Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17101 del 21/07/2010

Cassazione civile sez. lav., 21/07/2010, (ud. 17/06/2010, dep. 21/07/2010), n.17101

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende,

giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

D.N.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RENO 21,

presso lo studio dell’avvocato RIZZO ROBERTO, che lo rappresenta e

difende, giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2208/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 01/09/2005 R.G.N. 11435/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/06/2010 dal Consigliere Dott. MELIADO’ Giuseppe;

udito l’Avvocato MICELI MARIO per delega FIORILLO LUIGI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI Massimo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 18.3 – 1.9.2005 la Corte di appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Roma n. 278/2003, impugnata da D.N.M., dichiarava sussistere un rapporto di lavoro a tempo indeterminato fra lo stesso e le Poste Italiane a decorrere dall’1.12.1999, previo accertamento della nullita’ della clausola di durata apposta al contratto stipulato con riferimento al periodo 1.12.1999 – 31.1.2000, ai sensi dell’art. 8 del CCNL 26.11.1994 “per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”.

Osservava la corte territoriale che, pur ritenendo che la L. n. 56 del 1987, art. 23 avesse conferito alle parti collettive una “delega in bianco” al fine di individuare ipotesi di contratti a termine ulteriori rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, con l’unico limite della percentuale dei lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato, si doveva riconoscere che, una volta che tale autonomia fosse stata esercitata con la previsione di specifiche e delimitate ipotesi, incombesse sul datore di lavoro l’onere di dimostrare le condizioni obiettive che, nel singolo caso, avevano giustificato la clausola del termine (onere nella fattispecie non osservato: essendo stato solo richiamato il processo generale di ristrutturazione operato dall’azienda sul territorio nazionale, senza alcuna dimostrazione in ordine alla effettiva necessita’ delle assunzioni nella specifica situazione dell’ufficio ove il lavoratore era stato assegnato) e che, comunque, trattandosi di contratti stipulati successivamente al 30.4.1998, si doveva ritenere che gli accordi sindacali intervenuti successivamente all’accordo del 25.9.1997 non fossero meramente ricognitivi del perdurare delle esigenze legittimanti le assunzioni a tempo determinato, ma erano piuttosto volti a stabilire precisi limiti di scadenza all’autorizzazione alla stipulazione di contratti a tempo determinato, con la conseguenza che era inibito alle parti di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non piu’ legittimati per effetto della durata in precedenza stabilita.

Per la cassazione della sentenza propongono ricorso le Poste Italiane con quattro motivi.

Resiste con controricorso, illustrato con memoria, D.N.M..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, svolto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 la societa’ ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1372, 1175, 1375, 2697, 1427, 1431 c.c., dell’art. 100 c.p.c. nonche’ vizio di motivazione, osservando come la corte territoriale avesse erroneamente trascurato di considerare che la risoluzione consensuale dei rapporti di lavoro era resa palese dal contegno di prolungata ed ininterrotta inerzia assunto dopo la scadenza dei contratti a termine.

Con il secondo e terzo motivo la societa’ ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) della L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 2 della L. n. 56 del 1987, art. 23 dei criteri di ermeneutica contrattuale in relazione agli accordi collettivi intercorsi, nonche’ vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), deduce che il potere normativamente attribuito alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi di assunzione a termine, in aggiunta a quelle gia’ stabilite dall’ordinamento, poteva essere esercitato senza limiti di tempo, non prevedendosi alcun limite temporale al riguardo, con la conseguenza che agli accordi c. d. attuativi del contratto del 25.9.1997 non poteva che riconoscersi una funzione meramente ricognitiva della permanenza delle esigenze sottese alla necessita’ di stipulare ulteriori contratti a termine.

Con il quarto motivo, infine, la societa’ ricorrente censura la sentenza impugnata, prospettando violazione degli artt. 1217 e 1223 c.c., per aver omesso di verificare se vi fosse stata effettiva costituzione in mora da parte della lavoratore e per aver, comunque, omesso di accertare se e in che misura la stesse avesse svolto attivita’ lavorativa successivamente alla cessazione dei rapporti di lavoro a termine, spettando alla controparte l’onere di provare di aver posto in essere ogni utile attivita’ in tal senso.

1. Il primo motivo non e’ meritevole di accoglimento.

Come questa Corte ha piu’ volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinche’ possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, e’ necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonche’ del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volonta’ delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimita’ se non sussistono vizi logici o errori di diritto” (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11/12/2001 n. 15621).

Tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevando, inoltre, che, come pure e’ stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volonta’ chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070).

Circostanze che, con corretta motivazione, la corte territoriale ha ritenuto nel caso non provate, alla luce dell’impossibilita’ di arguirle solo dal decorso del tempo (nel caso, peraltro, non particolarmente eccessivo) maturatosi prima della proposizione del ricorso.

2. Con riferimento al secondo ed al terzo motivo, vanno ribaditi i principi, ormai acquisiti, che questa Suprema Corte ha affermato con riferimento alla disciplina dell’istituto nel sistema vigente anteriormente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 368 del 2001.

In primo luogo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, questa Corte ha piu’ volte affermato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessita’ del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessita’ di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.” (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove pero’ un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive, la sua inosservanza determina la nullita’ della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23/8/2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, come questa Corte ha piu’ volte rilevato, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l.

26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimita’ delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1” (v., fra le altre, Cass. 1/10/2007 n. 20608, Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit).

Rilevato, quindi, che, in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data (OMISSIS), hanno reputato che con tali accordi le parti avessero convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998) della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che deve escludersi la legittimita’ dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo. Questa Corte ha anche osservato che tale interpretazione non viola alcun canone ermeneutico, atteso che il significato letterale delle espressioni usate e’ cosi’ evidente e univoco che non necessita di una piu’ diffusa argomentazione ai fini della ricostruzione della volonta’ delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, e’ precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453). Inoltre, e’ stato rilevato che tale interpretazione si palesa rispettosa del canone ermeneutico dell’art. 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anziche’ in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi (in considerazione della loro idoneita’ ad introdurre termini successivi di scadenza alla facolta’ di assunzione a tempo, termini che non figuravano previsti ex ante), laddove, diversamente opinando, gli stessi risulterebbero “senza senso” (cosi’ testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866). Infine, corretta e’ apparsa, nella ricostruzione della volonta’ delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioe’ quando il diritto del lavoratore si era gia’ definitivamente perfezionato.

Ed infatti, anche ad ammettere che le parti fossero mosse dall’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti di sanatoria delle assunzioni effettuate senza la copertura dell’accordo del 25 settembre 1997 (scaduto in forza delle convenzioni attuative), si dovrebbe, comunque, richiamare la regola dell’indisponibilita’ dei diritti dei lavoratori gia’ acquisiti, con la conseguente esclusione per le parti stipulanti del potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti non piu’ legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (cfr, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141).

Va confermata, quindi, la nullita’ del contratto stipulato fra le parti, per come correttamente ritenuto nella sentenza impugnata.

3. Non meritevole di accoglimento e’, infine, anche il quarto motivo.

Basti, al riguardo, osservare che la sentenza impugnata ha accertato che l’intimato ha fatto formale offerta delle proprie prestazioni lavorative al datore di lavoro, con raccomandata del 20.11.2001, e che il contenuto di tale accertamento non risulta documentalmente contestato, in conformita’ al canone di necessaria autosufficienza del ricorso per cassazione.

Del resto piu’ volte questa Corte ha affermato che ben puo’ essere ravvisata la messa in mora anche nella comunicazione della convocazione per il tentativo obbligatorio di conciliazione (v. fra le altre Cass. 28-7-2005 n. 15900, Cass. 30-8-2006 n. 18710).

Ugualmente generica e priva di autosufficienza e’ la censura relativa all’aliunde perceptum.

Ed, infatti, la ricorrente non specifica come e in quali termini abbia allegato davanti ai giudici di merito tale circostanza (in relazione alla quale e’ pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della prova, pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato – cfr. Cass. 16-5-2005 n. 10155, Cass. 20-6-2006 n. 14131, Cass. 10-8-2007 n. 17606, Cass. S.U. 3-2-1998 n. 1099).

Ne’ e’ censurabile, comunque, in questa sede il mancato accoglimento della richiesta di esibizione (dei modelli 101 e 740) avanzata dalla societa’.

Come questa Corte ha piu’ volte precisato, “il rigetto da parte del giudice di merito dell’istanza di disporre l’ordine di esibizione al fine di acquisire al giudizio documenti ritenuti indispensabili dalla parte non e’ sindacabile in cassazione, perche’, trattandosi di strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova del fatto non sia acquisibile aliunde e l’iniziativa non presenti finalita’ esplorative, la valutazione della relativa indispensabilita’ e’ rimessa al potere discrezionale del giudice di merito e non necessita neppure di essere esplicitata nella motivazione, il mancato esercizio di tale potere non essendo sindacabile neppure sotto il profilo del difetto di motivazione” (v.

fra le altre Cass. 14-7-2004 n. 12997, Cass. sez. 1^ 17-5-2005 n. 10357, Cass. sez. 3^ 2-2-2006 n. 2262). D’altra parte “l’esibizione di documenti non puo’ essere chiesta a fini meramente esplorativi, allorquando neppure la parte istante deduca elementi sulla effettiva esistenza del documento e sul suo contenuto per verificarne la rilevanza in giudizio” (v. fra le altre Cass. 20-12-2007 n. 26943).

Il ricorso va, pertanto, rigettato. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la societa’ ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 55,00 per esborsi ed in Euro 2.000,00 per onorario di avvocato, oltre a spese generali. IVA e CPA. Cosi’ deciso in Roma, il 17 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2010

 

 

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