Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17119 del 10/07/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 17119 Anno 2013
Presidente: MIANI CANEVARI FABRIZIO
Relatore: BERRINO UMBERTO

SENTENZA

sul ricorso 10909-2011 proposto da:
AP AUTOMOTIVE PRODUCTS S.R.L. 02446320422, in persona
del

legale

IMMOBILIARE

rappresentante pro tempore e ANNA
S.R.L.

01813740683, (già

Automotive

Products s.p. a.), in persona del legale rappresentante

2013
1044

pro tempore,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

OSLAVIA 14,

presso lo studio dell’avvocato MANCUSO

NICOLA, che

li rappresenta e difende unitamente

all’avvocato GULLO GIUSEPPE, giusta delega in atti;
– ricorrente contro
4.

Data pubblicazione: 10/07/2013

SEGNAN RUGGERO SGNRGR53E06A271J, già elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA CARLO POMA 4, presso lo
studio dell’avvocato MASSIDDA MAURIZIO, rappresentato
e difeso dall’avvocato FELCINI FRANCESCO, giusta
delega in atti e da ultimo presso LA CANCELLERIA DELLA

– controricorrente nonchè contro

GRASSETTI FABRIZIO, MORRESI GIORGIO;
– intimati –

avverso la sentenza n. 695/2010 della CORTE D’APPELLO
di ANCONA, depositata il 31/01/2011 R.G.N. 761/2008 +
altre;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 21/03/2013 dal Consigliere Dott. UMBERTO
BERRINO;
udito l’Avvocato GULLO GIUSEPPE;
udito l’Avvocato FELCINI FRANCESCO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIANFRANCO SERVELLO che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

Svolgimento del processo
Il giudice del lavoro del Tribunale di Ancona accolse l’impugnativa del
licenziamento collettivo promossa da Segnan Ruggero nei confronti della società
Automotive Products s.p.a e con sentenza non definitiva, accertata l’illegittimità del

n. 223/91, condannò la resistente alla reintegra del lavoratore e dispose la
prosecuzione del giudizio in merito alle richieste risarcitorie formulate per il
lamentato demansionamento, per la perdita di “chances”, per danno biologico ed
altro. Con sentenza definitiva la resistente venne, poi, condannata al pagamento
di € 4500,00, quale danno provocato al dipendente per il mancato conseguimento
del premio “MBO”, al versamento della retribuzione globale di fatto dalla data del
licenziamento a quella della reintegra, dedotto quanto eventualmente fruito dal
lavoratore ai sensi del’art. 8, comma 2, D.Ivo n. 468/97, al versamento della
somma per danno biologico permanente nella misura del 15% e alla
corresponsione di € 1500,00 per danno biologico temporaneo.
L’impugnazione di entrambe le decisioni da parte della società soccombente è
stata in seguito respinta dalla Corte d’appello di Ancona con sentenza del 22-1210 / 31-1-11.
La Corte territoriale è pervenuta alla decisione di rigetto del gravame dopo aver
rilevato che nella comunicazione trasmessa alle organizzazioni sindacali ed alla
Direzione del lavoro la società appellante non aveva indicato le concrete modalità
di applicazione dei criteri stabiliti per l’attribuzione dei punteggi dei lavoratori
collocati in mobilità, per cui non era stato consentito a questi ultimi di verificare se
l’applicazione di quei criteri era avvenuta in conformità alle clausole ed alle
condizioni consacrate nell’accordo sindacale, con la conseguenza che tale vizio
procedimentale determinava l’inefficacia del licenziamento impugnato. Un ulteriore
profilo di illegittimità del licenziamento derivava, secondo la Corte, anche dalla
violazione, nella fase applicativa dei criteri di scelta, dell’accordo sindacale

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licenziamento per l’inadeguatezza della comunicazione di cui all’art. 4, comma 9, I.

aziendale del 28/6/2006 per effetto del quale i criteri selettivi in concorso tra loro
avrebbero dovuto essere verificati nell’ambito del complesso aziendale, in sintonia
col criterio di graduazione legale di cui all’art. 5 della legge n. 223/91 mai
derogato, e non sulla base di cinque graduatorie per ognuno dei cinque reparti di

dei principi di correttezza e buona fede che avrebbero dovuto presidiare la
procedura del licenziamento collettivo per riduzione del personale.
Quanto alle conseguenze risarcitorie la Corte ha osservato che la mancata
accettazione da parte del lavoratore del patto di dequalificazione, non concordato
in sede sindacale, non poteva essergli opposta in compensazione con l’indennità
spettantegli ai sensi dell’art. 18 della legge n. 300/70, dal momento che nessun
vincolo poteva in tal senso sussistere in capo al dipendente; in ogni caso gli effetti
della mancata accettazione si erano già manifestati attraverso l’attribuzione a suo
danno di un minor punteggio ai fini della graduatoria di mobilità. Inoltre, era
risultata provata la responsabilità della società, sia in ordine al demansionamento
perpetrato in danno del lavoratore, con gli inevitabili riflessi sul procurato danno
biologico nella misura accertata dal primo giudice, sia in merito alla mancata
definizione preventiva degli obiettivi costituenti il punto di riferimento per il calcolo
della indennità contrattuale denominata “MBO” della quale il lavoratore non aveva
più beneficiato.
Per la cassazione della sentenza propongono ricorso la società AP Automotive
Products s.r.I e la società Anna Immobiliare s.r.I (già Automotive Products s.p.a)
che affidano l’impugnazione a sei motivi di censura.
Resiste con controricorso Segnan Ruggero.
Morresi Giorgio e Grassetti Fabrizio rimangono solo intimati.
Le ricorrenti depositano, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione

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lavorazione, come verificatosi, invece, nella fattispecie, con conseguente lesione

1. Col primo motivo le società ricorrenti denunziano l’erronea applicazione delle
norme di cui agli artt. 4 e 5 della legge n. 223/1991 e all’art. 2697 cod. civ., nonché
il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto
controverso e decisivo per il giudizio in quanto, nel contestare la decisione della

provare compiutamente i criteri di scelta del licenziamento, sostengono che
sarebbe stato, invece, sufficiente dar conto dei criteri e dei punteggi applicati
senza necessità di allegare la graduatoria ottenuta con l’applicazione dei criteri di
scelta dei lavoratori da porre in mobilità. Aggiungono le ricorrenti che alla lettera
del 21/7/2006 (documento n. 22 del fascicolo di primo grado) era stato allegato il
verbale di accordo del 28 giugno 2006 con la rappresentanza sindacale unitaria
della A.P. che conteneva l’indicazione dei reparti interessati dalla procedura di
mobilità ed il numero dei lavoratori coinvolti per ciascun reparto; inoltre, in tale
verbale era stato concordato che i lavoratori da porre in mobilità avrebbero dovuto
essere individuati sulla base delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative
illustrate nella lettera di avvio della procedura (doc. n. 21 del fascicolo di primo
grado), per cui nulla ostava al controllo giudiziale successivo. In ogni caso,
concludono le ricorrenti, l’inosservanza del corretto adempimento della
comunicazione avrebbe potuto rappresentare, tutt’al più, una fonte di risarcimento
del danno.
Il motivo è infondato.
Anzitutto, è da rilevare che questa Corte ha ripetutamente avuto modo di
affermare la necessità che la comunicazione preventiva di inizio della procedura di
mobilità contenga la puntuale indicazione dei criteri di scelta al fine di garantire
concretamente al lavoratore ed alle organizzazioni sindacali la possibilità di
verificare la loro corretta applicazione e l’eventuale illegittimità della sanzione
espulsiva adottata nel singolo caso.

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Corte di merito secondo la quale la parte datoriale avrebbe dovuto indicare e

Invero, da ultimo si è statuito (Cass. Sez. Lav. n. 12196 del 6/6/2011) che “in tema
di procedura di mobilità, la previsione, di cui all’art. 4, nono comma, legge n. 223
del 1991, secondo cui il datore di lavoro, nella comunicazione preventiva con la
quale dà inizio alla procedura, deve dare una “puntuale indicazione” dei criteri di

prescelto sia unico, il datore di lavoro deve provvedere a specificare nella detta
comunicazione le sue modalità applicative, in modo che essa raggiunga quel
livello di adeguatezza sufficiente a porre in grado il lavoratore di percepire perché
lui – e non altri dipendenti – sia stato destinatario del collocamento in mobilità o del
licenziamento collettivo e, quindi, di poter eventualmente contestare l’illegittimità
della misura espulsiva.
Analogamente si era già precisato (Cass. Sez. Lav. n. 3603 del 16/2/2010) che
“nella materia dei licenziamenti regolati dalla legge 23 luglio 1991, n. 223, la
comunicazione di cui all’alt 4, comma nono, che fa obbligo di indicare
“puntualmente” le modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta dei
lavoratori da licenziare, è finalizzata a consentire ai lavoratori interessati, alle
organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi di controllare la correttezza
dell’operazione e la rispondenza agli accordi raggiunti. A tal fine non è sufficiente
la trasmissione dell’elenco dei lavoratori licenziati e la comunicazione dei criteri di
scelta concordati con le organizzazioni sindacali, nè la predisposizione di un
meccanismo di applicazione in via successiva dei vari criteri, poiché vi è necessità
di controllare se tutti i dipendenti in possesso dei requisiti previsti siano stati
inseriti nella categoria da scrutinare e, in secondo luogo, nel caso in cui i
dipendenti siano in numero superiore ai previsti licenziamenti, se siano stati
correttamente applicati i criteri di valutazione comparativa per l’individuazione dei
dipendenti da licenziare.” (conf. a Cass. sez. lav. n. 27165/2009, Cass. sez. lav. n.
22825/2009, Cass. sez. lav. n. 5034/2009)

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scelta e delle modalità applicative, comporta che, anche quando il criterio

Orbene, la Corte territoriale ha tenuto giustamente conto di tali principi nel
momento in cui con motivazione in punto di fatto, esente da vizi di carattere logicogiuridico, ha verificato l’inadeguatezza della comunicazione trasmessa dalla parte
datoriale alle organizzazioni sindacali ed alla Direzione del lavoro senza

l’attribuzione dei punteggi relativi ai lavoratori collocati in mobilità, per cui non era
stato consentito a questi ultimi di verificare se l’applicazione di quei criteri era
avvenuta in conformità alle clausole ed alle condizioni consacrate nell’accordo
sindacale posto a base della procedura.
Quanto all’allegato n.3 alla comunicazione del 21/7/06, al quale si fa riferimento
nel presente ricorso nel tentativo di dimostrare l’erroneità del rilievo dei giudici
d’appello sulla inadeguatezza della stessa comunicazione, si osserva che per
ammissione della medesima difesa di parte ricorrente esso era costituito dal
verbale di accordo del 28/6/2006 con la R.S.U, cioè da un atto esterno che si
assume potesse essere controllato in sede di verifica giudiziale successiva,
mentre in realtà tale assunto difensivo non consente di sopperire alla necessità
che la comunicazione preventiva di inizio della procedura di mobilità contenga
essa stessa la puntuale indicazione dei criteri di scelta, così come previsto dall’art.
4, comma 9, I. n. 223/91, nell’ottica della garanzia per il destinatario dell’atto della
possibilità di verificare il rispetto degli accordi e di contestare l’eventuale
illegittimità della sanzione adottata, non potendo a tal riguardo ritenersi sufficiente,
per le ragioni espresse in precedenza, la tecnica del generico richiamo al
contenuto di un separato accordo.
2. Col secondo motivo, formulato per violazione dell’accordo sindacale del
28/6/2006, degli artt. 4 e 5 della legge n. 223/91 e degli artt. 1362 e segg. cod.
civ., nonché per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto
controverso e decisivo per il giudizio, si contesta il ravvisato profilo di illegittimità
del recesso datoriale nel fatto che la scelta dei dipendenti da collocare in mobilità

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P/5

l’indicazione delle concrete modalità di applicazione dei criteri stabiliti per

non era stata effettuata secondo le esigenze dell’intero complesso aziendale. Si
sostiene, invero, l’erroneità del ricorso ad un tale criterio interpretativo, dal
momento che il richiamo alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del
complesso aziendale già illustrate nella lettera di avvio della procedura, contenuto

relazione alle singole aree aziendali e all’interno di professionalità omogenee, per
cui aveva errato la Corte nell’affermare che il suddetto richiamo implicava
l’applicazione del criterio della graduatoria fra tutti i lavoratori potenzialmente
interessati dalla procedura di mobilità.
Il motivo è infondato.
Si è, infatti, già avuto modo di statuire (Cass. Sez. Lav. n. 22825 del 28/10/2009)
che “in tema di licenziamento collettivo, il doppio richiamo operato dall’art. 5,
comma 1, della legge n. 223 del 1991 alle esigenze tecnico-produttive ed
organizzative del complesso aziendale, comporta che la riduzione del personale
deve, in linea generale, investire l’intero ambito aziendale, potendo essere limitato
a specifici rami d’azienda soltanto se caratterizzati da autonomia e specificità delle
professionalità utilizzate, infungibili rispetto alle altre. Ne consegue che il
riferimento al “personale abitualmente impiegato”, aggiunto all’originario testo
dell’art. 4, comma 3, della legge n. 223, dal d.lgs. n. 151 del 1997, comporta che i
profili professionali da prendere in considerazione sono quelli propri di tutti i
dipendenti potenzialmente interessati (in negativo) alla mobilità, tra i quali potrà,
all’esito della procedura, operarsi la scelta dei lavoratori da collocare in mobilità.
La dimostrazione della ricorrenza delle specifiche professionalità o comunque
delle situazioni oggettive che rendano impraticabile qualunque comparazione,
costituisce onere probatorio a carico del datore di lavoro”.
E’, quindi corretta, oltre che adeguatamente motivata, l’interpretazione eseguita
dai giudici d’appello dell’art. 3 del predetto accordo sindacale, nel senso di ritenere
che, laddove l’accordo in esame individua i dipendenti da collocare in mobilità

nell’art. 3 del verbale di accordo sindacale del 28/6/06, era da intendere in

sulla base delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso
aziendale, le parti collettive hanno inteso far riferimento ad un’unica graduatoria e
non a cinque graduatorie in base al numero dei reparti. Invero, i medesimi giudici
hanno esattamente evidenziato che la clausola contrattuale in questione riporta la

dello stesso accordo emerga l’intenzione delle parti tesa a derogare al criterio
legale della graduatoria unica.
3. Attraverso il terzo motivo, formulato per la lamentata violazione dell’art. 1227
cod. civ., oltre che per l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa
un fatto controverso e decisivo per il giudizio, si insiste sulla tesi per la quale era
da considerare immotivato il rifiuto del lavoratore di accettare il patto di
dequalificazione come rimedio per evitare il licenziamento, ragione per cui egli non
aveva fondato motivo di dolersi dell’atto di recesso, essendo tale suo
comportamento rilevante ai sensi dell’art. 1227 c.c., posto che in tal modo aveva
aggravato le conseguenze economiche del danno.
Il motivo è infondato in quanto, con argomentazione adeguata ed immune da rilievi
di carattere logico-giuridico, i giudici d’appello hanno posto in risalto sia
l’insussistenza di un obbligo del lavoratore di accettare il patto di dequalificazione,
la qual cosa fa venir meno il presupposto per la invocata applicazione nella
fattispecie del principio della ricaduta sul medesimo dell’aggravamento del danno
al quale avrebbe colposamente contribuito, sia il fatto che di un tale rifiuto si era
già tenuto conto ai fini dell’attribuzione di un punteggio più sfavorevole nell’ambito
della graduatoria del licenziamento.
4. Col quarto motivo è denunziata la violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 2103
c.c., nonché l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un fatto
controverso e decisivo per il giudizio. Ci si duole, in pratica, del fatto che la Corte
non si sarebbe pronunziata sul motivo col quale si era contestata l’esistenza di
una rinunzia della parte datoriale allo “ius variandi”, così come affermata dal primo

stessa formula del criterio legale di graduazione, senza che in alcuna altra parte

giudice sulla base dell’assunzione della medesima dell’impegno del 16/5/02 di non
trasferire il lavoratore o di ricollocarlo internamente in posizioni compatibili con la
sua professionalità; al contrario, aggiungono le odierne ricorrenti, la Corte si
sarebbe soffermata solo sulla verifica del carattere deteriore o meno delle nuove

d’appello avrebbero dovuto considerare la prolungata inerzia del Segnan (quattro
anni) prima che egli facesse valere il predetto accordo, per cui da tutto ciò poteva
ritenersi che le nuove mansioni erano state tacitamente accettate.
Il motivo è, anzitutto, inammissibile nella parte in cui si tenta una rivisitazione del
merito della controversia, non consentita nella presente sede di legittimità, mentre
è infondato in relazione alla supposta omessa pronunzia, atteso che la soluzione
ravvisata dalla Corte in ordine all’accertato demansionamento è da intendere
logicamente come implicito rigetto delle istanze che in diverso modo lo negano.
5. Col quinto motivo, contenente la denunziata violazione delle norme in tema di
interpretazione dei contratti, si contesta l’interpretazione della parte dell’accordo
del 16/5/02 relativa ai presupposti del premio di produttività denominato con la
sigla “MBO”, così come eseguita dalla Corte di merito.
Il motivo è infondato dal momento che la difesa delle ricorrenti si limita a
contrapporre la propria tesi all’interpretazione dell’accordo eseguita dalla Corte nel
rispetto dei canoni di ermeneutica contrattuale e legale. Infatti, i giudici d’appello
hanno adeguatamente motivato la loro interpretazione della predetta clausola
contrattuale facendo riferimento al significato letterale della stessa, alla previsione
della cadenza annuale del premio ed alla mancata colpevole definizione
preventiva, da parte della datrice di lavoro, degli obiettivi da perseguire necessari
al dipendente per poterlo conseguire.
6. Con l’ultimo motivo ci si duole della omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio rappresentato dal
lamentato demansionamento rispetto al quale le conclusioni della perizia medica

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mansioni di Responsabile IMDS. Invece, concludono le ricorrenti, i giudici

espletata in corso di causa sul danno biologico erano da considerare inattendibili,
posto che le stesse erano fondate sulle sole allegazioni del ricorrente. In concreto
le ricorrenti appuntano l’attenzione sul fatto che non risultava provato che il
disturbo lamentato dal ricorrente ai fini della richiesta del danno biologico fosse

l’assunto del lavoratore, da comportamenti datoriali vessatori nei suoi confronti e,
comunque, non vi era prova della sua riconducibilità ad eventi lavorativi
Il motivo è infondato per la semplice ragione che, una volta risultato incontestato lo
stato di “stress” patito dal lavoratore, la doglianza finisce per tradursi, in ultima
anali, in una mera contrapposizione della valutazione difensiva delle risultanze
della perizia d’ufficio a quella seguita dalla Corte di merito, la quale le ha condivise
sulla base di argomentazioni congruamente motivate che sfuggono, in quanto tali,
ai rilievi di legittimità.
Il ricorso va, quindi, rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza delle ricorrenti e vanno
liquidate come da dispositivo.
Nulla va disposto per le spese nei confronti del Morresi e del Grassetti rimasti solo
intimati.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna 14,ricorrentc‘ alle spese del presente giudizio
nella misura di € 4500,00 per compensi professionali e di € 50,00 per esborsi, oltre
accessori di legge. Nulla per le spese nei confronti di Morresi Giorgio e Grassetti
Fabrizio.
Così deciso in Roma il 21 marzo 2013
Il Consigliere estensore

riconducibile agli eventi del 2003 che sarebbero stati contraddistinti, secondo

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