Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17131 del 14/08/2020

Cassazione civile sez. I, 14/08/2020, (ud. 30/01/2020, dep. 14/08/2020), n.17131

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 30090/2018 proposto da:

B.K., rappresentato e difeso dall’Avv. Paolo Alessandrini,

giusta procura speciale in calce al ricorso per cassazione e presso

lo studio di quest’ultimo elettivamente domiciliato;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica,

domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli

uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato;

– intimato –

avverso la sentenza n. 301/2018 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata in data 02/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/01/2020 dal consigliere Lunella Caradonna.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. B.K., cittadino nato in data 11 gennaio 1989, a Serekunda (Gambia), ha formulato domanda per il riconoscimento dello stato di rifugiato, della protezione sussidiaria e di quella umanitaria alla Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Ancona, che veniva rigettata con provvedimento notificato il 22 febbraio 2016.

2. Il richiedente aveva raccontato di esercitare la professione di sarto e di essere stato ristretto in carcere con l’accusa di avere messo incinta una ragazza, poi deceduta insieme al feto a causa di un procurato aborto; di essere riuscito a fuggire dall’ospedale in cui era stato ricoverato su insistenza della sorella e di essersi recato in Senegal, a Kaolack, dove rimaneva per qualche tempo con la sorella e il cognato, per poi allontanarsi per recarsi in Mali; che era affetto da patologie al sistema polmonare che lo costringevano ogni giorno ad assumere antidolorifici.

3. Il Tribunale di Ancona, adito con ricorso ex art. 702 bis c.p.c., rigettava tutte le domande proposte con ordinanza notificata il 14 luglio 2016, confermava il provvedimento di diniego della Commissione, compensando le spese fra le parti.

4. Avverso tale provvedimento B.K. proponeva appello affermando la credibilità del racconto e la Corte di appello di Ancona, con sentenza n. 301 pubblicata il 2 marzo 2018, rigettava l’appello affermando che il racconto del richiedente era generico e non circostanziato, oltre che privo di riferimenti temporali, precisi e riscontrabili.

5. B.K. ricorre in cassazione con due motivi.

6. L’Amministrazione resistente non si è costituita.

7. Con ordinanza interlocutoria del 18 novembre 2019, la causa era rinviata a nuovo ruolo perchè alcune questioni di diritto rilevanti nel giudizio, concernenti l’applicabilità immediata del D.L. n. 113 del 2018, e l’individuazione dei presupposti per il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, erano stati rimesse all’esame del Primo Presidente della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2, ai fini della eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, in ragione sia del contrasto rilevato fra la giurisprudenza di legittimità, sia della sua particolare importanza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo B.K. lamenta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 4 della Direttiva Comunitaria 2004/83/CE del 29 aprile 2004 (abrogata e ritrasfusa nella Direttiva 2011/95/UE, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, nonchè Direttiva Comunitaria 2005/85/CE (abrogata e poi ritrasfusa nella Direttiva 2013/32/UE) e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, e art. 27, comma 1 bis, nonchè con riferimento all’art. 8 della Direttiva 2004/83/CE in merito allo speciale regime probatorio vigente nella materia di che trattasi e agli ampi poteri/doveri di collaborazione posti in capo all’organo Amministrativo, prima e al Giudice, poi.

1.1 Il motivo è inammissibile.

Come si evince dalla lettura della sentenza, la Corte territoriale ha affermato che le dichiarazioni del richiedente apparivano oggettivamente non credibili e che il racconto si presentava assolutamente generico, non circostanziato e privo di riferimenti, anche temporali, precisi e riscontrabili e pertanto oggettivamente inattendibili.

La Corte territoriale ha, poi, a pag. 4, elencato analiticamente le incongruenze logiche riguardanti la circostanza che costituisse reato mettere incinta una ragazza in un paese, nonostante la libertà della ragazza di potere liberamente circolare su mezzi pubblici e di passare la notte a casa di un estraneo conosciuto qualche giorno prima; il fatto che la famiglia di lei dapprima assente si fosse interessata dopo il ricovero della ragazza in ospedale e avesse accusato il richiedente del reato in questione; le modalità con le quali il richiedente era riuscito a fuggire dall’ospedale e a sottrarsi alle investigazioni della polizia.

I giudici di secondo grado hanno, quindi, compiuto un accertamento in fatto, non più censurabile in sede di legittimità, in esito al quale hanno ritenuto inattendibile la narrazione del richiedente, elemento questo di fondamentale importanza, poichè secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione “In materia di protezione internazionale, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5”, (Cass., 12 giugno 2019, n. 15794).

Con la conseguenza che l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, con l’ulteriore corollario che il giudice deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate.

Ciò nel rispetto dei principi affermati da questa Corte sull’onere della prova in materia di protezione internazionale, materia che non si sottrae al principio dispositivo, pur nei limiti esposti in relazione al principio della cooperazione istruttoria del giudice, principio quest’ultimo che concerne il versante dell’allegazione e non quello della prova (Cass., 29 ottobre 2018, n. 27336).

Ne deriva che il giudicante non può supplire attraverso l’esercizio dei suoi poteri ufficiosi alle deficienze probatorie del ricorrente su cui grava, invece, l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto circa l’individualizzazione del rischio rispetto alla situazione del paese di provenienza.

Inoltre “Una volta assolto l’onere di allegazione, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, e quindi di acquisizione officiosa degli elementi istruttori necessari, è circoscritto alla verifica della situazione oggettiva del paese di origine e non alle individuali condizioni del soggetto richiedente. Infatti è evidente che, mentre il giudice è anche d’ufficio tenuto a verificare se nel paese di provenienza sia obiettivamente sussistente una situazione talmente grave da costituire ostacolo al rimpatrio del richiedente, egli non può essere chiamato – nè d’altronde avrebbe gli strumenti per farlo – a supplire a deficienze probatorie concernenti la situazione personale del richiedente medesimo, dovendo a tal riguardo soltanto effettuare la verifica di credibilità prevista nel suo complesso dal comma 5 del già citato art. 3” (Cass., 14 novembre 2018, n. 29358).

In ogni caso, la censura attinente alla mancata attivazione dei poteri officiosi del giudice investito della domanda di protezione risulta essere assolutamente generica e, per conseguenza, priva di decisività.

Anche l’ulteriore profilo difensivo relativo all’audizione del richiedente è infondato poichè il potere officioso del giudice di appello di disporre l’audizione personale del richiedente è correlato ad una scelta discrezionale che compete al giudice di merito operare in base alle concrete circostanze di causa e alla necessità di vagliarle anche alla luce delle dichiarazioni rese in sede di audizione personale.

In proposito, questa Corte ha ripetutamente affermato che nel procedimento, in grado d’appello, relativo ad una domanda di protezione internazionale, non è ravvisabile una violazione processuale sanzionabile a pena di nullità nell’omessa audizione personale del richiedente, atteso che il rinvio, contenuto nel D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, comma 13, al precedente comma 10, che prevede l’obbligo di sentire le parti, non si configura come un incombente automatico e doveroso, ma come un diritto della parte di richiedere l’interrogatorio personale, cui si collega il potere officioso del giudice d’appello di valutarne la specifica rilevanza (Cass., 29 maggio 2019, n. 14600; Cass., 7 febbraio 2018, n. 3003). Alla luce degli enunciati principi, la censura del ricorrente si risolve in una generica critica del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che richiede che il giudice di merito abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente pretermesso uno specifico fatto storico, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. (Cass., 13 agosto 2018, n. 20721).

2. Con il secondo motivo B.K. lamenta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1, e all’art. 5, comma 6, in merito al rigetto della istanza di rilascio di permesso di soggiorno per motivi umanitari, laddove la Corte d’appello di Ancona: 1) non aveva esaminato affatto la documentazione allegata al ricorso e depositata nel giudizio di secondo grado, da cui si evinceva la sindrome (epatite cronica) da cui era affetto il ricorrente;2aveva omesso di effettuare una valutazione comparativa tra il grado di integrazione in Italia del sig. B.K. e la situazione soggettiva ed oggettiva da questi lasciata nel paese di origine, ritenendo che l’integrazione raggiunta nel paese ospitante dai richiedenti asilo, fosse una circostanza assolutamente avulsa e dunque irrilevante) dalle finalità di protezione della protezione umanitaria.

2.1 Il motivo è inammissibile.

Ferma restando la non applicabilità nel caso in esame delle norme dettate dal D.L. n. 113 del 2018, convertito dalla L. n. 132 del 2018, (si richiama sul punto la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 13 novembre 2019, n. 29459), va osservato che nel provvedimento impugnato si rinviene una motivazione del rigetto della domanda molto sintetica, ma non apodittica.

La Corte di appello di Ancona ha precisato che non erano state allegate, nè potevano ritenersi dimostrate specifiche situazioni soggettive tali da giustificare la concessione della protezione umanitaria e che l’istante non aveva provato di rientrare in categorie soggettive significative, quali tra queste quella dei cittadini affetti da patologie gravi.

Ed invero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari presuppone l’esistenza di situazioni non tipizzate di vulnerabilità dello straniero, risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, conseguenti al rischio del richiedente di essere immesso, in esito al rimpatrio, in un contesto sociale, politico ed ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali (Cass., 22 febbraio 2019, n. 5358).

Inoltre “la natura residuale ed atipica della protezione umanitaria se da un lato implica che il suo riconoscimento debba essere frutto di valutazione autonoma, caso per caso, e che il suo rigetto non possa conseguire automaticamente al rigetto delle altre forme tipiche di protezione, dall’altro comporta che chi invochi tale forma di tutela debba allegare in giudizio fatti ulteriori e diversi da quelli posti a fondamento delle altre due domande di protezione c.d. “maggiore”” (Cass., 7 agosto 2019, n. 21123).

Con particolare riferimento al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, questo, tuttavia, può assumere rilevanza non quale fattore esclusivo, bensì quale circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale da tutelare mediante il riconoscimento di un titolo di soggiorno (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

Ed infatti, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza e, tuttavia, non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Cass., 28 giugno 2018, n. 17072; Cass., Sez. U., 13 novembre 2019, n. 29459).

Così facendo, infatti, si prenderebbe altrimenti in considerazione, piuttosto che la situazione particolare del singolo soggetto, quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali e astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria (Cass., 3 aprile 2019, n. 9304; Cass., Sez. U., 13 novembre 2019, n. 29459). I giudici di secondo grado, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, hanno evidenziato che gli elementi emersi non offrivano alcuna evidenza in ordine ad una peculiare situazione di vulnerabilità del soggetto ricorrente (epatite cronica attiva), ritenendo, per ciò solo, la dedotta malattia non idonea a configurare una situazione di grave violazione dei diritti umani.

In proposito, questa Corte, dopo avere precisato che” la protezione umanitaria, nel regime vigente “ratione temporis”, tutela situazioni di vulnerabilità – anche con riferimento a motivi di salute – da riferirsi ai presupposti di legge ed in conformità ad idonee allegazioni da parte del richiedente” ha evidenziato che “non è ipotizzabile nè un obbligo dello Stato italiano di garantire allo straniero “parametri di benessere”, nè quello di impedire, in caso di ritorno in patria, il sorgere di situazioni di “estrema difficoltà economica e sociale”, in assenza di qualsivoglia effettiva condizione di vulnerabilità che prescinda dal risvolto prettamente economico” (Cass., 7 febbraio 2019, n. 3681).

Il ricorrente, peraltro, anche in questa sede si è limitato ad una critica sterile indirizzata alla motivazione della sentenza, senza nulla aggiungere, in concreto, con riferimento alla posizione personale e ad una qualche situazione di vulnerabilità in grado di giustificare le ragioni umanitarie richieste per il permesso di soggiorno.

Questi, infatti, pur lamentandosi della mancata considerazione del livello di integrazione sociale, personale e lavorativa raggiunta non ha fornito alcun elemento concreto che potesse sorreggere tale tipo di valutazione, parlando genericamente di effettività dell’inserimento sociale e lavorativo e di significatività dei legali personali e familiari in base alla loro durate nel tempo e stabilità.

5. Il ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile.

Nulla per le spese processuali, stante la mancanza di attività difensiva da parte dell’Amministrazione intimata.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, del 2002, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 30 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 agosto 2020

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