Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17091 del 12/08/2016


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Cassazione civile sez. lav., 12/08/2016, (ud. 13/04/2016, dep. 12/08/2016), n.17091

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – rel. Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 289-2015 proposto da:

S.S., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DELLE TRE MADONNE 8, presso lo studio dell’avvocato SARA PARISI,

rappresentato e difeso dall’avvocato SEVERINO NAPPI, giusta delega

in atti;

– ricorrente –

contro

MECFOND S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA POMPEO MAGNO

2/B, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO DE MAGISTRIS,

rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCO CASTELLANO, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso il provvedimento n. 7350/2014 della CORTE D’APPELLO di

NAPOLI, depositata il 20/10/2014, r.g.n. 3381/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/04/2016 dal Consigliere Dott. LUCIA ESPOSITO;

udito l’Avvocato De MAGISTRIS FILIPPO per delega verbale Avvocato

CASTELLANO FRANCESCO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con sentenza depositata il 20 ottobre 2014 la Corte d’appello di Napoli ha rigettato il reclamo avverso la decisione del giudice di primo grado che, decidendo in sede di opposizione avverso l’ordinanza resa all’esito della fase sommaria, aveva respinto il ricorso con il quale S.S. aveva chiesto accertarsi l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, consistente nella riduzione di personale, comunicatogli con decorrenza 11/10/2012. Il ricorrente era stato assunto da Mecfond s.p.a. dal 3/3/2008 con la qualifica di coordinatore e responsabile dei reparti di lavorazione meccanica, carpenteria e montaggio, con inquadramento nel 7 livello del CCNL industria privata.

2. La Corte territoriale ha fondato la decisione sulla dimostrata sussistenza della dedotta crisi aziendale e la conseguente necessità di riduzione dei costi mediante un processo di riorganizzazione, quest’ultimo ritenuto non sindacabile perchè espressione della libertà di iniziativa economica. Ha ritenuto insussistenti i presupposti per il repechage e per l’accertamento dell’esistenza di un unico centro d’imputazione, pur in presenza di una pluralità di imprese, in ragione del dedotto collegamento societario. Ha dichiarato inammissibili le domande subordinate proposte dallo S. al fine di ottenere la corresponsione del trattamento di fine rapporto e dell’indennità per mancato preavviso.

3.Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione lo S. sulla base di sette motivi. Ha resistito Mecfond s.p.a. con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5 e dell’art. 2697 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3). Rileva che la Corte territoriale, pur muovendo dalla corretta premessa della individuazione, sulla base della lettera di licenziamento, del motivo essenziale del recesso nella “riorganizzazione aziendale”, è pervenuta alla conclusione che in concreto vi fu una riorganizzazione senza avere effettuato alcun controllo riguardo alla reale sussistenza delle esigenze tecnico-economiche dedotte dal datore di lavoro. Evidenzia che il giudice è tenuto a controllare l’effettiva attuazione della riorganizzazione e la reale soppressione del posto di lavoro, gravando sul datore di lavoro l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento.

1.2. Il motivo è privo di fondamento. La Corte giunge ad affermare l’esistenza delle ragioni di riorganizzazione aziendale poste a base del recesso sulla scorta di numerosi elementi, tutti valutati anche nelle loro interazioni e non specificamente contestati dal ricorrente: la crisi generale del comparto dell’automobile; le dimissioni di altri cinque lavoratori e il licenziamento contestuale di altri tre, con soppressione dei posti di lavoro e accorpamento delle relative mansioni; il ricorso dell’azienda, nel gennaio 2012, alla Cassa integrazione guadagni “condivisa dalle OOSS che riconobbero l’effettiva momentanea mancanza di commesse e la difficoltà dell’azienda”; la riduzione dell’attività della società nell’anno 2012, a conferma di un trend negativo degli anni precedenti. Nella sostanza il Giudice d’appello, con ragionamento coerente, fondato sul materiale probatorio acquisito (bilanci sociali e prova per testi), ha ritenuto provata l’effettività delle ragioni poste a fondamento del licenziamento, costituite dalla “ristrutturazione della società finalizzata al contenimento dei costi”, con l’ulteriore precisazione che esulava dal sindacato del giudice di merito la valutazione dei profili di congruità ed opportunità della scelta imprenditoriale. Le conclusioni cui è pervenuta la sentenza impugnata risultano in linea con gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, la quale ha costantemente affermato che “Il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, nel cui ambito rientra anche l’ipotesi di riassetto organizzativo attuato per la più economica gestione dell’impresa, è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore; ne consegue che non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato” (Cass. Sez. L, Sentenza n. 24235 del 30/11/2010, Rv. 615308; conformi Cass. 14 giugno 2000, n. 8135; Cass. 4 novembre 2004, n. 21121).

2. Il ricorrente deduce ancora “violazione e falsa applicazione della L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5 e dell’art. 2697 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3). Osserva che non risulta dimostrato che al lavoratore sia stata prospettata un’utilizzazione in mansioni inferiori, ottenendone un rifiuto e che, in mancanza di tale verifica, non vi sono i presupposti per ritenere che la società abbia assolto l’onere del repechage.

3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5 e dell’art. 2697 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3). Rileva che la Corte d’appello ha errato nel limitare l’oggetto della prova della impossibilità del repechage alle assunzioni dei dipendenti R. e C., le sole oggetto di allegazione da parte di Mecfond S.p.A., dovendo il datore di lavoro dimostrare di non aver effettuato alcuna nuova assunzione in qualifica analoga a quella del lavoratore licenziato per un congruo periodo di tempo successivo al recesso. Di conseguenza i giudici del merito avrebbero violato la L. n. 604 del 1966, art. 5 avendo radicato la propria decisione su evidenze parziali, omettendo di accertare e verificare che Mecfond S.p.A. avesse allegato e provato che le assunzioni dei predetti lavoratori fossero le sole effettuate dopo il licenziamento dello S. e per un congruo periodo di tempo.

3.1 I motivi sub 2 e 3, intimamente connessi, riguardando entrambi l’onere del repechage gravante sul datore di lavoro, possono essere trattati congiuntamente. Gli stessi sono infondati.

3.2. Il collegio aderisce al prevalente orientamento giurisprudenziale secondo il quale in capo al datore di lavoro che intende intimare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo incombe l’onere di provare l’impossibilità di adibire lo stesso lavoratore da licenziare ad altre mansioni nell’ambito dell’organizzazione aziendale. Tale impossibilità, però, deve essere circoscritta alle mansioni equivalenti a quelle svolte dal lavoratore all’interno dell’azienda, gravando il relativo l’onere probatorio per intero sul datore di lavoro, che deve dare prova anche dell’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, onere che può essere assolto anche mediante il ricorso a risultanze di natura presuntiva ed indiziaria. Secondo il richiamato orientamento, tuttavia, la prova suindicata non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage con mansioni diverse e anche inferiori a quelle originariamente svolte, mediante l’allegazione della esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato; a tale allegazione, poi, corrisponde l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità del lavoratore nei posti predetti, da intendersi assolto anche mediante la dimostrazione di circostanze indiziarie, come l’assenza di altre assunzioni in relazione alle mansioni del dipendente da licenziare (in tal senso Cass. Sez. L, Sentenza n. 3040 del 08/02/2011, Rv. 616014, conformi, tra le altre, Cass. Sez. L, Sentenza n. 4920 del 03/03/2014, Rv. 630389, Cass. Sez. L, Sentenza n. 10018 del 16/05/2016, Rv. 639777).

3.3. Ciò posto e applicando i richiamati principi al caso in disamina, è da rilevare, per un verso, quanto all’utilizzo in mansioni equivalenti, che nessun addebito può essere mosso nei confronti del datore di lavoro, anche con riferimento ai lavoratori successivamente assunti, in ragione dell’indagine svolta con riferimento ai lavoratori indicati in sentenza, assunti in altro reparto o con differenti mansioni, per uno dei quali il rapporto ha avuto inizio il 24/7/2013. Ed invero correttamente il giudice d’appello ha ritenuto congrua un’indagine protratta fino alla data indicata, non rivelandosi utile, a fronte di un licenziamento intimato l’11/10/2012, un’indagine che prenda in considerazione un periodo più esteso, tenuto anche conto della celerità che caratterizza la procedura regolata mediante il nuovo rito speciale. Per altro verso, quanto all’utilizzo del lavoratore in mansioni inferiori, non risulta posta in essere da parte del lavoratore quella collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage richiesta dalla giurisprudenza, mediante l’allegazione della esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente collocato, essendosi il ricorrente limitato a rilevare che il datore di lavoro non aveva assolto l’onere del repechage, senza provvedere alle suesposte allegazioni neppure in sede di ricorso per cassazione. Di conseguenza non può ritenersi che il datore di lavoro sia tenuto a dimostrare l’impossibilità di utilizzo del lavoratore in mansioni inferiori, poichè il relativo onere sorge solo a seguito dell’allegazione di controparte.

4. Con la quarta censura il ricorrente deduce violazione dell’art. 345 c.p.c., violazione della L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 59 (art. 360 c.p.c., n. 3). Rileva che erroneamente la Corte d’appello aveva ritenuto inammissibili le allegazioni offerte dall’ing. S. a supporto della domanda volta all’accertamento dell’esistenza di un “gruppo” di imprese, non avvedendosi che sin dal ricorso L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 51 il ricorrente aveva compiutamente ed analiticamente allegato i fatti idonei a rappresentare la sussistenza della suddetta fattispecie, corredandoli anche della relativa documentazione.

5. Deduce, ancora, violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. – Violazione e falsa applicazione dell’art. 414 c.p.c. – Violazione e falsa applicazione della L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 51 (art. 360 c.p.c., n. 3). Osserva che la Corte territoriale ha ritenuto infondata la domanda finalizzata all’accertamento della esistenza di un gruppo di imprese quale unico centro di imputazione del rapporto di lavoro sul presupposto che mancherebbero le allegazioni riguardo all’esistenza di una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un’unica attività tra i vari soggetti del collegamento economico-funzionale, nonchè dell’intento di frodare la legge, e ciò in contrasto con la ricostruzione degli elementi costitutivi della fattispecie dedotta.

6. Con il sesto motivo il ricorrente deduce omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, rappresentato dalla prova documentale della esistenza del “Gruppo Mecfond” facente capo alla capogruppo Mecfond s.p.a. fornita attraverso i documenti prodotti dall’ing. S.S. sub i nn. 2 (Copia contratto di lavoro a tempo indeterminato del 26 febbraio 2008), 5 (Copia visura Mecfond S.p.A.), 6 (Copia visura Carpenterie Meridionali s.r.l.), 10 (copia ordine di servizio del 15 gennaio 2010), 11 (Copia prospetto recante “gestione dei timbri/firme del personale abilitato”), 12 (Copia “comunicazione interna elenco del personale preposto alla gestione della sicurezza aziendale (come previsto dal D.Lgs. n. 81 del 2008) e 13 (Copia “Report della qualità anno 2008” relativo al Gruppo Mecfond) del foliario del fascicolo del giudizio di opposizione L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 51, e corrispondenti a circostanze puntualmente allegate nel ricorso L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 51, (art. 360 c.p.c., n. 5). Rileva che le considerazioni esposte dimostrano la pacifica utilizzabilità delle allegazioni svolte e dei documenti prodotti.

6.1. I motivi da 4 a 6 possono essere trattati congiuntamente in ragione dell’intima connessione. Va rilevato in proposito che dal tenore del ricorso si evince che le allegazioni concernono solo la presenza di un gruppo di imprese, senza che risulti dedotto che le stesse confluiscano in un unico soggetto datore di lavoro ai fini, ad esempio, della valutazione in ordine alla insussistenza, in relazione alla situazione concernente altra impresa del gruppo, delle ragioni organizzative giustificanti il licenziamento o dei presupposti per il repechage. Al riguardo è significativo che il contraddittorio non sia stato esteso alle altre imprese facenti parte del gruppo. Ne consegue che le allegazioni del ricorrente sul punto restano ininfluenti ai fini della decisione della causa. Le argomentazioni che precedono valgono a fondare il rigetto di tutti i motivi del ricorso, con la precisazione, con riferimento al sesto motivo, che la ritenuta irrilevanza degli evidenziati elementi di prova non equivale a omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio. E’ da considerare, infatti, che ciò che distingue il processo di cassazione dal processo di merito sta nell’assenza, nel primo, del potere giudiziale di accertare e valutare i fatti di causa, cioè di compiere attività istruttoria. Il giudice di legittimità si limita a verificare se la sentenza impugnata contenga errori di diritto e a controllare il giudizio di fatto reso dal giudice di merito, attraverso il sindacato sulla completezza della motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Tale sindacato non può risolversi in una duplicazione del giudizio di merito, tanto che alla cassazione della sentenza impugnata può giungersi non per semplice dissenso dalle conclusioni raggiunte dal giudice di merito ma solo in caso di motivazione talmente lacunosa da risultare incomprensibile o equivoca. Con la più recente formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, operante ratione temporis, inoltre, il sindacato sulla motivazione risulta limitato alla rilevazione dell’omesso esame di un fatto decisivo e discusso dalle parti. Ne discende l’inammissibilità delle censure, come quelle prospettate dal ricorrente, che evochino una moltitudine di fatti e circostanze lamentandone il mancato esame o valutazione da parte della Corte d’appello ma in realtà sollecitandone un esame o una valutazione nuova da parte della Corte di cassazione, così chiedendo un nuovo giudizio di merito oppure chiamando “fatto decisivo”, indebitamente trascurato dalla Corte d’appello, il vario insieme dei materiali di causa (in tal senso Cass. Sez. L, Sentenza n. 21439 del 21/10/2015, Rv. 637497).

7. Con l’ultimo motivo il ricorrente deduce violazione della L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 48, (art. 360 c.p.c., n. 3). Rileva che la Corte d’appello ha confermato la statuizione del giudice di primo grado che aveva dichiarato inammissibile le domande di pagamento dell’indennità di mancato preavviso e del trattamento di fine rapporto, ritenendo che non avessero come presupposto una pronuncia di illegittimità del recesso. Osserva che, ai sensi della L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 48 la circostanza che il lavoratore impugni giudizialmente il licenziamento domandando in via principale l’accertamento della illegittimità del recesso, con ogni conseguente statuizione, non può escludere il diritto del medesimo lavoratore di chiedere contestualmente, in via subordinata e per il caso di rigetto della domanda principale, il pagamento del trattamento di fine rapporto o dell’indennità sostitutiva del mancato preavviso, trattandosi di crediti il cui fatto costitutivo è da ravvisare nel licenziamento e, quindi, nella medesima circostanza allegata a fondamento della domanda principale.

7.1.La censura involge l’interpretazione della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 48. La norma prevede testualmente che “con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47 del presente articolo, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi”.

7.2. E’ da premettere che il tenore della disposizione non consente un’interpretazione strettamente aderente al dato testuale. L’evidente antinomia tra le espressioni “domande diverse” e “identici fatti costitutivi”, infatti, è conciliabile soltanto ove si ritenga proponibile una domanda in cui, ferme le allegazioni proprie della domanda proposta ai sensi del comma 47, muti esclusivamente il petitum: ipotesi, questa, in concreto non prospettabile, posto che all’impugnativa dei licenziamenti in discussione (contemplata nel comma 47 e per definizione soggetta al rito speciale) cor r.nde necessariamente, quale petitum, la richiesta della tutela prevista dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18.

7.3. Ne consegue che si deve accedere a un’interpretazione che, per un verso, consenta di attribuire un significato alla disposizione (che, cioè, non porti ad escludere del tutto la proponibilità di domande diverse da quelle di cui al comma 47), e, per altro verso, sia coerente con la finalità sottesa all’insieme delle norme regolanti il rito speciale, connotate da un impulso di accelerazione impresso con la previsione di termini stringenti e cadenzati, che è quella di limitarne l’ambito di applicazione, assicurando una tutela reintegratoria sollecita. In sostanza alla norma va ricondotto un significato che risponda all’intento di evitare che il thema decidendum, individuato con riferimento al nucleo della controversia necessariamente assoggettato al rito speciale, si allarghi con l’introduzione di nuovi temi d’indagine, tali da ritardare il processo, vanificando la celerità della sua conclusione.

7.4. Tutto ciò premesso e venendo alla questione in esame, va rilevato che le domande proposte in via subordinata dal lavoratore (dirette all’accertamento del diritto del medesimo al trattamento di fine rapporto e all’indennità di preavviso, in ipotesi di accoglimento della tesi della controparte) sono riconducibili al thema decidendum della controversia come delineatosi nella dialettica processuale. Esse, infatti, riguardando le pretese al trattamento di fine rapporto e all’indennità di preavviso, nascenti dalla cessazione del rapporto, traggono fondamento dai medesimi fatti costitutivi (e impeditivi) posti a base della contrapposta deduzione delle parti riguardo alla sussistenza del giustificato motivo di recesso. In relazione alle predette domande, pertanto, è ravvisabile la coincidenza dei fatti costitutivi con quelli comunque dedotti nel processo dalle parti, con la conseguenza che l’esame delle stesse non importa un indebito ampliamento del thema decidendum.

7.5. L’interpretazione offerta risulta coerente con i principi generali e le esigenze del sistema processuale. E’ da osservare che di recente si è assistito alla valorizzazione del principi del giusto processo (e, in particolare, della ragionevole durata del processo), elevato al rango di principio costituzionale a seguito della riformulazione dell’art. 111 Cost., ad opera della Legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, e che ha assunto un valore sopranazionale alla stregua dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, così come applicata dalla Corte EDU. In proposito questa Corte a Sezioni Unite ha avuto modo di rilevare che “il principio della ragionevole durata del processo è divenuto punto costante di riferimento nell’ermeneutica delle norme, in particolare di quelle processuali, e nella individuazione del rispettivo ambito applicativo, conducendo a privilegiare, pur nel doveroso rispetto del dato letterale, opzioni contrarie a ogni inutile appesantimento del giudizio. E tuttavia, non può non rilevarsi che il principio del giusto processo, di cui al richiamato art. 6 CEDU, non si esplicita nella sola durata ragionevole dello stesso. Come sottolineato anche in dottrina, occorre prestare la massima attenzione ad evitare di sanzionare comportamenti processuali ritenuti non improntati al valore costituzionale della ragionevole durata del processo, a scapito degli altri valori in cui pure si sostanzia il processo equo, quali il diritto di difesa, il diritto al contraddittorio, e, in definitiva, il diritto ad un giudizio. In proposito, la stessa Corte Europea di Strasburgo, pur sottolineando che ad essa non compete un sindacato sulla interpretazione e sull’applicazione della regola emessa a livello nazionale, ammette poi le limitazioni all’accesso ad un giudice solo in quanto espressamente previste dalla legge ed in presenza di un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (v., ex plurimis, Ornar c. Francia, 29 luglio 1998; Bellet c. Francia, 4 dicembre 1995), affermando i particolare che ritenere l’irricevibilità di un ricorso non articolato con la specificità richiesta configura un eccessivo formalismo (v., tra le altre, Walchi c. Francia, 26 luglio 2007); ovvero ponendo in rilievo la esigenza che le limitazioni al diritto di accesso ad un giudice siano stabilite in modo chiaro e prevedibile, e, dunque, alla stregua di una giurisprudenza non ondivaga o non specifica (v., a titolo esemplificativo, Faltejsek c. Rep. Ceca, 15 agosto 2008)” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 5700 del 12/03/2014, Rv. 629676). Per altro verso, anche la Corte Costituzionale, con l’elaborazione degli ultimi anni, ha evidenziato la centralità dell’effettività della tutela giurisdizionale, tra l’altro sottolineando l’esigenza che la disciplina processuale non sacrifichi “il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al “bene della vita” oggetto della loro contesa” (così Corte Cost. n. 77 del 2007, in tema di traslatio iudicii). Nel descritto contesto ordinamentale emerge il contrasto dell’interpretazione della norma oggetto di censura con l’esigenza di effettività della tutela giurisdizionale, dalla stessa derivando la necessità che il lavoratore proponga due distinte azioni al fine di ottenere la possibile tutela dei diritti nascenti da un’unica vicenda estintiva del rapporto di lavoro, assoggettandosi a una forte dilazione dei tempi richiesti per l’accertamento giudiziale di diritti, quali quelli al trattamento di fine rapporto e all’indennità di preavviso, che rivestono rilevanza primaria per chi subisce il recesso dal rapporto di lavoro.

7.6. Alle osservazioni svolte si aggiungano le possibili conseguenze che discendono dai principi affermati dall’elaborazione giurisprudenziale che ha affermato il divieto di abuso processuale in ipotesi dì esercizio frazionato di pretese creditorie che trovino tutte titolo nella cessazione del rapporto di lavoro, inteso quale fonte unitaria di obblighi e doveri delle parti (in tal senso, da ultimo, Cass. Sez. L, Sentenza n. 4016 del 01/03/2010, rv. 639227; “sussiste indebito frazionamento di pretese, dovute in forza di un unico rapporto obbligatorio, anche nel caso di unico rapporto di lavoro, fonte di crediti di natura contrattuale e legale, con collegamento ancora più stretto se i giudizi siano promossi quando le obbligazioni sono note e consolidate per essersi il suddetto rapporto già concluso, con conseguente necessità di evitare l’aggravamento della posizione del debitore nel rispetto degli obblighi di correttezza e buona fede contrattuali e in coerenza con il principio anche sovranazionale del giusto processo, volto alla razionalizzazione del sistema giudiziario, che non tollera frammentazioni del contenzioso con pericolo di giudicati contrastanti. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di appello che aveva ritenuto legittime due distinte azioni giudiziarie del lavoratore nei confronti del medesimo datore di lavoro, instaurate a seguito della cessazione dello stesso rapporto subordinato, relative una al pagamento del premio di risultato e l’altra alla rideterminazione del t.f.r. per l’incidenza di voci retributive percepite in via continuativa)”. Nell’ambito del richiamato indirizzo si collocano anche le pronunce n. 27064/2013 e 11256/2013 di questa Corte di legittimità. In quest’ultima decisione si afferma che il richiamato orientamento giurisprudenziale “mira a impedire che la parte debitrice sia sottoposta ad oneri ed a costi difensivi abnormi attraverso un’indebita ed evitabile parcellizzazione dei crediti che derivano da un rapporto obbligatorio unitario. Peraltro la protezione dell’interesse del debitore ad un comportamento processuale secondo correttezza e buona fede del creditore incontra anche ragioni di interesse pubblico alla razionalizzazione del sistema giudiziario, impedendo il formarsi di un contenzioso frammentato e disperso, ma riconducibile al medesimo rapporto obbligatorio, con il pericolo del formarsi di contrasti tra giudicati”. Emerge una nuova prospettazione della domanda, che, sulla base di una lettura bilanciata degli artt. 24 e 111 Cost., in funzione della tutela di parte convenuta, è suscettibile di sanzionare con nuove preclusioni il soggetto che, per ottenere l’adempimento delle prestazioni dovutegli, dia corso a una serie di azioni processuali volte ad uno scopo normalmente realizzabile con un unico giudizio.

8. Dall’intero sistema, quindi, provengono segnali che contrastano con l’interpretazione strettamente letterale della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 48 cui si è attenuta la Corte nella sentenza impugnata. Ed allora, in conclusione, ritiene il collegio che, tra le possibili soluzioni interpretative della norma in esame, debba privilegiarsi quella che, compatibile con una esegesi letterale e sistematica, nonchè con la garanzia di effettività della tutela giurisdizionale, discostandosi dal precedente enunciato di questa Corte (Sez. L, Sentenza n. 16662 del 10/08/2015, Rv. 636735), eviti il frazionamento dei processi e le pronunce in mero rito, consentendo che un’unica vicenda estintiva del rapporto di lavoro dia luogo a un unico processo, senza eccessivo aggravio di attività e ritardo per il soggetto che chieda l’attuazione dei diritti sorti a seguito di quell’unica vicenda.

9.In base alle svolte argomentazioni va accolto l’ultimo motivo di ricorso e la sentenza va cassata sul punto, con rinvio, anche per la liquidazione delle spese, al giudice del merito che, nell’esaminare le domande subordinate proposte dal lavoratore, si atterrà si principi enunciati.

PQM

La Corte accoglie il settimo motivo di ricorso, rigetta gli altri motivi.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Napoli in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 13 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 12 agosto 2016

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