Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17163 del 18/08/2016

Cassazione civile sez. lav., 18/08/2016, (ud. 20/04/2016, dep. 18/08/2016), n.17163

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLE TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16319-2013 proposto da:

TELECOM ITALIA S.P.A. C.E. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, L.G.

FARAVELLI 22, presso lo studio degli avvocati ROBERTO PESSI, MARCO

MARIA VALERIO RIGI LUPERTI, che la rappresentano e difendono giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

C.M. C.F. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE TRIBULATO, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1407/2012 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 28/06/2012 r.g.n. 1458/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/04/2016 dal Consigliere Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo;

udito l’Avvocato TRIBULATO GIUSEPPE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO RITA, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 1407/2012, depositata il 28 giugno 2012, la Corte di appello di Palermo, in accoglimento del gravame di C.M. e in riforma della sentenza del Tribunale di Palermo, condannava Telecom Italia S.p.A. ad attribuire all’appellante, già inquadrato nel 5^ livello del CCNL SIP del 1992 nel passaggio dall’ASST all’IRITEL e, quindi, nel livello E del CCNL TLC del 1996, il superiore inquadramento nel 4^ livello dello stesso contratto SIP a decorrere dall’1/11/1993 e nel corrispondente livello F del contratto collettivo TLC; condannava, inoltre, la società al pagamento delle differenze di trattamento economico nei limiti del quinquennio anteriore alla notifica del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il demansionamento, liquidato in misura pari al 20% della retribuzione percepita.

La Corte, richiamato l’orientamento di legittimità formatosi sulle tabelle di equiparazione previste dalla L. 29 gennaio 1992, n. 58, e poste a confronto le declaratorie dell’ultima categoria (la 7^) rivestita dal lavoratore nella ASST e del 5^ livello assegnatogli, sulla base delle medesime tabelle, nel passaggio in IRITEL, osservava come la previsione della “direzione di uffici e impianti costituenti unità organiche di media entità o grandi ripartizioni interne delle unità organiche di rilevante entità”, contenuta nella prima di tali declaratorie, non trovasse riscontro in quella del 5^ livello successivamente attribuito; osservava, quindi, che la qualifica dell’appellante, al momento del passaggio in IRITEL, e cioè quella di “revisore tecnico coordinatore”, ricompresa nella 7^ categoria (qualifica che si distingueva da quella di revisore tecnico proprio per l’attribuzione della direzione di unità organiche), risultasse svilita nella concreta fattispecie, posto che il lavoratore, secondo quanto emerso dall’istruttoria, non aveva più avuto, successivamente a detto passaggio, personale da coordinare, limitandosi ad eseguire gli incarichi affidatigli dal suo coordinatore; osservava infine come le caratteristiche della precedente 7^ categoria trovassero corrispondenza nel 4^ livello del CCNL SIP, la cui declaratoria prevedeva appunto compiti di coordinamento.

Quanto alla domanda risarcitoria per il danno da demansionamento, la Corte, rilevato preliminarmente che la relativa prova poteva essere fornita anche mediante presunzioni, richiamava gli elementi della gravità, durata e conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione e la frustrazione di ragionevoli aspettative di progressione professionale.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza Telecom Italia S.p.A. con tre motivi; il lavoratore ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione della L. 29 gennaio 1992, n. 58, art. 4, artt. 2095 e 2103 c.c., art. 96 disp. att. c.c. e art. 24 Cost., censura la sentenza di secondo grado per avere ritenuto la corrispondenza della 7^ categoria, in cui il lavoratore risultava inquadrato, ai sensi della L. 22 dicembre 1981, n. 797, nell’Azienda di Stato per i Servizi Telefonici (ASST), e del 4^ livello del CCL SIP del 1992 sulla base di un’indagine erroneamente fondata sull’equivalenza delle mansioni svolte in concreto dal lavoratore, e pertanto dell’applicazione dell’art. 2103 c.c., anzichè sulla base di un raffronto complessivo tra le declaratorie e i profili, secondo le indicazioni della pur richiamata giurisprudenza di legittimità.

Con il secondo motivo la ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione della L. n. 58 del 1992, art. 4 in relazione all’art. 12 CCL SIP del 30 giugno 1992 e all’art. 14 CCNL Telecomunicazioni del 1996, dell’art. 112 c.p.c. e degli artt. 1362, 1363 ss. c.c., nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, censura la sentenza per avere erroneamente ritenuto quale elemento di discrimine tra i livelli attribuiti nel tempo la “direzione dì uffici e impianti costituenti unità organiche di media entità o grandi ripartizioni interne di unità organiche di rilevante entità”, la cui assenza nella declaratoria del 5^ liv. CCL SIP impedirebbe di ritenerne la corrispondenza con la 7^ categoria del precedente inquadramento, rendendo di conseguenza necessaria l’attribuzione del superiore 4^ livello, mentre anche il 5^ liv. prevedeva un’equiparabile “attività di coordinamento o supporto professionale di altri lavoratori”.

Con il terzo motivo la ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 414, 420, 115 e 116 c.p.c., in relazione agli artt. 2697, 1226, 2103 e 2043 c.c., nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, censura la sentenza impugnata nella parte relativa al danno da demansionamento, avendone la Corte di appello accertata la sussistenza in difetto di adeguate allegazioni e di concreti e fondati elementi di prova.

Il primo e il secondo motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, in quanto connessi.

Gli stessi sono infondati.

Come precisato ancora di recente (Cass. 23 gennaio 2015 n. 1249), questa Corte ha più volte affermato il principio, che in questa sede deve essere ribadito, secondo il quale la L. 29 gennaio 1992, n. 58, nel riformare il settore delle telecomunicazioni con il passaggio dei servizi di telefonia dal settore pubblico a quello privato – senza che tale passaggio desse luogo all’applicazione dell’art. 2112 c.c., – ha previsto la predisposizione, sulla base di un accordo con le organizzazioni sindacali, di tabelle di equiparazione in funzione della conservazione della posizione giuridica ed economica di ciascun lavoratore e senza possibilità di disporre dei diritti dei lavoratori, stabilendo il criterio che risulti assicurata la tutela della professionalità acquisita e di un trattamento economico globalmente non inferiore a quello precedentemente goduto (Cass. n. 24231/2010; Cass. n. 11936/2009).

Ne consegue che, se dette tabelle di equiparazione non dovevano essere elaborate in termini di corrispondenza meccanica ed assoluta con te qualifiche di provenienza, ma secondo un raffronto complessivo tra le qualifiche o i livelli di volta in volta presi in considerazione, è possibile – proprio in funzione di salvaguardia della professionalità dei lavoratori tutelata dalla L. n. 58 del 1992 – la disapplicazione di tali tabelle ad opera del giudice che ne ravvisi, in via incidentale, la parziale nullità per la non corrispondenza ai criteri imposti dalla legge stessa, ferma restando la necessità che la valutazione circa la legittimità della equiparazione prevista in sede collettiva avvenga sulla base di un raffronto complessivo tra le qualifiche o i livelli di volta in volta posti a raffronto (in tal senso, già Cass. 8 luglio 2004 n. 12647; Cass. 1 marzo 2011 n. 4991).

A tale principio la sentenza di secondo grado si è attenuta non soltanto sul piano formale e della condivisione del principio, richiamando pronunce (fra le molte) di questa Corte di legittimità in tema di inquadramento secondo le tabelle di equiparazione, ma anche sul piano sostanziale, compiendo un raffronto compleSsivo tra la 7^ categoria ex L. n. 797 del 1981 e i livelli 5^ (posseduto) e 4^ (rivendicato) del CCL SIP nell’ottica specifica della salvaguardia della professionalità del lavoratore: e così ponendo in rilievo, nella declaratoria del 5^ livello, l’assenza dell’elemento (presente invece in quella della 7^ categoria) dell’attribuzione della direzione di uffici e impianti costituenti unità organiche di media entità o grandi ripartizioni interne di unità organiche di rilevante entità, alla quale si riconnette una professionalità di tipo gestionale e organizzativo che è cosa diversa, nella sua essenza, dalle altre componenti, fra loro assimilabili (facoltà di iniziativa e decisione e specializzazione), comuni ad entrambe le declaratorie esaminate. Nè può ritenersi che la Corte territoriale sia incorsa nella violazione o falsa applicazione delle norme contrattuali di riferimento, come viene denunciato con il secondo motivo, posto che le mansioni della 7^ categoria “comportano” la direzione di unità organiche o grandi ripartizioni interne, in tal modo stabilendo la declaratoria un nesso di stretta e certa inerenza alla figura professionale del lavoratore che vi sia inquadrato (e che trova il suo speculare riflesso nel presente indicativo “coordinano” di cui al riconosciuto 4^ livello), nesso che non può invece individuarsi nella pura eventualità di assegnazione di un’attività di coordinamento o supporto professionale di altri lavoratori, quale configurata nella declaratoria del 5^ livello (“potrà essere richiesta”).

E’ invece fondato e deve essere accolto il terzo motivo.

Al riguardo si osserva che la Corte di appello, nel ritenere “palese la mortificazione della professionalità del ricorrente nonchè il relativo danno”, ha, in primo luogo, rilevato che la prova del danno c.d. professionale “può essere fornita anche ex art. 2729 c.c., attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, sicchè a tal fine possono, ad esempio, essere valutate nel caso di dedotto danno da demansionamento, quali elementi presuntivi, la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa dopo la lamentata dequalificazione”.

La Corte ha poi ritenuto che il danno in questione potesse “essere quantificato – in via equitativa e nei limiti della prescrizione decennale decorrente dalla notifica del ricorso di primo grado – in misura del 20% della retribuzione percepita dal 16/9/1995” alla data della pronuncia giudiziale, “tenuto conto, da un lato, della gravità, durata e conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione nonchè della frustrazione di ragionevoli aspettative di progressione professionale; e, dall’altro, della incertezza interpretativa causata dagli accordi sindacali”.

Tali rilievi, peraltro, escluso il richiamo in termini generali alla possibilità che la prova del danno c.d. professionale sia conseguita anche mediante il ricorso alle presunzioni ex art. 2729 c.c., non risultano in linea con il consolidato orientamento di legittimità, per il quale “in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento dei danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale – non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico – fisica medicalmente accettabile, il danno esistenziale – da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accettabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno – va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) – il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico – si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove” (Sezioni Unite 24 marzo 2006 n. 6572). Conformi Cass. n. 14729/2006; n. 19965/2006; n. 21282/2006; n. 13877/2007; n. 29832/2008; n. 19785/2010.

Ciò premesso, si deve rilevare come la sentenza impugnata: a) non abbia verificato in via preliminare, alla stregua di specifiche allegazioni del lavoratore, nè comunque individuato sulla scorta del tenore complessivo delle medesime, il tipo di pregiudizio dal medesimo sofferto in conseguenza della dedotta dequalificazione professionale, posto che il riferimento compiuto alla “conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione” nonchè alla “frustrazione di ragionevoli aspettative di progressione professionale”, pur evocando rispettivamente un danno all’immagine e alla vita di relazione e un danno da perdita di chance, si situa, nel corredo motivazionale della sentenza, sul piano della prova (peraltro con le insufficienze di cui infra) e non su quello, che è logicamente preliminare, della identificazione del pregiudizio che si assume provocato; b) non abbia correttamente applicato il metodo presuntivo, pur oggetto di espresso richiamo, limitandosi a indicare, tanto sul piano generale come in relazione alla fattispecie concreta, meri campi di indagine o, più esattamente, di selezione di fatti potenzialmente rilevanti, in quanto idonei a consentire, mediante il giudizio di probabilità e il ricorso a nozioni di comune esperienza, la dimostrazione del fatto ignoto (e cioè la prova della effettiva sussistenza del pregiudizio affermato): fatti che, tuttavia, non risultano individuati e accertati nella loro specifica realtà e conseguentemente nella loro portata “indiziante”, non potendosi, con tutta evidenza, considerare sostitutiva di tale omessa individuazione la successione di categorie descrittive, nelle quali essi potrebbero inscriversi.

La sentenza deve, pertanto, essere cassata in relazione a tale motivo e la causa rinviata, anche per le spese, alla Corte di appello di Palermo in diversa composizione, la quale si atterrà al principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 6572/2006 e al seguente: “In tema di prova del danno da dequalificazione professionale ex art. 2729 c.c., non è sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il semplice richiamo di categorie generali (come la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la gravità del demansionamento, la sua durata e altre simili), dovendo il giudice di merito procedere, pur nell’ambito di tali categorie, ad una precisa individuazione dei fatti che assume idonei e rilevanti ai fini della dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni di probabilità e regole di comune esperienza”.

PQM

La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Palermo in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 20 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 18 agosto 2016

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