Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17116 del 13/08/2020

Cassazione civile sez. II, 13/08/2020, (ud. 06/02/2020, dep. 13/08/2020), n.17116

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 21775/2019 R.G. proposto da:

R.S.Y. – c.f. (OMISSIS) – elettivamente domiciliato, con

indicazione dell’indirizzo p.e.c., in Mazzarino, alla via Bivona, n.

37, presso lo studio dell’avvocato Antonino Ficarra che lo

rappresenta e difende in virtù di procura speciale su foglio

separato allegato in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO dell’INTERNO – c.f. (OMISSIS) – in persona del Ministro pro

tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso i cui uffici in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12,

domicilia per legge.

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1074/2019 del Tribunale di Caltanissetta;

udita la relazione nella camera di consiglio del 6 febbraio 2020 del

consigliere Dott. Luigi Abete.

 

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO

1. Con ricorso al Tribunale di Caltanissetta R.S.Y. proponeva impugnazione avverso il provvedimento con il quale la Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Siracusa aveva respinto la sua domanda di protezione internazionale.

Chiedeva il riconoscimento dello status di “rifugiato” ed, ulteriormente, il riconoscimento della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

2. Resisteva il Ministero dell’Interno.

3. Con decreto n. 1074/2019 il tribunale rigettava il ricorso.

3.1. Premetteva il tribunale che il ricorrente aveva dichiarato di essersi allontanato dal suo paese di origine, il Pakistan, onde sottrarsi alle violenze ed alle minacce di morte di taluni avversari politici.

Indi esplicitava che le contraddittorie dichiarazioni dell’istante non erano credibili, sicchè non sussistevano i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui alla lett. b) del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14.

Esplicitava che neppure sussistevano i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al cit., art. 14, lett. c).

Esplicitava segnatamente che i rapporti EASO del 2017 e del 2018 inducevano ad escludere, con riferimento al distretto – ricompreso nella regione del Punjab – di Pakpattan, di provenienza del ricorrente, la sussistenza di situazioni di indiscriminata violenza, tali, di per sè, da esporlo, se rimpatriato, al rischio di gravi minacce alla vita o alla incolumità personale.

Esplicitava infine che non sussistevano i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria.

4. Avverso tale decreto ha proposto ricorso R.S.Y.; ne ha chiesto sulla scorta di quattro motivi, variamente articolati, la cassazione con ogni susseguente statuizione.

Il Ministero dell’Interno si è costituito ai soli fini della partecipazione all’eventuale udienza di discussione.

5. Con il primo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 24 Cost., del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 7, dell’art. 6, comma 3, lett. A), della C.E.D.U., dell’art. 14, comma 3, lett. A), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e dell’art. 132 c.p.c..

Deduce che la presunzione di conoscenza della lingua italiana non può reputarsi operante con riferimento allo straniero.

Deduce inoltre che la decisione della commissione territoriale e parimenti il decreto impugnato non sono stati tradotti nella sua lingua; che pertanto le pronunce anzidette, siccome incomprensibili, sono di fatto prive di motivazione.

Prospetta l’illegittimità costituzionale dell’art. 122 c.p.c. per contrasto con gli artt. 6 e 10 Cost..

6. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1364,1365,1369 e 2697 c.c. e ss., degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 156 c.p.c., comma 2, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, degli artt. 6 e 13 della C.E.D.U., dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., dell’art. 46 della direttiva Europea n. 2013/32.

Deduce che ha reso dichiarazioni circostanziate e coerenti.

Deduce altresì che il tribunale non ha specificato le ragioni dell’asserita contraddittorietà, non ha correttamente valutato le sue dichiarazioni, non ha correttamente valutato il materiale probatorio offerto.

Deduce segnatamente che il caso di specie configura un’ipotesi di “atti persecutori per motivi politici – religiosi, ed in un certo senso anche di razza” (così ricorso, pag. 7).

7. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1364,1365,1369 e 2697 c.c. e ss., degli artt. 115 e 116 c.c. e art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 156, comma 2, del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 14, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3,, degli artt. 6 e 13 della C.E.D.U., dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., dell’art. 46 della direttiva Europea n. 2013/32.

Deduce che ha errato il tribunale a disconoscere la protezione sussidiaria. Deduce in particolare che in dipendenza del suo impegno politico, in caso di rimpatrio, la sua stessa vita sarebbe esposta a pericolo.

Deduce in particolare che in dipendenza della situazione socio – politica esistente nella regione di sua provenienza, il Punjab, viepiù aggravata dalla corruzione del sistema di polizia, sarebbe, in caso di rimpatrio, fortemente esposto a rischi di trattamenti inumani e degradanti, a rischi per la sua vita e la sua incolumità personale.

8. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1364,1365,1369 e 2697 c.c. e ss., degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 156 c.p.c., comma 2, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 1, e dell’art. 3 della C.E.D.U..

Deduce che ha errato il tribunale a disconoscere la protezione umanitaria.

Deduce che il suo rimpatrio comporterebbe degradazione della sua condizione economica e sociale, oltre che psicologica; che invero in Pakistan gli elementari diritti della persona, ovvero il diritto alla salute ed alla alimentazione, sono del tutto inesistenti.

Deduce inoltre che gli obblighi costituzionali di solidarietà ed internazionali dello Stato italiano avrebbero giustificato il riconoscimento della protezione umanitaria.

Deduce infine che è integrato in Italia, giacchè lavora con un contratto a tempo indeterminato, e che manca dal suo paese oramai da molti anni, sicchè, in ipotesi di rimpatrio, sarebbe costretto ad un nuovo inserimento sociale.

9. Il primo motivo di ricorso è destituito di fondamento.

10. Il tribunale ha debitamente premesso che all’udienza del 24.10.2018 si era proceduto all’audizione del ricorrente in lingua urdu e punjabi. Ed ha soggiunto che nel corso dell’audizione il ricorrente ha anche risposto alle domande che gli erano state rivolte a chiarimento.

In pari tempo, a supporto delle ragioni di censura veicolate dal quarto mezzo, il ricorrente ha dedotto che parla l’italiano (cfr. ricorso, pag. 15).

11. Evidentemente, in questi termini, a nulla vale addurre che la presunzione di conoscenza della lingua italiana non può reputarsi operante per lo straniero.

Evidentemente, in questi termini, a nulla vale altresì addurre che la decisione della commissione territoriale ed il decreto impugnato sarebbero privi di motivazione, siccome non tradotti nella lingua dell’istante e quindi incomprensibili.

Cosicchè neppure viene in rilievo l’insegnamento di questa Corte a tenor del quale, in tema di protezione internazionale, la nullità del provvedimento amministrativo, emesso dalla Commissione territoriale, per omessa traduzione in una lingua conosciuta dall’interessato o in una delle lingue veicolari, non esonera il giudice adito dall’obbligo di esaminare il merito della domanda, poichè oggetto della controversia non è il provvedimento negativo ma il diritto soggettivo alla protezione internazionale invocata, sulla quale comunque il giudice deve statuire, non rilevando in sè la nullità del provvedimento ma solo le eventuali conseguenze di essa sul pieno dispiegarsi del diritto di difesa (cfr. Cass. (ord.) 22.3.2017, n. 7385; Cass. (ord.) 15.5.2019, n. 13086).

Evidentemente, nei medesimi suesposti termini, non ha valenza alcuna, id est è del tutto irrilevante, la quaestio legitimitatis dell’art. 122 c.p.c. che il ricorrente prefigura con il passaggio finale del motivo di ricorso in esame (cfr., peraltro, Cass. 21.11.2018, n. 30105, secondo cui è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del D.P.R. n. 303 del 2004, art. 4 (vigente “ratione temporis”), 19 dec, lgs. n. 150 del 2011 e 702 bis c.p.c. nonchè della L. n. 2248 del 1865, artt. 4 e 5, in relazione agli artt. 3,24 e 10 Cost. ed all’art. 6 C.E.D.U., per le diverse conseguenze derivanti dalla mancata traduzione del provvedimento della Commissione territoriale rispetto a quelle derivanti dalla mancata traduzione del decreto di espulsione di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 7, poichè, nel primo caso, il disposto del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19, comma 9, oggi D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis – che richiede una statuizione di merito in ordine alla spettanza o meno del diritto alla protezione internazionale, senza prevedere una decisione di mero annullamento del provvedimento negativo della Commissione territoriale – si giustifica poichè la rimozione di tale atto non è idonea ad incidere sulla situazione giuridica sostanziale del richiedente protezione, mentre, nel secondo caso, l’annullamento del provvedimento di espulsione di per sè ripristina il diritto sostanziale dell’espellendo illegittimamente inciso, così realizzando il suo interesse protetto ponendo termine al processo; è, inoltre, infondato il richiamo all’art. 24 Cost. e art. 6 C.E.D.U. poichè il diritto ad un equo processo risulta garantito pienamente, al pari di quello dell’espellendo, mediante la possibilità per il richiedente di adire il giudice e così dispiegare compiutamente ogni sua difesa nell’ambito del processo).

12. Il secondo motivo di ricorso è del pari destituito di fondamento.

13. La valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento “di fatto” rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, ex D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c); tale apprezzamento “di fatto” è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (cfr. Cass. (ord.) 5.2.2019, n. 3340).

14. Su tale scorta, nel segno del novello dettato dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ed, evidentemente, nel solco dell’insegnamento n. 8053 del 7.4.2014 delle sezioni unite di questa Corte, si rappresenta quanto segue.

Da un canto il Tribunale di Caltanissetta ha dato compiutamente conto della incongruenza e della inverosimiglianza delle dichiarazioni rese dal ricorrente.

In particolare il tribunale ha non solo dato atto analiticamente delle intrinseche incongruenze delle dichiarazioni rese dal ricorrente (specificando, tra l’altro, che “non è credibile che il ricorrente sia stato perseguitato per aver convinto delle persone a cambiare schieramento, mentre queste stesse persone non hanno avuto conseguenze”: così pag. 3), ma ha altresì posto in risalto le divergenze intercorrenti tra le dichiarazioni rese dinanzi a sè e le dichiarazioni rese dinanzi alla commissione territoriale (cfr. pag. 3).

D’altro canto il ricorrente indubbiamente sollecita questa Corte a far luogo ad una “diversa lettura” delle sue dichiarazioni (“ecco che ammissione di sincerità del ricorrente viene fraintesa dal Tribunale come ulteriore elemento di non credibilità”: così ricorso, pag. 6).

15. Si tenga conto che nel giudizio relativo alla protezione internazionale del cittadino straniero, la valutazione di attendibilità, di coerenza intrinseca e di credibilità della versione dei fatti resa dal richiedente, non può che riguardare tutte le ipotesi di protezione prospettate nella domanda, qualunque ne sia il fondamento; altresì, che, in relazione alla protezione sussidiaria, essa ha ad oggetto sul piano dell’onere di allegazione tutto ciò che è contenuto nel paradigma dell’art. 14, trattandosi di norma tesa a distinguere il concetto di “danno grave” secondo i diversi profili di cui alle lett. a), b) e c); cosicchè, ritenuti non credibili i fatti allegati a sostegno della domanda, non è necessario far luogo a un approfondimento istruttorio ulteriore, attivando il dovere di cooperazione istruttoria officiosa incombente sul giudice, dal momento che tale dovere non scatta laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quantomeno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (cfr. Cass. (ord.) 20.12.2018, n. 33096; Cass. 12.6.2019, n. 15794, secondo cui, in materia di protezione internazionale, il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, trova applicazione con riguardo alla domanda volta al riconoscimento dello status di “rifugiato”, tanto con riguardo alla domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria, in ciascuna delle ipotesi contemplate dall’art. 14 D.Lgs. cit., con la conseguenza che, ove detto vaglio abbia esito negativo, l’autorità incaricata di esaminare la domanda non deve procedere ad alcun ulteriore approfondimento istruttorio officioso, neppure concernente la situazione del Paese di origine).

Su tale scorta del tutto legittimo è il mancato esercizio, da parte del tribunale, dei poteri istruttori officiosi.

Cosicchè per nulla si giustifica l’assunto del ricorrente secondo cui il tribunale, onde riscontrare le sue dichiarazioni, avrebbe dovuto inoltrare alle autorità pakistane richiesta di trasmissione delle denunce asseritamente presentate (cfr. ricorso, pag. 8).

16. Il terzo motivo di ricorso è parimenti destituito di fondamento.

17. Il mezzo in disamina ha una duplice proiezione.

Per un verso, pur quando si deduce che “per le proprie opinioni politiche (…) e per la propria attiva funzione politica (il ricorrente) rischierebbe la morte (la madre è stata ferita), nè tanto meno il proprio paese è in grado di proteggerlo” (così ricorso, pag. 9), il motivo si risolve, nelle sue premesse, nella censura – dapprima disattesa – della valutazione che delle dichiarazioni rese – circa le ragioni dell’allontanamento dal paese d’origine – il tribunale ha operato.

Per altro verso il motivo reca sostanzialmente censura del giudizio “di fatto” cui il Tribunale di Caltanissetta ha atteso ai fini del concreto riscontro dell’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) (“ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, sono considerati danni gravi: (…); c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”).

Del resto, a tal ultimo riguardo, questa Corte spiega che, in tema di protezione sussidiaria, l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dalla medesima disposizione, implica un apprezzamento “di fatto” rimesso al giudice del merito; il risultato di tale indagine può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. Cass. 21.11.2018, n. 30105; Cass. (ord.) 12.12.2018, n. 32064).

18. In questo quadro gli asseriti vizi motivazionali che il terzo motivo di ricorso veicola, sono evidentemente da vagliare nei limiti della novella formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – alla cui stregua, a rigore, il motivo si qualifica – e nel solco del già menzionato insegnamento n. 8053 del 7.4.2014 delle sezioni unite.

19. In quest’ottica si osserva quanto segue.

Da un canto è da escludere recisamente che taluna delle figure di “anomalia motivazionale” destinate ad acquisire significato alla stregua della pronuncia a sezioni unite testè citata, possa scorgersi in relazione alle motivazioni cui il Tribunale di Caltanissetta ha ancorato il suo dictum.

In particolare, con riferimento all'”anomalia” della motivazione “apparente” – che ricorre allorquando il giudice di merito non procede ad una approfondita disamina logico – giuridica, tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito (cfr. Cass. 21.7.2006, n. 16672) – il tribunale ha – siccome si è in precedenza evidenziato – compiutamente ed intellegibilmente esplicitato il proprio iter argomentativo (il tribunale, in ordine all’ipotesi di cui al cit. art. 14, lett. c), ha ulteriormente specificato che i rapporti EASO del 2017 e del 2018, con riferimento alla regione di provenienza del ricorrente, inducevano ad escludere la sussistenza di situazioni di violenza indiscriminata riconducibili all’esistenza di conflitti armati, interni o internazionali (cfr. pag. 3); ed ha aggiunto che il ricorrente nel corso dell’audizione nulla aveva riferito in ordine all’esistenza, nella sua zona d’origine, di conflitti armati (cfr. pag. 3)).

D’altro canto il tribunale ha sicuramente disaminato il fatto decisivo caratterizzante, in parte qua, la res litigiosa, ossia la concreta sussistenza delle ipotesi in astratto prefigurate al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14.

20. In ogni caso l’iter motivazionale che sorregge il dictum del tribunale, risulta in toto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente congruo e esaustivo sul piano logico – formale.

21. Si tenga conto che il ricorrente adduce che “il crescente fenomeno della guerra di religione e la corruzione del sistema di polizia rendono esposto il ricorrente alla propria incolumità in caso di rimpatrio” (così ricorso, pagg. 10 – 11); che i rapporti più recenti – in verità, per espressa ammissione dello stesso ricorrente, depositati contestualmente al ricorso per cassazione (cfr. ricorso, pag. 11), quindi in spregio al disposto dell’art. 372 c.p.c. – “dimostrano che la presenza terroristica continua a provocare vittime tra i civili” (così ricorso, pag. 11).

E tuttavia il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892; Cass. (ord.) 26.9.2018, n. 23153).

22. Il quarto motivo di ricorso è analogamente destituito di fondamento.

23. In ordine all’invocata protezione umanitaria il tribunale ha esplicitato segnatamente che, al di là della dedotta condizione di generale insicurezza della regione di sua provenienza, il ricorrente non aveva dato conto di specifiche condizioni di vulnerabilità.

E che lo svolgimento in Italia di attività lavorativa non era sufficiente a fronte dell’omessa prospettazione di una condizione di vulnerabilità pur “connessa alla condizione del richiedente nel Paese di origine” (così decreto impugnato, pag. 4).

24. Ebbene è vero senza dubbio che questa Corte spiega che, in tema di concessione del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, la condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio, non potendosi tipizzare le categorie soggettive meritevoli di tale tutela che è invece atipica e residuale, nel senso che copre tutte quelle situazioni in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento dello status di “rifugiato” o della protezione sussidiaria, tuttavia non possa disporsi l’espulsione (cfr. Cass. 15.5.2019, n. 13079; cfr. Cass. 23.2.2018, n. 4455, secondo cui, in materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza).

25. E però non può non darsi atto che le ragioni di censura che il quarto motivo di impugnazione veicola, non si correlano puntualmente alla ratio decidendi in parte qua dell’impugnato dictum.

Più esattamente il tribunale ha dato conto di un vero e proprio difetto di allegazione delle circostanze atte a consentire, ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, il riconoscimento della protezione umanitaria, difetto di allegazione che il ricorrente avrebbe dovuto specificamente censurare.

26. Comunque, pur ad ipotizzare che correlazione alla ratio decidendi vi sia, il quarto mezzo di impugnazione, sulla scorta dell’assunto per cui il tribunale “non ha correttamente valutato il materiale probatorio offerto” (così ricorso, pag. 13) nè la circostanza per cui in Pakistan è diffusa la schiavitù lavorativa per debiti, reca, al più, censura del giudizio “di fatto” cui, pur in parte qua, il giudice del merito ha atteso, giudizio “di fatto” inevitabilmente postulato dalla valutazione comparativa, caso per caso, necessaria ai fini del riscontro della condizione di “vulnerabilità” – e soggettiva e oggettiva – del richiedente.

27. Ebbene, in quest’ottica, similmente nei limiti della novella formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 ed alla luce della pronuncia n. 8053 del 7.4.2014 delle sezioni unite, non può che opinarsi come segue.

Nessuna ipotesi di “anomalia motivazionale” si configura, anche in parte qua, nelle motivazioni dell’impugnato dictum.

In pari tempo, limitatamente all’asserita inesatta valutazione del materiale probatorio, non possono che esplicare valenza gli insegnamenti di questa Corte in precedenza menzionati (il riferimento è a Cass. n. 11892/2016 e a Cass. (ord.) n. 23153/2018).

28. Il Ministero dell’Interno si è costituito ai soli fini della partecipazione all’eventuale udienza di discussione. Di fatto dunque non ha svolto alcuna difesa. Nessuna statuizione in ordine alle spese del presente giudizio va pertanto assunta.

29. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso ai sensi del cit. D.P.R., art. 13, comma 1 bis, se dovuto (cfr. Cass. sez. un. 20.2.2020, n. 4315, secondo cui la debenza dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione è normativamente condizionata a due presupposti: il primo, di natura processuale, costituito dall’adozione di una pronuncia di integrale rigetto o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione, la cui sussistenza è oggetto dell’attestazione resa dal giudice dell’impugnazione ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater; il secondo, di diritto sostanziale tributario, consistente nell’obbligo della parte impugnante di versare il contributo unificato iniziale, il cui accertamento spetta invece all’amministrazione giudiziaria).

PQM

La Corte rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso ai sensi del cit. D.P.R., art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 6 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2020

 

 

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