Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17113 del 21/07/2010

Cassazione civile sez. I, 21/07/2010, (ud. 26/05/2010, dep. 21/07/2010), n.17113

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITRONE Ugo – Presidente –

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –

Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 2718/2005 proposto da:

COMUNE DI MONTEROTONDO (c.f. (OMISSIS)), in persona del Sindaco

pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA BAINSIZZA 1,

presso l’avvocato CIOTTI Roberta, che lo rappresenta e difende,

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

COOPERATIVA ALTERNATIVA 1976 S.R.L.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 5178/2003 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 09/12/2003;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

26/05/2010 dal Consigliere Dott. SALVATORE SALVAGO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 15 maggio 2000,il Tribunale di Roma revocava il decreto ingiuntivo emesso dal Presidente di quel Tribunale con cui era stato intimato alla soc. Coop. alternativa 197 6 il pagamento al comune di Monterotondo della somma di L. 53.040.000 ed accessori, quale quota di spettanza della cooperativa assegnataria in superficie nel 1980 di un lotto di terreno da espropriare, trattandosi di somme che l’ente pubblico aveva dovuto sborsare ai proprietari del terreno in forza di un atto transattivo.

L’impugnazione di quest’ultimo è stata respinta dalla Corte di appello di Roma con sentenza 9 dicembre 2003, in quanto: a) il procedimento espropriativo era stato definito non con il previsto decreto, bensì tramite occupazione acquisitiva e condanna del comune al risarcimento del danno per cui il successivo atto stipulato tra detto ente ed i proprietari non costituiva una cessione volontaria, che sarebbe stata priva di oggetto, ma soltanto una transazione tra dette parti; b) non avendo la cooperativa partecipato all’accordo suddetto, intervenuto in materia di risarcimento del danno, non potevano i maggiori oneri che in relazione all’atto suddetto il comune era tenuto a sopportare.

Per la cassazione della sentenza, il comune di Monterotondo ha proposto ricorso per 3 motivi. La Cooperativa non ha spiegato difese.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con i primi due motivi,il comune di Monterotondo, deducendo violazione della L. n. 539 del 1995, nonchè vizi di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver escluso che nel caso alla Cooperativa fosse stata richiesta la quota di indennità di espropriazione cui era tenuta per il solo fatto che la stessa era stata determinata mediante accordo seguito all’occupazione espropriativa del terreno senza considerare che si era trattato di un contratto pubblico con cui era stata regolarizzata con i proprietari dell’immobile espropriato la sua cessione volontaria e la determinazione dell’indennità perfettamente corrispondente a quella dovuta per legge; con la conclusione che detta convenzione avente il suo presupposto nell’autorizzazione a contrarre il finanziamento di cui al D.L. n. 444 del 1995, aveva lo scopo di sanare il titolo acquisitivo dell’area e non poteva comprendersi fra le transazioni in ci era stata inquadrata dai giudici di merito.

Con il terzo, deducendo violazione dell’art. 38 cod. proc. civ., si duole che la decisione abbia menzionato onde provare l’inefficacia di detta convenzione la mancata partecipazione della controparte al procedimento amministrativo da cui era scaturita senza considerare che le relative questioni,peraltro mai prospettate dalla Cooperativa,erano riservate alla giurisdizione amministrativa; e che quest’ultima non aveva invece mai impugnato davanti a quest’ultimo giudice la delibera istitutiva del conguaglio posto a suo carico.

Il ricorso è infondato.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che il sistema di determinazione dell’indennità di espropriazione, introdotto dalla L. n. 865 del 1971 (e succ. modif.), pur ispirata alla personalizzazione della stessa, è ancorato a criteri improntati a marcata rigidità (resa ancor più evidente dall’affidamento delle operazioni estimative ad organi pubblici) e nell’ambito di essi a parametri predeterminati, non consentendo, anzitutto, mezzi di definizione diversi dalle tre vie previste e disciplinate dalla leggera)accettazione dell’indennità provvisoria determinata secondo i criteri di cui all’art. 16 della legge, se il suolo è agricolo, ovvero della L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, se edificabile; b) cessione volontaria degli immobili da espropriare per un prezzo non superiore al 50% della stessa indennità (aree agricole) ovvero corrispondente al parametro di cui al menzionato art. 5 bis se edificabile; c) determinazione definitiva dell’indennità in sede amministrativa con l’eventualità dell’opposizione alla stima avanti alla Corte di appello a norma dell’art. 19 (come modificato dalla sentenza 67/1990 della Corte Costit.).

La seconda via, qui invocata dal comune, è dunque legata alla cessione volontaria degli immobili,definita dalla giurisprudenza un contratto ad oggetto pubblico, che l’espropriando ha il diritto di convenire ad un “prezzo” (così significativamente l’art. 12) determinato in base ai criteri appena ricordati,e che ha anche l’effetto di porre termine al procedimento, eliminando la necessità dell’emanazione del decreto di espropriazione (richiesto, invece, nel caso di mancata accettazione dell’offerta) e dello svolgimento del subprocedimento di determinazione dell’indennità definitiva (Cass. 17102/2002; 8970/2001; 14901/2000).

Nel caso, invece, la stessa amministrazione comunale ha riconosciuto che il lotto di terreno assegnato nel 1980 alla Cooperativa è stato acquisito,come accertato dalla sentenza impugnata, a titolo originario in forza di un procedimento espropriativo, tuttavia concluso in modo anomalo senza l’adozione del decreto ablativo, per effetto della c.d. occupazione appropriativa: perciò comportante l’obbligo del risarcimento del danno in favore dei proprietari illegittimamente privati della titolarità del bene,in misura corrispondente al suo controvalore (calcolato durante il periodo di vigenza della L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 7 bis, con il criterio riduttivo introdotto da questa normativa). Con la conseguenza, del tutto trascurata dal comune, che per effetto di detto istituto il procedimento ablativo è stato completato e definito,raggiungendo la finalità prevista dall’art. 42 Cost.; e che dunque: a) ogni altro atto sia di natura pubblicistica che privatistica, rivolto a conseguire l’assetto dominicale già verificatosi per volontà della legge, come correttamente ritenuto dalla Corte di appello, deve ritenersi nullo, ai sensi del combinato disposto dell’art. 1325 c.c., n. 3, e art. 1418 c.c., comma 2, per difetto dell’elemento essenziale della causa e dell’oggetto (Cass. 1040/2006); b) ogni accordo ulteriore tra espropriante ed espropriato diretto ad incidere sull’indennizzo stabilito dal legislatore, esula sia temporalmente che logicamente dal procedimento espropriativo già concluso con il completamento dello schema previsto dalla legge; ed ove munito di causa lecita non può che rientrare nell’ampia categoria dei negozi rimessi all’autonomia privata dall’art. 1322 cod. civ..

Se è vero, infatti, che i contratti c.d. ad oggetto pubblico in materia espropriativa non costituiscono un numerus clausus e consentono alle parti del procedimento di modularne il contenuto in base alle esigenze del caso concreto sia in relazione all’assetto reale dell’immobile che agli effetti patrimoniali, è pur vero che il loro comune presupposto per consentirne l’inquadramento nella tipologia suddetta e differenziarli dai negozi comuni è dato dalla loro natura endoprocedimentale nel senso che gli stessi devono essere compiuti in costanza di procedura espropriativa; ed essere rivolti a definirne tutti o taluno degli effetti cui il procedimento è preordinato (Cass. 11955/2009; 5390/2006; 24589/2005; 17709/2003).

Per cui questa Corte li ha ritenuto ammissibili non soltanto nelle ipotesi di cessione volontaria e di accordo sull’indennità seguito dal decreto di esproprio di cui alla L. n. 865 del 1971, art. 12, ma anche nel settore delle occupazioni illegittime ed irreversibili, consentendo in particolare di prevedere ed attuare anche in mancanza del decreto di esproprio e del contratto di cessione, una definitiva e completa regolamentazione dell’assetto reale degli immobili, nonchè dei rapporti ad essi inerenti;e perciò attribuendo alle relative convenzioni anche funzioni analoghe a quelle assegnate all’accordo suddetto sull’indennità (Cass. 22626/2006; 13217/2005;

6968/2002).

Ma nel caso la sentenza impugnata ha accertato e l’ente pubblico riconosciuto che la convenzione stipulata dal comune con la società proprietaria del terreno, già acquistato per effetto dell’occupazione espropriativa, non rientra in alcuna di dette fattispecie (pag. 4-5): trattandosi di accordo successivamente stipulato e rivolto a “risolvere i vari e numerosi contenziosi sorti tra le parti espropriate e le amministrazioni per molteplici ragioni…”. Sicchè tanto bastava per includerla nella menzionata categoria dei contratti di diritto comune disciplinati dal menzionato art. 1322 cod. civ., ed aventi per espressa previsione del successivo art. 1372 cod. civ.. effetti vincolanti nei confronti delle sole parti che hanno stipulato l’accordo: conoscendo detta regola la sola eccezione stabilita dal comma 2 della stessa norma e qui neppure invocata dall’ente pubblico,che sia la stessa legge a disporne l’efficacia nei confronti dei terzi. Ed è conforme a questi principi la decisione con cui la Corte di appello ha correttamente escluso che la convenzione stipulata tra il comune e la s.r.l. Chefir proprietaria del terreno espropriato costituisse titolo per pretendere la quota di indennità di esproprio gravante sulla Cooperativa, posto che la stessa non scaturiva dal procedimento espropriativo e non era stata ivi determinata,ma costituiva il frutto di un accordo transattivo concluso tra le parti suddette,perciò a nulla rilevando i criteri cui le stesse si siano attenuti e le finalità con tale atto intese perseguire. Ed essendo decisiva unicamente la circostanza che la Cooperativa non avesse partecipato non solo alla Convenzione, ma neppure al procedimento amministrativo concluso con la delibera comunale in base alla quale era stato concesso il decreto ingiuntivo: perciò menzionata dalla sentenza impugnata non certamente per sindacare la legittimità del procedimento suddetto, peraltro non impugnato dall’interessata e sicuramente devoluto alla giurisdizione amministrativa, ma per confermare che neppure dalla stessa, così come dal contratto transattivo sul quale si fondava, poteva derivare alcuna obbligazione a carico della Cooperativa connessa con la pregressa espropriazione per p.u. in precederne condotta nei confronti della Chefir.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano nei confronti della Cooperativa come da dispositivo.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il comune ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in favore della Cooperativa in complessivi Euro 2.200,00 di cui Euro 2.000,00 per onorario di difesa, oltre a spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 26 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2010

 

 

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