Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17156 del 14/08/2020

Cassazione civile sez. I, 14/08/2020, (ud. 16/07/2020, dep. 14/08/2020), n.17156

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 2720/2019 proposto da:

G.B., rappresentato e difeso dall’Avv. Mario Antonio

Angelelli, in virtù di mandato in calce al ricorso per cassazione,

presso il cui studio in Roma, via Alberico II; n. 4, ha eletto

domicilio;

– ricorrente-

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica,

domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli

uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato Roma;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di Appello di ROMA n. 7119/2018,

pubblicata il 13 novembre 2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

16/07/2020 dal consigliere Dott. Lunella Caradonna;

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Roma ha respinto l’appello presentato da G.B., nato 11 gennaio 1996, in Gambia, avvero l’ordinanza del 2 ottobre 2017 con cui il Tribunale di Roma aveva rigettato la sua richiesta di protezione internazionale e di protezione umanitaria.

2. Il richiedente aveva raccontato di essere andato via dal proprio paese, dopo la morte del padre, a causa di contrasti con lo zio per motivi ereditari e per l’intenzione dello stesso zio e della propria madre di praticare l’infibulazione sulla sorella, poi non effettuata, pratica cui lui si era opposto mettendosi contro tutta la famiglia, tanto che la madre lo aveva invitato ad andarsene.

3. Il Tribunale aveva escluso la sussistenza dei presupposti per la protezione internazionale in tutte le sue tre forme, ritenendo che non fossero credibili le dichiarazioni del richiedente asilo, che non ricorresse alcuna ipotesi considerata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 e che il richiedente non rientrasse fra le categorie di soggetti vulnerabili ai sensi dell’art. 19 del Testo unico n. 286/1998.

4. La Corte territoriale, confermando la decisione di primo grado, ha rilevato che, alla stregua dei fatti narrati, doveva escludersi la sussistenza di atti di persecuzione e che si era in presenza di una vicenda privata di carattere familiare; che non si ravvisavano danni gravi e specificamente una minaccia grave alla vita o alla persona, nè una situazione di conflitto armato generalizzato; che non vi era una situazione legittimante la protezione umanitaria e che la stessa non poteva essere ravvisabile sulla base dell’attestato di conseguimento del diploma di istruzione del primo ciclo scolastico e dell’accordo di collaborazione con una palestra della durata di quatto mesi, nè dal certificato medico prodotto che attestava la presenza di diverse cicatrici riferite quale esito delle violenze subite in prigione in Libia e di un disturbo dell’adattamento, con ansia e umore depresso.

5. G.B. ricorre per la cassazione della sentenza con atto affidato a quattro motivi.

6. L’Amministrazione intimata ha presentato controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5; D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3; D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b); D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 27: il ricorrente lamenta, in particolare, la mancata applicazione da parte della Corte di appello del principio dell’onere probatorio attenuato e la mancata valutazione della credibilità del ricorrente alla luce dei parametri stabiliti dalla legge; nonchè la mancata assunzione di un ruolo attivo e integrativo da parte della Corte nell’esaminare la domanda, non essendo stata compiuta alcuna indagine sulla realtà socio-politica del Paese di provenienza.

1.1. La censura è inammissibile.

1.2 Ed invero, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c), e tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero sotto il profilo della mancanza assoluta della motivazione, della motivazione apparente, o perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito. (Cass., 5 febbraio 2019, 2019, n. 3340; Cass., 12 giugno 2019, n. 15794).

Alla luce di quanto sopra è evidente che il dovere del Giudice di considerare veritiero il racconto del ricorrente, anche se non suffragato da prove, richiede pur sempre che le dichiarazioni rese dal richiedente asilo siano “considerate coerenti e plausibili” (art. 3, comma 5, lett. c) e che il racconto del richiedente sia in generale “attendibile” (art. 3, comma 5, lett. e).

La difficoltà di provare adeguatamente i fatti accaduti, prevista espressamente dal legislatore nel citato art. 3 comma 5, non impone affatto al Giudice di ritenere attendibile un racconto che, secondo una prudente e ragionevole valutazione, sia inverosimile, anche perchè i criteri legali di valutazione della credibilità di cui all’art. 5, comma 3, sono categorie aperte che lasciano ampio margine di valutazione al Giudice chiamato ad esaminare il caso concreto secondo i criteri generali, ed è sufficiente richiamare i concetti di coerenza, plausibilità (lett. c) e attendibilità (lett. e) che richiedono senz’altro un’attività valutativa discrezionale.

Quanto poi al dovere di cooperazione istruttoria del Giudice, questa Corte ha già avuto modo di chiarire che in materia di protezione internazionale, l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona e qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass., 27 giugno 2018, n. 16925).

Va, al riguardo, precisato che il principio che le dichiarazioni del richiedente che siano inattendibili non richiedono approfondimento istruttorio officioso va sostenuto con riferimento al racconto che concerne la vicenda personale del richiedente, che può rilevare ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b); mentre il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, una volta assolto da parte del richiedente la protezione il proprio onere di allegazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda personale inattendibile e comunque non credibile, in relazione alla fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (Cass., 31 gennaio 2019, n. 3016).

1.3 Nel caso in esame, la Corte di appello ha affermato che non sussistevano atti di persecuzione riconducibili a motivi di razza, religione o di appartenenza a un gruppo sociale o per motivi politici, che si era in presenza di una vicenda privata di carattere familiare e che non si poteva ravvisare la minaccia grave alla vita o alla persona propria di situazioni di conflitto armato in corso e tali che il rientro nel paese d’origine determinasse un rischio concreto per la vita del richiedente.

Ne consegue che la Corte territoriale non ha violato gli enunciati principi, nè è venuto meno al dovere di cooperazione istruttoria, avendo semplicemente ritenuto, a monte, che i fatti lamentati non costituivano un ostacolo al rimpatrio nè integravano un’esposizione seria alla lesione dei diritti fondamentali.

2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, perchè la Corte di appello non aveva riconosciuto sussistenza di una minaccia grave alla vita del cittadino gambiano derivante dalla situazione di violenza indiscriminata e non aveva acquisito la completa documentazione sul Gambia.

2.1 Il motivo è infondato.

Ed invero il ricorrente nel denunciare la violazione della normativa sulla protezione sussidiaria muove dalla descrizione di una situazione politico-sociale del proprio Stato di provenienza, il Gambia, non attualizzata al suo nuovo corso politico e, come tale, manca di confrontarsi con l’impugnata decisione.

2.2 La Corte di appello valorizza infatti, in contrario segno, che la situazione del paese sta gradualmente migliorando a seguito della fine della dittatura e di elezioni politiche che hanno visto la vittoria del partito di opposizione e la liberazione di diversi detenuti per reati di opinione.

L’apprezzamento di fatto, concludente, e sottratto al sindacato di legittimità, ha condotto la Corte di merito ad escludere la sussistenza di una situazione di grave danno in capo al ricorrente ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 anche per il profilo di cui alla lett. c).

Il ricorso nel denunciare il mancato esercizio da parte della Corte di merito dei poteri istruttori di ufficio sulla situazione generale del Paese di origine del cittadino straniero per violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, sortisce l’effetto di condurre una critica aspecifica ed irrilevante, là dove quel potere ufficioso ha trovato svolgimento nella sentenza impugnata con carattere di specificità ed all’attualità per indicazione delle fonti consultate.

3. Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge degli artt. 3 e 8 CEDU, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma e art. 19, in relazione alla violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e dell’art. 27.

Il ricorrente si duole in particolare che la Corte territoriale non ha rispettato le norme in tema di concessione di permesso per motivi umanitari, a fronte della provata integrazione sociale e lavorativa e della certificazione medica dell’Istituto San Gallicano di Roma relativa alle violenze subite in Libia.

3.1 Il motivo è inammissibile.

3.2 E’ utile, invero, premettere che, come ribadito anche di recente da questa Corte, la protezione umanitaria – secondo i parametri normativi stabiliti dagli art. 5, comma 6; art. 19, comma 2, T.U. n. 286 del 1998 e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 32 – è una misura atipica e residuale, nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non può disporsi l’espulsione e deve provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Cass., 5 aprile 2019, n. 9651).

A tal fine, la condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio e non è sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, dovendo il riconoscimento di tale diritto allo straniero fondarsi su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza (Cass. 15 maggio 2019, n. 13079).

Con specifico riferimento, poi, al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, questo, tuttavia, può assumere rilevanza non quale fattore esclusivo, bensì quale circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale da tutelare mediante il riconoscimento di un titolo di soggiorno (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455; Cass., 28 giugno 2018, n. 17072; Cass., Sez. U., 13 novembre 2019, n. 29459).

Ne consegue che la questione dell’integrazione non si pone a fronte dell’accertata insussistenza di particolari condizioni di vulnerabilità, giacchè la valorizzazione del parametro dell’inserimento sociale in tanto ha ragione di operare in quanto si dibatta del rischio, da parte del richiedente asilo, di essere immesso, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto idoneo a compromettere in modo serio la sfera dei suoi diritti fondamentali inviolabili (Cass., 28 febbraio 2019, n. 6035).

3.3 Nel caso concreto, la Corte territoriale ha escluso l’esistenza dei presupposti per il riconoscimento, oltre che della protezione internazionale e sussidiaria, anche della invocata protezione umanitaria, considerando che il ricorrente non aveva indicato oggettive e gravi situazioni personali che non permettevano l’allontanamento dal territorio nazionale, evidenziato, sia pure in modo stringato, ma non apodittico (pag. 3), l’assenza di criticità nel Paese di provenienza del richiedente ed ha escluso sue situazioni di vulnerabilità soggettiva, correlate a difficoltà di natura economica e sociale, che il ricorrente richiama, occorrendo, invece, che la condizione di vulnerabilità sia l’effetto della grave violazione dei diritti umani subita nel Paese di provenienza, in conformità del disposto degli artt. 2, 3 e 4 CEDU (Cass., 5 aprile 2019, n. 9651).

3.4 Con riguardo alle condizioni di salute, la Corte territoriale ha affermato che il certificato medico prodotto in atti non evidenziava uno stato di particolare vulnerabilità fisica e psicologica tale da rendere difficile il reinserimento nel proprio paese.

Si tratta di un giudizio di fatto espresso, al riguardo, dalla Corte distrettuale che non è sindacabile in questa sede attraverso la censura di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

3.5 Anche con riguardo al mancato esame della situazione del paese di transito il motivo è inammissibile per difetto di specificità, difettando l’indicazione delle ragioni per le quali la valutazione dovesse estendersi anche alla condizione di tale Paese.

Al riguardo, va evidenziato che l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perchè l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide, potendo il paese di transito rilevare, ai sensi dell’art. 3 della Direttiva UE n. 115/2008, solo nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale paese (Cass.,6 dicembre 2018, n. 31676).

4. Con il quarto motivo di principale, proposto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente denuncia violazione di legge e in particolare dell’art. 10 Cost. perchè era stato rifiutato lo status di rifugiato a un soggetto a cui non erano garantite le libertà democratiche tutelate dalla Costituzione italiana.

4.1 Il motivo è infondato.

Come reiteratamente affermato da questa Corte il diritto di asilo è interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo “status” di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera della esaustiva normativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007 ed al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, con il conseguente corollario che vi è più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all’art. 10 Cost., comma 3 (Cass., 19 aprile 2019, n. 11110).

5. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato e il ricorrente soccombente deve essere condannato a rifondere le spese di lite al controricorrente, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare al controricorrente le spese di lite, liquidate in Euro 2.200,00 per compensi, oltre oneri accessori di legge e spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 16 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 agosto 2020

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