Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17102 del 16/06/2021

Cassazione civile sez. VI, 16/06/2021, (ud. 27/01/2021, dep. 16/06/2021), n.17102

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana – Presidente –

Dott. ESPOSITO Lucia – rel. Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10393-2020 proposto da:

L.A.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE

DELLE MILIZIE 1, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO GHERA,

rappresentato e difeso dall’avvocato DOMENICO GAROFALO;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE SPA (OMISSIS), in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA SAN SATUNINO

N. 5, presso lo studio dell’avvocato NAPPI FRANCESCA, che la

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 251/2020 della CORTE D’APPELLO di BARI

depositata il 31/01/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio non

partecipata del 27/01/2021 dal Consigliere Relatore Dott. ESPOSITO

LUCIA.

 

Fatto

RILEVATO

che:

la Corte di appello di Bari confermava la sentenza del giudice di primo grado che aveva respinto l’opposizione avverso il provvedimento di rigetto della domanda di declaratoria di illegittimità del licenziamento proposta da L.A.M. nei confronti di Poste Italiane s.p.a.;

i giudici del merito rilevavano che il L., dipendente di Poste Italiane s.p.a., aveva ricevuto comunicazione del 20/9/2017 con cui la società, a seguito di accertamento investigativo, aveva evidenziato che il lavoratore, il quale per le giornate del 24 e 25 agosto 2017 aveva usufruito di giorni di permesso ai sensi della L. n. 104 del 1992, per assistere la madre, si era intrattenuto in attività incompatibili con l’assistenza, essendosi recato prima presso il mercato, poi al supermercato e infine al mare con la famiglia, piuttosto che presso l’abitazione della madre, convivente con il marito; che il cambio di residenza della madre presso l’abitazione del L. non era mai stato comunicato a Poste Italiane s.p.a., se non dopo le contestazioni disciplinari, con conseguente impossibilità per il datore di lavoro di svolgere i controlli; ritenevano, quindi, corretta l’applicazione della sanzione espulsiva prevista dall’art. 54 CCNL in caso di violazioni dolosamente gravi, tali da non consentire la prosecuzione del rapporto e da reputare lecito l’utilizzo di attività investigativa in relazione alla verifica della sussistenza di atti illeciti compiuti dai dipendenti durante la fruizione di un permesso;

avverso la sentenza propone ricorso per cassazione il lavoratore sulla base di cinque motivi, illustrati con memorie;

Poste Italiane s.p.a. resiste con controricorso;

la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in Camera di Consiglio non partecipata.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 437 e 345 c.p.c., della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 59, della L. n. 300 del 1970, artt. 2,3 e 4, quest’ultimo come riformulato dal D.Lgs. n. 151 del 2015, art. 23, e della L. n. 300 del 1970, artt. 5 e 6, rilevando che la sentenza era viziata nella parte in cui la Corte aveva ritenuto che la tesi prospettata in sede di discussione, secondo cui a norma dello Statuto dei lavoratori, art. 3, il datore di lavoro è tenuto a informare il lavoratore di essere oggetto di controllo, rappresentava circostanza nuova mai denunciata nelle precedenti fasi di giudizio;

osservava in proposito che era sempre consentita la proposizione di mere difese, come quella in esame, volta alla contestazione dei fatti costitutivi allegati dalla controparte a sostegno della pretesa, così che la sentenza risultava emessa in violazione del principio di carattere generale espresso dalle citate norme dello statuto, in forza delle quali sono vietati controlli lesivi di diritti inviolabili e i lavoratori devono essere informati adeguatamente circa le modalità di esercizio del controllo, con il rispetto della normativa in materia di privacy;

il motivo di ricorso è inammissibile perchè il ricorrente non censura l’altra ratio decidendi posta a fondamento della decisione, diversa da quella attinente alla novità della questione e conforme alle indicazioni della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 15094 del 11/06/2018, Cass. n. 11697 del 17/06/2020), secondo cui la norma invocata dal reclamante riguarda la vigilanza dell’attività lavorativa del dipendente, mentre nel caso in disamina il controllo del lavoratore al di fuori del luogo di lavoro era consentito perchè finalizzato all’utilizzo illecito del permesso ex L. n. 104 del 1992;

con il secondo motivo deduce violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., degli artt. 2110, 2727, 2729, 2119 e 2697 c.c., della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, e della L. n. 104 del 1992, art. 33 e del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 42, comma 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, censurando la sentenza nella parte in cui il collegio ha ritenuto raggiunta la prova in ordine alla sussistenza dei fatti contestati al ricorrente, essendosi la Corte territoriale discostata dalle regole attinenti all’apprezzamento della prova;

con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2119, 115 e 116 c.p.c. e della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, avendo la sentenza ribaltato la regola secondo cui la sussistenza del fatto materiale giustificante il licenziamento deve essere dimostrata dal datore di lavoro;

entrambi i suindicati motivi di ricorso sono inammissibili, poichè, sub specie violazione di legge, censurano gli apprezzamenti di merito posti a fondamento della decisione (Cass. n. 8758 del 04/04/2017, SU 34476 del 27/12/2019), tendendo a una non consentita rivalutazione dei fatti, versandosi, peraltro, in un’ipotesi di doppia conforme in fatto (cfr. Cass. n. 26774 del 22/12/2016);

con il quarto motivo il ricorrente deduce violazione della L. n. 104 del 1992, art. 33 (come modificato dalla L. n. 183 del 2010, art. 24, e dal D.Lgs. n. 119 del 2011, art. 6, comma 1, lett. a) della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4 (come modificato dalla L. n. 92 del 2012) e degli artt. 2697 e 2119 c.c., e artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, rilevando che la Corte territoriale aveva erroneamente ritenuto che l’attività di assistenza dovesse essere prestata soprattutto nelle ore in cui il lavoratore avrebbe dovuto svolgere l’attività lavorativa;

la censura è priva di fondamento alla luce del consolidato principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità, in forza del quale l’assenza dal lavoro per usufruire di permesso ai sensi della L. n. 104 del 1992 deve porsi in relazione causale diretta con lo scopo di assistenza al disabile, con la conseguenza che il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari (Cass. n. 17968 del 13/09/2016);

con l’ultimo motivo è dedotta la violazione degli artt. 2014,2106 e 2119 c.c., per avere la Corte ritenuto erroneamente la sanzione disciplinare proporzionata;

la censura è inammissibile in forza del consolidato principio secondo cui, in tema di licenziamento per giusta causa, l’accertamento dei fatti ed il successivo giudizio in ordine alla gravità e proporzione della sanzione espulsiva adottata sono demandati all’apprezzamento del giudice di merito (Cass. n. 26010 del 17/10/2018);

in base alle svolte argomentazioni il ricorso va complessivamente rigettato e le spese sono liquidate secondo soccombenza;

in considerazione della statuizione, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 27 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2021

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