Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17112 del 16/08/2016


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Cassazione civile sez. lav., 16/08/2016, (ud. 11/05/2016, dep. 16/08/2016), n.17112

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9981/2015 proposto da:

GRUPPO COIN S.P.A., Società incoporante di UPIM S.R.L. C.F.

(OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO 96, pressa lo

studio dell’avvocato LUCA DI PAOLO, rappresentata e difesa

dall’avvocato FRANCESCO SAVERIO FRASCA, giussa delega in atti;

– ricorrente –

contro

C.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1325/2015 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE di

ROBA, depositata il 26/01/2015 r.g.n. 20126/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/05/2016 dal Consigliere Dott. AMENDOLA FABRIZIO;

udito l’Avvocato FRASCA FRANCESCO SAVERIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO PAOLA, che ha concluso per l’accoglimento del

ricorso per revocazione, rigetto nel merito.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – La Corte di Appello di Catania, con sentenza del 28 luglio 2010, in riforma della pronuncia di primo grado, dichiarò l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato in data 16 dicembre 2004 ad C.A. dalla UPIM srl, condannando quest’ultima alla reintegrazione della lavoratrice ed alle pronunce patrimoniali consequenziali, ritenendo che non fosse stata provata la contestata preordinata appropriazione di beni aziendali.

Avverso tale pronuncia propose ricorso per cassazione la soccombente società, con tre motivi, nella resistenza della C..

Con sentenza n. 1325 del 20 gennaio 2015 questa Corte ha dichiarato improcedibile il ricorso condannando la società al pagamento delle spese di lite. Posto che il ricorso per cassazione risultava notificato alla controparte in data 18 luglio 2011, ha ritenuto violato l’art. 369 c.p.c., comma 1, secondo cui “il ricorso deve essere depositato nella cancelleria della Corte, a pena di improcedibilità, nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto”. Ha affermato che il ricorso della società “è stato depositato nella cancelleria della Corte il 10 agosto 2011, oltre il termine di venti giorni dalla notifica (v. “NOTA DI DEPOSITO E ISCRIZIONE A RUOLO”)”.

2. – Per la revocazione di tale sentenza ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, il Gruppo Coin Spa (società incorporante UPIM Srl) ha proposto ricorso notificato il 9 aprile 2015, esponendo che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in errore di fatto risultante dagli atti di causa per aver considerato la data del deposito del precedente ricorso al 10 agosto 2011 mentre lo stesso era stato spedito con plico postale in data 27 luglio 2011 ai sensi dell’art. 134 disp. att. c.p.c., nel rispetto dunque del termine di venti giorni di cui all’art. 369 c.p.c.. La società ha concluso per la revocazione della sentenza impugnata e per l’accoglimento dei motivi dell’originario ricorso.

In questa fase non ha svolto attività difensiva la C..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

3. – Occorre premettere, riguardo al ricorso per revocazione avverso sentenze della Corte di cassazione, che, allorquando venga omessa la trattazione in camera di consiglio (prevista dall’art. 391 bis c.p.c., comma 2) ed il giudizio venga celebrato in pubblica udienza (come è avvenuto nel caso in esame), tale omissione configura una mera irregolarità del procedimento che, tuttavia, non determina la violazione dei diritti della difesa, in virtù della più ampia garanzia assicurata dal giudizio celebrato in pubblica udienza (Cass. SS. UU. n. 4413 del 2016).

4. – Ciò posto, il ricorso per revocazione deve essere accolto.

La sentenza qui impugnata ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, ha ritenuto che l’originario ricorso per cassazione fosse stato depositato in data 10 agosto 2011; da ciò ne ha tratto la conseguenza dell’improcedibilità per non essere stato lo stesso depositato nel termine di venti giorni di cui all’art. 369 c.p.c., decorrenti dalla notificazione pacificamente avvenuta il 18 luglio 2011.

In realtà risulta invece dagli atti che l’originario ricorso per cassazione della società è stato spedito con plico postale alla cancelleria della Corte di cassazione in data 27 luglio 2011 e, quindi, nel rispetto del termine stabilito dall’art. 369 c.p.c..

Ai sensi dell’art. 134 disp. att. c.p.c. “Gli avvocati che hanno sottoscritto il ricorso o il controricorso possono provvedere al deposito degli stessi e degli atti indicati negli artt. 369 e 370 del codice mediante l’invio per posta, in plico raccomandato, al cancelliere della Corte di cassazione” (comma 1) e “il deposito e le varie integrazioni… si hanno per avvenuti, a tutti gli effetti, alla data di spedizione dei plichi con la posta raccomandata” (comma 5); “nel fascicolo di ufficio il cancelliere allega la busta utilizzata per l’invio del ricorso o del controricorso” (comma 6).

La piana lettera della norma è stata interpretata da questa Corte nel senso che al fine di stabilire la tempestività, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 1, del deposito del ricorso per cassazione inviato a mezzo posta, deve tenersi conto, ex art. 134 disp. att. c.p.c., della data di spedizione del plico risultante dal timbro impresso dall’ufficio postale di partenza, e non già della data del suo arrivo in cancelleria (Cass. n. 1981 del 1996; Cass. SS.UU. n. 7103 del 1995).

Pertanto, sussistendo l’errore di percezione rispetto ad una data di deposito che non è quella corrispondente a quella effettiva ed avendo deciso dell’improcedibilità dell’originario ricorso per cassazione supponendo l’esistenza di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, la sentenza n. 1325 del 2015 di questa Corte deve essere revocata ai sensi dell’art. 391 bis c.p.c., in quanto frutto di una svista materiale su fatti influenti su elementi decisivi che hanno determinato la pronuncia (Cass. n. 24334 del 2014), emergente dalla lettura di atti interni al giudizio di legittimità (Cass. n. 14420 del 2015).

5. – Deve essere dunque deciso il ricorso oggetto della decisione revocata (cfr. Cass. n. 22520 del 2015) e, affermata la procedibilità del medesimo, possono essere come di seguito sintetizzati i motivi di gravame.

Con il primo motivo la società, denunciando violazione e falsa applicazione della L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5 e dell’art. 2697 c.c., deduce che la prova circa l’avvenuto impossessamento della merce di proprietà aziendale risultava dalla mancata registrazione della stessa nello scontrino. Una volta dimostrata tale circostanza sarebbe stato onere della C. provare la mancanza della volontà di appropriarsi della merce, prova che nella specie non era stata fornita.

Con il secondo motivo, denunciando “travisamento delle risultanze istruttorie” e contraddittorietà della motivazione su un punto decisivo della controversia, la ricorrente lamenta la non corretta valutazione delle risultanze processuali ed in particolare della prova testimoniale, laddove era stata valorizzata dalla sentenza impugnata la circostanza, riferita da un teste, secondo cui era possibile che vi fosse stato un errore di registrazione. Si trattava infatti di una mera ipotesi, non idonea a ribaltare gli elementi di fatto acquisiti, considerato peraltro che l’addetta alla cassa aveva escluso tale possibilità. In ogni caso, non trovava alcuna spiegazione il fatto che il maglione, scartato dagli oggetti da acquistare e riposto sotto la cassa, era stato poi rinvenuto nella busta in possesso della lavoratrice, unitamente alla merce pagata.

Con il terzo motivo, denunciando la violazione dell’art. 2119 c.c., la ricorrente deduce che, ai fini della legittimità del licenziamento, è sufficiente che la condotta del lavoratore sia idonea a far venir meno la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro. Nella specie ricorreva siffatta ipotesi, atteso che la presunzione della volontà appropriativa da parte della lavoratrice non era stata superata da giustificazioni coerenti e credibili, essendo queste fondate su mere congetture e non già su elementi di prova.

I motivi di ricorso, che possono essere valutati congiuntamente per reciproca inferenza, non meritano accoglimento.

Con essi nonostante la veste formale attribuita al primo e terzo motivo in cui si qualifica il vizio denunciato come violazione o falsa applicazione di legge, nella sostanza si critica la ricostruzione della vicenda storica operata dalla Corte territoriale, invocando una rivisitazione della medesima non consentita in sede di legittimità.

La Corte Catanese, valutando il materiale istruttorio, ha ritenuto non adeguatamente provata la contestata appropriazione, da parte della lavoratrice, di beni aziendali, giudicando “più che plausibile l’ipotesi di una mancata, incolpevole, registrazione, al momento della presentazione all’incasso, della merce poi rinvenuta nella busta della C., al momento del controllo”.

Dunque per detti giudici la lavoratrice non voleva appropriarsi di merci senza pagarle in quanto le stesse non erano state registrate senza sua colpa.

Evidentemente si tratta di un giudizio di fatto, anche se concerne la sfera volitiva degli individui (a meno che non voglia incomprensibilmente negarsi che l’agire con dolo o meno rappresenti comunque un accadimento della vita reale), quaestio facti rispetto alla quale non hanno attinenza le dedotte violazioni di norme di diritto che regolano la ripartizione degli oneri probatori nelle controversie di impugnativa di licenziamento ovvero la nozione legale di giusta causa di recesso.

Come noto, infatti, il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ricorre o non ricorre – a prescindere dalla motivazione (che può concernere soltanto una questione di fatto e mai di diritto) posta dal giudice a fondamento della decisione – per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata “male” applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella norma (tra le molteplici, Cass. n. 26307 del 2014; Cass n 22348 del 2007). Sicchè il sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata perchè è quella che è stata operata dai giudici del merito; al contrario, laddove si critichi la ricostruzione della vicenda storica quale risultante dalla sentenza impugnata, si è fuori dall’ambito di operatività dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e la censura è attratta inevitabilmente nei confini del sindacabile esclusivamente ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione tempo per tempo vigente, vizio che appunto postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti.

Ciò acquisito il vizio di motivazione non conferisce, però, al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, essendo del tutto estranea all’ambito del vizio in parola la possibilità, per la Corte di legittimità, di procedere ad una nuova valutazione di merito attraverso l’autonoma disamina delle emergenze probatorie.

Per conseguenza, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, il vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza e contraddittorietà della medesima a mente della formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, pro tempore vigente, può dirsi sussistente solo qualora, nel ragionamento del giudice di merito, siano rinvenibili tracce evidenti del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero qualora esista un insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione; al contempo deve osservarsi che il compito di valutare le prove e di controllarne l’attendibilità e la concludenza – nonchè di individuare le fonti del proprio convincimento scegliendo tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti – spetta in via esclusiva al giudice del merito; ne deriva che le censure concernenti i vizi di motivazione devono indicare quali siano gli elementi di contraddittorietà o illogicità che rendano del tutto irrazionali le argomentazioni del giudice del merito e non possono risolversi nella richiesta di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata nella sentenza impugnata. Infine va considerato che, affinchè la motivazione adottata dal giudice di merito possa essere considerata adeguata e sufficiente, non è necessario che essa prenda in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse.

Nel caso in esame la sentenza impugnata ha esaminato le circostanze rilevanti ai fini della decisione, svolgendo un iter argomentativo esaustivo, coerente e immune da contraddizioni e vizi logici emergenti dalla sentenza stessa; le valutazioni svolte e le coerenti conclusioni che ne sono state tratte configurano quindi un’opzione interpretativa del materiale probatorio del tutto ragionevole e che, pur non escludendo la possibilità di altre scelte interpretative anch’esse ragionevoli, è espressione di una potestà propria del giudice del merito che non può essere sindacata nel suo esercizio (cfr., ex plurimis, Cass., n. 7123 del 2014).

Invero, in tema di ricorso per cassazione, il ricorrente che denunci, quale vizio di motivazione, l’insufficiente giustificazione logica dell’apprezzamento dei fatti della controversia o delle prove, non può limitarsi a prospettare una spiegazione di tali fatti e delle risultanze istruttorie con una logica alternativa, pur in possibile o probabile corrispondenza alla realtà fattuale, poichè è necessario che tale spiegazione logica alternativa appaia come l’unica possibile (da ultimo, Cass. n. 25927 del 2015).

Invece parte ricorrente, lungi dal denunciare una totale obliterazione di un “fatto controverso e decisivo” che, ove valutato, avrebbe condotto, con criterio di certezza e non di mera probabilità, ad una diversa decisione, si è limitata, attraverso un riesame delle risultanze probatorie, a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito al diverso convincimento soggettivo patrocinato dalla parte, proponendo un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti.

Tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Sicchè le doglianze si traducono in definitiva nell’invocata revisione delle valutazioni e dei convincimenti espressi dal giudice di merito, tesa a conseguire una nuova pronuncia sul fatto, non concessa perchè del tutto estranea alla natura ed alla finalità del giudizio di legittimità.

6. – Conclusivamente, revocata la sentenza n. 1325 del 2015 di questa Corte, l’originario ricorso iscritto al R.G. n. 20126 del 2011 va respinto, sussistendo le condizioni per la compensazione delle spese.

In difetto di attività difensiva dell’intimato nel giudizio di revocazione nulla per le spese rispetto ad esso e poichè è stato accolto non sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte revoca la sentenza impugnata e, decidendo sull’originario ricorso, lo rigetta, spese compensate; nulla per le spese del giudizio di revocazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 11 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 16 agosto 2016

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