Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17101 del 08/08/2011

Cassazione civile sez. lav., 08/08/2011, (ud. 07/07/2011, dep. 08/08/2011), n.17101

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 18222/2009 proposto da:

P.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TUSCOLANA

1400, presso lo LEGALE REGGIO, rappresentato e difeso dall’avvocato

DI LONARDO Virgilio, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

SATA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 21/23, presso

lo studio dell’avvocato DE LUCA TAMAJO Raffaele, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato AMENDOLITO BRUNO, giusta delega in

atti;

– controricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 886/2008 della CORTE D’APPELLO di POTENZA,

depositata il 25/08/2008 r.g.n. 560/07;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/07/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE MELIADO’;

udito l’Avvocato AMERIGA PETRUCCI per delega DI LONARDO VIRGILIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso principale, in subordine rigetto. Ricorso incidentale:

rigetto, in subordine accoglimento dell’ottavo motivo.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 3.7.2008/25.8.2008 la Corte di appello di Potenza, in parziale accoglimento dell’appello proposto dalla SATA- Società Automobilistica Tecnologie Avanzate spa avverso la decisione resa dal Tribunale di Melfi, confermava la decisione di primo grado nella parte in cui aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato a P.S., riformandola, invece, in punto di aliunde perceptum.

Osservava in sintesi la corte territoriale che, considerata la situazione di salute del lavoratore e gli stringenti controlli cui lo stesso era stato sottoposto in un periodo caratterizzato da uno stato patologico di natura non transitoria, il licenziamento appariva sprovvisto della necessaria proporzionalità e, per il resto, che doveva tenersi conto dell’eccezione di aliunde perceptum, ritualmente sollevata. Per la cassazione della sentenza propone ricorso P. S. con cinque motivi. Resiste con controricorso e ricorso incidentale la società SATA.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso principale, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, il ricorrente denuncia violazione dell’art. 7 dello Statuto, nonchè vizio di motivazione, evidenziando come non fosse stata fornita alcuna prova in ordine all’affissione del codice disciplinare.

Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando violazione degli artt. 416 e 437 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, rileva che la società intimata non aveva avanzato, nel giudizio di primo grado, alcuna eccezione di aliunde perceptum, essendo stata tale difesa proposta per la prima volta solo in appello.

Con il terzo motivo il ricorrente prospetta violazione di legge (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 112, 416 c.p.c., art. 437 c.p.c., comma 3, art. 421 c.p.c., comma 2 e art. 420 c.p.c., commi 6 e 7) e vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) per avere la corte territoriale disposto d’ufficio i mezzi di prova ritenuti indispensabili ai fini della decisione dell’ eccezione di aliunde perceptum, senza consentire alcuna discussione alle parti e senza garantire alle stesse il pieno esercizio dei diritto di difesa.

Con il quarto motivo, denunciando ancora violazione di legge (art. 434 c.p.c., comma 1 e art. 436 c.p.c., comma 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) e vizio di motivazione, il ricorrente lamenta che la corte territoriale, senza fornire alcuna motivazione sul punto, aveva posto a base della decisione documenti irritualmente prodotti, in quanto depositati solo all’udienza di discussione in appello.

Con il quinto motivo deduce che la corte territoriale, facendo erronea applicazione della previsione dell’art. 18 dello Statuto, aveva limitato la misura del risarcimento con riferimento alla data della dichiarazione di opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, trascurando di considerare che l’obbligazione risarcitoria si estingue solo con il pagamento effettivo dell’indennità, e non con la relativa opzione. Con l’ultimo motivo, infine, censura la statuizione relativa alla (parziale) compensazione delle spese.

2. Con il primo, secondo e terzo motivo del ricorso incidentale, proposti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la società intimata prospetta violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 c.c., della L. n. 604 del 1966, artt. 1, 3 e 5, della L. n. 108 del 1990, artt. 1 e 2 e dell’art. 2, sez. 4^, titolo 6^ del CCNL dei metalmeccanici dell’industria privata, nonchè vizio di motivazione ed, al riguardo, osserva che la corte territoriale aveva ritenuto privo di proporzionalità il licenziamento asserendo che le assenze dalle visite di controllo risultavano tutte giustificate con riferimento a certificati medici attestanti visite specialistiche e frequenza di cicli di fisioterapia, ma senza fornire alcuna motivazione in ordine alla possibilità per il lavoratore di avvertire l’azienda circa le sue assenze dal domicilio, con conseguente violazione degli obblighi di correttezza e buona fede e piena proporzionalità del licenziamento, in conformità a quanto previsto dalle disposizioni contrattuali e legali nel caso rilevanti.

Con il quarto e quinto motivo, proposti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la controricorrente lamenta vizio di motivazione e violazione dell’art. 18 dello Statuto, rilevando come la corte territoriale avesse mancato di considerare che il lavoratore era decaduto dal diritto di optare per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, non avendo formulato la relativa opzione entro il termine di trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza contenente l’ordine di reintegrazione; circostanza che aveva determinato la definitiva risoluzione del rapporto di lavoro.

Con il sesto e settimo motivo, si censura la sentenza impugnata, con riferimento alle stesse violazioni da ultimo indicate, rilevando che, per non prevedere la legge particolari formalità in ordine all’invito a riprendere servizio a seguito della statuizione di reintegrazione , ben poteva a tal fine rilevare, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte di merito, l’invito notificato all’indirizzo del difensore del lavoratore, presso cui quest’ultimo aveva eletto domicilio sia per la fase di merito che per quella di esecuzione.

Con l’ultimo motivo, infine, prospettando violazione del D.P.R. 22 dicembre 1986. n. 917, artt. 46 e 48 (T.U.I.R.), del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 23 e del D.Lgs. n. 314 del 1997, art. 6, la società lamenta che la corte territoriale aveva detratto dalle somme liquidate a titolo risarcitorio in favore del lavoratore, e parametrate alle retribuzioni da corrispondersi dal momento del licenziamento a quello di esercizio dell’opzione, la somma già corrisposta, in esecuzione della sentenza di primo grado, di Euro 133.896,65, quantificandola, però, al netto, e non al lordo, delle ritenute di legge.

3. I ricorsi vanno preliminarmente riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

4. Il ricorso principale è inammissibile per mancanza dei quesitì prescritti dall’art. 366 bis c.p.c..

La sentenza impugnata è stata pubblicata, infatti, successivamente al 2 marzo 2006, e, quindi, risulta soggetta ratione temporis alla disposizione in esame, introdotta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, la quale, come noto, è stata successivamente abrogata dall’art. 47 comma 1 lett. d) della legge di riforma del 18 giugno 2009 n. 69, con effetto a decorrere dal 4 luglio 2009. Ai sensi, tuttavia, del quinto comma dell’art. 58 della medesima legge tale ultima disposizione si applica solo “alle controversie nelle quali il provvedimento impugnato con il ricorso per cassazione è stato pubblicato ovvero, nei casi in cui non sia prevista la pubblicazione, sia stato depositato successivamente all’entrata in vigore della legge” stessa.

Ne deriva che nel periodo ricompreso fra l’introduzione dell’art. 366 bis c.p.c., e la sua abrogazione, risulta rilevante, ai fini della permanenza, in via transitoria, del precetto, la data di pubblicazione del provvedimento impugnato col ricorso per cassazione, che, ove anteriore al 4 luglio 2009, comporta l’obbligo per la parte ricorrente della formulazione del quesito di diritto, a pena di inammissibilità, rilevabile d’ufficio.

5. I motivi dal primo al terzo del ricorso incidentale, in quanto connessi, giacchè fondati sulla corretta interpretazione della norma contrattuale (art. 2, sez. 4^, titolo 6^) e sulla incidenza che la corretta interpretazione della stessa riflette sulla norma legale, vanno esaminati congiuntamente e dichiarati improcedibili. Deve, infatti, ribadirsi come non possa la Corte provvedere alla valutazione della correttezza dei risultati interpretativi cui è pervenuto il giudice di merito, come anche dell’insufficienza della motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per non avere la parte ricorrente depositato il contratto collettivo de quo, la cui produzione – nella sua interezza, peraltro, e non soltanto per singoli stralci – è imposta, appunto a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, allorchè si tratti, come nella specie, di contratti collettivi nazionali di diritto privato, secondo quanto precisato dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte ormai in molteplici pronunce e da ultimo anche a Sezioni Unite con la sentenza n. 20075 del 23.9.2010, chiarendosi, altresì, come tale disposizione nella parte in cui onera il ricorrente (principale o incidentale), a pena di improcedibilità del ricorso, di depositare i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda, deve interpretarsi nel senso che, allorchè il ricorrente impugni con ricorso immediato per cassazione, ai sensi dell’art. 420 bis c.p.c., comma 2, la sentenza che abbia deciso in via pregiudiziale una questione concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale, ovvero denunci, con ricorso ordinario, la violazione o falsa applicazione di norme del contratto o accordi collettivi nazionali di lavoro ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il deposito suddetto deve avere per oggetto, a pena di improcedibilità, non già solo l’estratto recante le singole disposizioni collettive su cui il ricorso si fonda, ma anche il testo integrale del contratto o accordo collettivo di livello nazionale contenente tali disposizioni. Nel caso in esame, la società resistente non si è attenuta ai principi richiamati e va, pertanto, dichiarata in parte qua l’improcedibilità del ricorso.

6. Il quarto e quinto motivo sono, invece, inammissibili per violazione sul punto del canone di necessaria autosufficienza del ricorso.

Sostiene la società resistente di aver avanzato nel giudizio di appello, a fronte della richiesta del lavoratore di esercitare il diritto di opzione, una specifica eccezione inerente la tardività di tale richiesta (per il decorso del termine di trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza che ordinava la reintegrazione), senza che, tuttavia, sulla questione la corte territoriale svolgesse qualsivoglia indagine e adottasse qualsiasi pronuncia.

Non specifica, tuttavia, la stessa ove ed in quali termini tali difese siano state formulate, cosi contravvenendo a condizioni indispensabili affinchè si possa utilmente dedurre, in sede di legittimità, il vizio di omessa pronuncia, in relazione al quale è necessario, da un lato, che al giudice di merito siano state rivolte domande, eccezioni o deduzioni autonomamente apprezzabili, e, dall’altro, che tali domande, eccezioni e deduzioni siano state riportate puntualmente nei loro esatti termini nel ricorso per cassazione, per la rilevanza che assume il principio di autosufficienza, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo o del verbale di udienza nei quali le une o le altre erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primo luogo, la ritualità e la tempestività, e, quindi, la decisività (cfr. SU n. 15781/2005).

Condizioni che, nel caso, non sono affatto riscontrabili.

7. Il sesto e settimo (erroneamente quest’ultimo indicato come quinto) motivo del ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi, sono infondati.

Sostiene la società resistente che, non contemplando la legge particolari formalità nelle modalità di comunicazione dell’invito a riprendere servizio a seguito della statuizione di reintegrazione, ben poteva a tal fine rilevare l’invito notificato all’indirizzo del difensore del lavoratore, presso cui quest’ultimo aveva eletto domicilio sia per la fase di merito che per quella di esecuzione, trattandosi di atto unilaterale recettizio, per il quale opera la presunzione dell’art. 1335 c.c.. Tale prospettazione merita di essere disattesa ed a tal fine va, innanzitutto, rilevato come la presunzione prevista dalla norma, che opera con riferimento a tutti gli atti unilaterali recettizi, quali sono il licenziamento, la comunicazione dei relativi motivi o l’invito a riprendere servizio ex art. 18, comma 5 Statuto, e per il sol fatto oggettivo dell’arrivo della dichiarazione all’indirizzo del destinatario, implica che l’atto pervenga presso il luogo che sia per il destinatario come il più idoneo alla ricezione, e che quindi risulti nella sua sfera di dominio o di controllo (così Cass. n. 773/2003), in base ad un criterio di collegamento ordinario (dimora o domicilio), o di normale frequentazione (luogo di lavoro) o per preventiva indicazione o pattuizione. Fra i luoghi indicati può annoverarsi, pertanto, anche il domicilio eletto, ma entro i limiti in cui, secondo l’ordinamento, l’elezione di domicilio può rilevare come criterio sostitutivo dei normali luoghi di localizzazione della persona. Prevede, al riguardo, la legge (art. 47 c.c.) che l’elezione di domicilio, che, per comune opinione, costituisce un atto unilaterale di diritto sostanziale, deve essere fatta espressamente per iscritto e per “determinati atti e affari”.

Risulta, pertanto, evidente come il legislatore, introducendo una deroga alla regola generale del domicilio e ai criteri più ricorrenti di individuazione spaziale della persona e individuando un determinato luogo come destinazione non fungibile di determinati atti, richieda che l’elezione risulti in modo espresso ed inequivoco, sia con riferimento alla volontà della dichiarazione, quanto all’ambito della stessa. Ne deriva che la dichiarazione di elezione non solo non può desumersi da fatti concludenti (v. Cass. n. 25647/2008), ma deve essere, altresì, interpretata restrittivamente, e cioè con esclusivo riferimento agli atti ed affari in essa richiamati, dal momento che solo per gli stessi può presumersi una certa ed univoca volontà abdicati va del rapporto che normalmente si instaura fra la ricezione degli atti e i luoghi di abituale residenza e frequentazione.

Il che comporta che l’elezione di domicilio, operata nell’ambito della procura conferita al difensore “per il giudizio di merito e per quello di esecuzione”, non può che riguardare gli atti del processo di cognizione e di esecuzione, con esclusione di ulteriori atti che, per quanto idonei a riflettersi sul processo, non possono qualificarsi come atti processuali, in quanto estranei alla procedura di accertamento del diritto e alla sua attuazione, in relazione alla quale sola risulta conferita l’attività di assistenza difensiva.

L’invito alla ripresa del servizio, pur ricollegandosi alla statuizione di reintegrazione, costituisce, infatti, un tipico atto di gestione del rapporto di lavoro, volto a ripristinare la funzionalità della relazione contrattuale, solo di fatto interrotta dal licenziamento illegittimo, ed evoca, pertanto, i diritti e i doveri inerenti a tale rapporto, sicchè resta del tutto estraneo alla sfera degli atti richiamati nella procura difensiva ed al rapporto di prestazione professionale che, sulla base della stessa, si instaura fra la parte ed il suo difensore.

Ne discende che l’elezione di domicilio ivi prevista non può che riguardare gli atti processuali, essendo solo questi gli specifici atti ed affari richiamati, alla stregua di un criterio di stretta interpretazione, nella dichiarazione e per i quali si può presumere che il dichiarante abbia inteso derogare agli ordinari criteri di individuazione del domicilio della persona.

Nè vale osservare che per l’invito alla ripresa dell’attività lavorativa la legge non richiede specifici oneri di forma o che può realizzarsi anche per fatti concludenti, dal momento che il carattere informale che può assumere l’invito, purchè abbia carattere di concretezza e specificità, non interferisce con la scelta che il lavoratore ha operato di un determinato luogo come destinazione non fungibile di determinati atti, trattandosi in un caso di valutare la completezza dell’atto, nell’altro l’adeguatezza della sua comunicazione.

Il motivo va, pertanto, rigettato, con la conseguente affermazione del principio per cui l’elezione di domicilio, operata nell’ambito della procura conferita al difensore “per il giudizio di merito e per quello di esecuzione”, va limitata agli atti del processo di cognizione e di esecuzione, con esclusione di ulteriori atti, quali l’invito del datore di lavoro a riprendere servizio ex art. 18 comma 5 dello Statuto, che, per quanto idonei a riflettersi sul processo, non possono qualificarsi come atti processuali, in quanto estranei alla procedura di accertamento del diritto e alla sua attuazione.

8. L’ultimo motivo è inammissibile.

Deve, infatti, ribadirsi che, affinchè si possano riscontrare positivamente i requisiti essenziali della fattispecie normativa dell’art. 366 bis epe, è necessario, secondo l’insegnamento di questa Suprema Corte (v. ad es. SU n. 3519/2008), che il quesito sia esplicito e collocato in una parte del ricorso a ciò specificatamente deputata e che 10 stesso si risolva in una sintesi logico giuridica della questione che ha determinato l’instaurazione del giudizio, con l’individuazione, immediatamente percepibile da parte del giudice di legittimità, dell’errore di diritto che si assume compiuto e della diversa regola che si sarebbe dovuta applicare, realizzandosi, attraverso la risposta al quesito, quel collegamento fra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione di un principio giuridico generale, in assenza del quale l’investitura stessa del giudice di legittimità deve ritenersi inadeguata.

11 quesito posto dall’Istituto (“Si intende sapere se a fronte di una condanna al pagamento in favore del lavoratore del risarcimento del danno pari all’ammontare delle retribuzioni globali di fatto calcolate al lordo la somma eventualmente già riconosciuta dal datore di lavoro a titolo di parziale risarcimento di siffatto danno debba essere detratta calcolandola al lordo o al netto”) non risulta conforme a tale canone interpretativo, risolvendosi lo stesso in una richiesta di interpretazione, a contenuto alternativo, rivolta alla Corte, senza in alcun modo precisare, anche alla luce dei fatti nel caso rilevanti, l’interpretazione che si assume conforme al diritto e l’errore di diritto che, per contro, si addebita alla decisione impugnata.

In particolare, per come rilevato, a fini esemplificativi, da SU (ord) n. 2658/2008, “potrebbe apparire utile il ricorso ad uno schema secondo il quale sinteticamente si domandi alla Corte se, in una fattispecie quale quella contestualmente e sommariamente descritta nel quesito (fatto), si applichi la regola di diritto auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata”, le ragioni della cui erroneità siano adeguatamente illustrate nel motivo medesimo.

Il che vale a confermare come il quesito posto dalla società resistente non risulta conforme alle prescrizioni legali perchè – va ribadito – inidoneo ad esprimere, in termini riassuntivi e concretamente pertinenti all’articolazione delle censure in relazione alla fattispecie controversa, il vizio di interpretazione legale addebitato alla decisione.

9. Entrambi i ricorsi vanno pertanto disattesi.

Spese compensate, stante la reciproca soccombenza.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, dichiara inammissibile il ricorso principale, rigetta quello incidentale, compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 7 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 8 agosto 2011

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