direttive aziendali” -prosegue il ricorrente – si tratta di contestazione genericamente contenuta nella lettera di addebito, che non spiega in cosa consistessero; per l’effetto, non può la Corte territoriale porle a base dell’intimato licenziamento; lamenta, ancora, il ricorso la contraddittorietà della motivazione nella parte in cui l’impugnata sentenza non ha considerato a favore del D.G., nella valutazione della gravità della condotta, l’assenza di precedenti disciplinari nell’arco della trentennale durata del rapporto, assenza di precedenti che – invece – la gravata pronuncia finisce per far pesare a carico del lavoratore.

Tale doglianza è ininfluente nella parte in cui prospetta un ampliamento della contestazione perchè, in realtà, l’impugnata sentenza ha concluso per il carattere colposo dell’illecito disciplinare: l’ipotesi di una responsabilità per dolo (che pur si legge nella gravata pronuncia) viene formulata nel caso in cui si fossero fatte valere le ulteriori acquisizioni processuali documentate dalla società e rivenienti da altri processi in corso fra le parti, di cui però la stessa Corte territoriale espressamente dichiara di non tenere conto, di guisa che resta immutato il giudizio di mera responsabilità colposa formulato dai giudici d’appello.

Infine, non sussiste vizio di motivazione perchè l’impugnata pronuncia di certo non ascrive a carico del ricorrente l’assenza di precedenti disciplinari, ma semplicemente non la ritiene sufficiente – nel giudizio di proporzionalità della sanzione – a sminuire il grave vulnus all’elemento fiduciario del rapporto fra le parti, il che costituisce ambito valutativo proprio del giudice del merito.

Ogni altra argomentazione svolta dal ricorrente esce dall’alveo dell’art. 360 c.p.c., in sostanza riducendosi al sollecito di una nuova delibazione in punto di fatto della vicenda che ha dato luogo al licenziamento disciplinare, operazione non consentita in sede di legittimità.

7- In conclusione, il ricorso n. 3881/10 è da rigettarsi.

8- Per l’effetto, va dichiarato inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse quello recante il n. 18229/10, giacchè neppure la sua ipotetica fondatezza assicurerebbe al D.G. il recupero del posto di lavoro e le relative conseguenze risarcitorie oggetto della separata azione da lui promossa, essendo ormai assistita dal primo licenziamento la risoluzione del rapporto (sulla sopraggiunta irrilevanza, in un caso analogo, della decisione sul secondo licenziamento dopo l’accertata legittimità del primo cfr.

Cass. 27.6.2000 n. 8751).

9- La natura della controversia, che ha fatto registrare difformi valutazioni in punto di fatto nell’arco delle fasi e dei gradi precedenti di giudizio, nonchè l’inammissibilità del ricorso n. 18229/10 solo per sopravvenuta carenza di interesse, consigliano di compensare per intero fra le parti le spese di questo grado.

PQM

LA CORTE riunisce al ricorso presente quello recante il n. 18229/10 R.G.;

rigetta il ricorso n. 3881/10 e dichiara inammissibile quello recante il n. 18229/10; compensa per intero fra le parti le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, in data 30 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 10 agosto 2011

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