Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17138 del 17/08/2016


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Cassazione civile sez. I, 17/08/2016, (ud. 03/05/2016, dep. 17/08/2016), n.17138

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 29777/2011 proposto da:

B.M. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DEL FONTANILE ARENATO 288, presso l’avvocato CRISTINA ADDUCCI,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE MAMMATO, giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

BANCA DELLA CAMPANIA S.P.A., per fusione della BANCA POPOLARE

DELL’IRPINIA S.P.A. e della BANCA POPOLARE DI SALERNO S.P.A., in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA XX SETTEMBRE 3, presso l’avvocato MICHELE

SANDULLI, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3612/2010 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 04/11/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/05/2016 dal Consigliere Dott. MAURO DI MARZIO;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato B.M., con delega avv.

MAMMATO, che si riporta e chiede l’accoglimento;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato SANDULLI MICHELE che si

riporta;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

p.1. – Con sentenza del 4 novembre 2010 la Corte d’appello di Napoli, in totale riforma della sentenza dinanzi ad essa impugnata, ha respinto la domanda spiegata da B.M. nei confronti della Banca della Campania S.p.A., volta ad ottenere la dichiarazione di nullità, annullamento, inefficacia, ovvero risoluzione per inadempimento, in ogni caso con la restituzione del dovuto o il risarcimento del danno, di un contratto di acquisto di obbligazioni Parmalat per il controvalore di Euro 63.000 stipulato dal B. con la convenuta in data 1 settembre 2003.

p.2. – La Corte d’appello, per quanto rileva, ha osservato quanto segue:

-) che l’acquisto, in ossequio alla previsione dettata dall’articolo 29 del regolamento Consob 11.522 del 1998, era stato preceduto da ordine scritto che l’investitore aveva impartito dopo essere stato avvertito del rischio dell’investimento, esposto a prevedibili e notevoli oscillazioni dei corsi e dei cambi;

-) che il B. aveva dichiarato alla banca di essere in possesso di una specifica esperienza in materia di strumenti finanziari, anche in divisa estera, con propensione ad un rischio di grado medio, avendo come obiettivo il conseguimento di redditività e moderata rivalutabilità rapportata al rischio di oscillazione dei corsi obbligazionari, esperienza suffragata da precedenti analoghi investimenti mobiliari;

-) che il teste indotto dalla banca, e pienamente attendibile nonostante la sua qualità di dipendente della medesima, aveva dichiarato che il cliente era propenso al rischio ed era determinato ad investire in titoli anche particolarmente rischiosi pur di lucrare una redditività superiore a quella dei titoli di Stato;

-) che la banca aveva consegnato all’attore il documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari;

-) che l’investimento in obbligazioni Parmalat non prevedeva la consegna del prospetto informativo;

-) che la banca non aveva effettuato un’attività di sollecitazione all’acquisto;

-) che la banca non aveva elementi per pronosticare il futuro crack del gruppo Parmalat, ascrivibile a condotte delittuose dei suoi amministratori, tanto più che il titolo negoziato vantava all’epoca un rating classificato tripla B;

-) che la banca non aveva ragione di predisporre il blocco dell’operatività dell’investitore;

-) che la banca non aveva operato in conflitto di interessi;

-) che in ogni caso, il B. non aveva ottemperato all’onere della prova del nesso di causalità tra la dedotta violazione, da parte della banca, degli obblighi di informazione posti a suo carico ed il danno patito.

p.3. – Contro la sentenza B.M. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.

La Banca della Campania S.p.A. ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p.4. – Il ricorso contiene due motivi.

p.4.1. – Il primo motivo è svolto da pagina 4 a pagina 25 del ricorso sotto il titolo: “Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su uno dei punti decisivi della controversia nonchè violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 21, e successive modificazioni, e degli artt. 28 e 29 del regolamento Consob numero 11.522/1998”.

Il lungo motivo di impugnazione, spesso ripetitivo, inframezzato da citazioni di giurisprudenza di merito e da riferimenti alla normativa applicabile, pone in discussione l’intera ricostruzione della vicenda operata dalla Corte d’appello, ribadendo la tesi inizialmente prospettata, secondo cui la banca si era resa inadempiente degli obblighi informativi su di essa gravanti (tant’è che essa neppure conosceva il regolamento del titolo) ed aveva dato corso ad una operazione inadeguata ed in conflitto di interessi.

p.4.2. – Il secondo motivo è svolto da pagina 25 a pagina 26 del ricorso sotto la rubrica: “Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su uno dei punti decisivi della controversia nonchè violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 23, e successive modificazioni, e del regolamento Consob numero 11.522/1998”.

Il motivo censura il passaggio motivazionale contenuto nella sentenza impugnata secondo cui esso B. non aveva dato la prova del nesso di causalità tra l’inadempimento addebitato alla banca ed il danno patito. Secondo il ricorrente il nesso di causalità dovrebbe ritenersi in re ipsa, potendosi presumere che, se adeguatamente informato, l’investitore avrebbe desistito dall’investimento, e ciò anche in considerazione dell’inversione dell’onere probatorio prevista dal D.Lgs. 24 febbraio 1998, art. 23, comma 6.

p.5. – Il ricorso va respinto.

p.5.1. – Il primo motivo è inammissibile.

Esso, nella rubrica che lo identifica, è svolto sia con riferimento alla violazione di legge che al difetto di motivazione, ma, in effetti, dal contesto del medesimo non emerge alcuna denuncia di violazione di legge, bensì soltanto una censura motivazionale concernente il governo del materiale istruttorio avuto dinanzi dal giudice di merito.

Ed infatti, le espressioni violazione o falsa applicazione contenute nell’art. 360, n. 3, si rapportano ai due momenti in cui si articola il giudizio di diritto, l’uno concernente l’individuazione ed interpretazione della norma regolatrice del caso concreto, l’altro l’applicazione della medesima norma, pur correttamente individuata ed interpretata. In particolare, il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, poichè si risolve nella erronea negazione o affermazione dell’esistenza o inesistenza della norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un significato diverso da quello scaturente dalla sua corretta interpretazione. Il vizio di falsa applicazione di legge consiste invece o nel sussumere erroneamente la fattispecie concreta sotto una norma che, pur esistente e correttamente interpretata, non la regola, ovvero nel desumere dalla norma in relazione alla fattispecie concreta conseguenze giuridiche che contraddicano la sua pur corretta interpretazione, con la conseguenza che è estranea a questo secondo momento la censura di vizio di motivazione, che concerne l’erronea ricognizione da parte del giudice del merito della fattispecie concreta attraverso le risultanze di causa (così p. es. Cass. 26 settembre 2005, n. 18782).

Nel caso in esame, allora, è di tutta evidenza che il ricorrente, lungi dal formulare una censura di violazione di legge, ha qui sostenuto che la Corte d’appello sarebbe incorsa in errore per non aver correttamente considerato la condotta concretamente posta in essere dalla banca, che non avrebbe informato il cliente, lo avrebbe indotto ad un’operazione inadeguata ed avrebbe operato in conflitto di interessi.

Ciò premesso, è agevole rammentare, con riguardo all’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo applicabile, che il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze di prove che ritenga più attendibili ed idonee alla formazione dello stesso, essendo sufficiente, ai fini della congruità della motivazione del relativo apprezzamento, che da questa risulti che il convincimento nell’accertamento dei fatti si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti al giudizio, considerati nel loro complesso (Cass. 20 febbraio 2006, n. 3601; Cass. 18 febbraio 2009, n. 3895). Nè integra il vizio di motivazione il fatto che il giudice non abbia analizzato e discusso distintamente i singoli elementi di prova acquisiti al processo, purchè, in una organica e complessiva valutazione di essi nel quadro unitario dell’indagine probatoria, si sia tenuto conto di tutte le circostanze decisive e si sia messo in rilievo quanto è necessario per chiarire e sorreggere adeguatamente la ratio decidendi (Cass. 15 maggio 2007, n. 11193; Cass. 23 maggio 2007, n. 12052; Cass. 7 gennaio 2009, n. 42; Cass. 19 marzo 2009, n. 6697).

Nel caso in esame, dunque, la valutazione compiuta dalla Corte di merito, laddove ha ritenuto che il B. fosse stato adeguatamente informato, come emergente sia dall’ordine di vendita dal medesimo impartito per iscritto, sia dalla testimonianza del teste I., si sottrae al sindacato di questa Corte, mentre il motivo prospettato altro non sollecita se non una integrale riconsiderazione del materiale istruttorio acquisito al giudizio di primo grado e, in definitiva, una inammissibile rilettura della vicenda sottoposta all’esame della Corte di merito.

Ciò è tanto più vero ove si consideri che gli elementi sui quali il ricorrente ha particolarmente fatto leva (la mancata consegna della offering circular, l’inadeguatezza dell’operazione motivata dal fatto che l’investitore era un macellaio con una scarsa conoscenza degli strumenti finanziari) sono stati già scrutinati dal giudice di merito, il quale li ha valutati inidonei a supportare l’accoglimento della domanda.

p.5.2. – Il secondo motivo è infondato.

Questa Corte, in punto di riparto dell’onere probatorio, in controversie come quella in esame, soffermandosi sul significato dell’art. 23 Tuf, secondo cui, nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta, ha affermato che: “In materia di contratti di intermediazione finanziaria, allorchè risulti necessario accertare la responsabilità contrattuale per danni subiti dall’investitore, va accertato se l’intermediario abbia diligentemente adempiuto alle obbligazioni scaturenti dal contratto di negoziazione nonchè, in ogni caso, a tutte quelle obbligazioni specificamente poste a suo carico dal D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, (T.U.F.) e prima ancora dal D.Lgs. 23 luglio 1996, n. 415, nonchè dalla normativa secondaria, risultando, quindi, così disciplinato, il riparto dell’onere della prova: l’investitore deve allegare l’inadempimento delle citate obbligazioni da parte dell’intermediario, nonchè fornire la prova del danno e del nesso di causalità fra questo e l’inadempimento, anche sulla base di presunzioni; l’intermediario, a sua volta, deve provare l’avvenuto adempimento delle specifiche obbligazioni poste a suo carico, allegate come inadempiute dalla controparte, e, sotto il profilo soggettivo, di avere agito “con la specifica diligenza richiesta” (Cass. 17 febbraio 2009, n. 3773).

Orbene non v’è dubbio, alla luce del principio così formulato, che, una volta dedotto l’inadempimento consistente nella violazione degli obblighi informativi ai quali l’intermediario finanziario è tenuto (con conseguente collocazione a carico dello stesso intermediario finanziario dell’onere probatorio di avere esattamente adempiuto, nei termini previsti dalla normativa applicabile ed in relazione all’inadempimento così come dedotto), grava altresì sul cliente investitore l’onere della prova del nesso di causalità tra l’inadempimento e il danno: onere della prova la cui osservanza, versandosi in ipotesi di causalità omissiva, va scrutinata, in ossequio alla regola del “più probabile che non” (ex multis Cass. 22 ottobre 2013, n. 23933; Cass. 21 luglio 2011, n. 15991), attraverso l’impiego del giudizio controfattuale (p. es. Cass. 14 febbraio 2012, n. 2085; Cass. 19 novembre 2004, n. 21894) e, cioè, collocando ipoteticamente in luogo della condotta omessa quella legalmente dovuta, sì da accertare, secondo un giudizio necessariamente probabilistico condotto sul modello della prognosi postuma, se, ove adeguatamente informato, l’investitore avrebbe desistito dall’investimento rivelatosi poi pregiudizievole. Tale giudizio per sua natura non si presta alla prova diretta, ma solo a quella presuntiva, occorrendo desumere (nel rispetto del paradigma di gravità, precisione e concordanza previsto dall’art. 2729 c.c.) dai fatti certi emersi in sede istruttoria se l’investitore, ove informato, avrebbe tenuto una condotta, quella consistente nel recedere all’investimento, ormai divenuta nei fatti non più realizzabile.

A fronte di tale riparto dell’onere probatorio, il ricorrente è dunque incorso anzitutto in un errore nell’affermare che l’articolo 23 del decreto legislativo numero 58 del 1998 comporti un’inversione dell’onere probatorio: chè, al contrario, tale norma, sul piano della suddivisione degli oneri probatori, si pone in perfetta armonia e continuità con la regola generale stabilita dall’art. 1218 c.c., che, in presenza dell’inadempimento, pone a carico del debitore la prova della sua non imputabilità. E parimenti in errore è incorso il B. nell’affermare che la sussistenza del nesso di causalità debba essere ritenuta in re ipsa, giacchè detta affermazione, contraria al ribadito orientamento di questa Corte, non ha alcuna base normativa nella formulazione del citato art. 23.

Nel caso di specie, pertanto, la Corte d’appello ha esattamente affermato, in disparte ogni considerazione in ordine alla questione della violazione degli obblighi informativi, che il B. non aveva offerto alcun elemento, neppure presuntivo, dal quale desumere che, ove informato della rischiosità dell’investimento, egli sarebbe receduto da esso: prova che, nel caso di specie, avrebbe dovuto essere sufficientemente circostanziata, e tale da controbattere adeguatamente a quanto riferito dal teste I., il quale ha dichiarato che il cliente, lungi dall’acquistare inconsapevolmente obbligazioni Parmalat, della cui rischiosità era stato informato, aveva deliberatamente scelto quel titolo per il preciso intento di lucrare una redditività superiore a quella dei titoli di Stato.

p.6. – Le spese seguono la soccombenza.

PQM

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso, in favore della società controricorrente, delle spese sostenute per questo grado del giudizio, liquidate in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e quant’altro dovuto per legge.

Così deciso in Roma, il 3 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 17 agosto 2016

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