Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17086 del 16/06/2021

Cassazione civile sez. II, 16/06/2021, (ud. 20/01/2021, dep. 16/06/2021), n.17086

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25741/2019 proposto da:

M.M.S., rappresentato e difeso dall’avv. DIEGO

GIUSEPPE PERRICONE;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), IN PERSONA DEL MINISTRO PRO

TEMPORE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 233/2019 della CORTE D’APPELLO di

CALTANISSETTA, depositata il 02/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

20/01/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

ritenuto che la vicenda qui al vaglio può sintetizzarsi nei termini seguenti:

– il Tribunale confermò la decisione della competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, che aveva disatteso la domanda di protezione avanzata da M.S.M., e la Corte d’appello di Caltanissetta rigettò l’impugnazione del richiedente;

– l’istante aveva narrato di essere espatriato dal Pakistan (Punjab) perchè minacciato dai sunniti, i quali già avevano aggredito il fratello, intimandogli di sospendere i lavori di costruzione di un edificio religioso sciita;

– la Corte d’appello nega sussistere la soggettiva situazione che giustifichi il riconoscimento del diritto alla protezione sussidiaria: l’interessato riferiva di avere lasciato il proprio Paese per ragioni economiche, col proposito di poter sfuggire alla condizione di povertà che lo attanagliava, nel mentre la narrazione riguardante l’aggressione sunnita, oltre ad avere assunto aspetto marginale, presentava gravi discrepanze tra quanto raccontato e quanto risultante da una denuncia sporta alla locale polizia; inoltre la vicenda risultava poco circostanziata, contraddittoria e priva di specifici elementi individualizzanti, cosicchè doveva escludersi che l’appellante fosse esposto a un rischio effettivo e attuale di subire un grave danno alla propria persona in caso di rimpatrio;

– la decisione esclude del pari la sussistenza dei presupposti di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c, per il riconoscimento della protezione sussidiaria, stante che la situazione interna del Paese di provenienza, consultate le COI aggiornate, non appariva caratterizzata da violenza diffusa e incontrollata;

– veniva, infine, escluso il ricorrere dei presupposti della protezione umanitaria, non essendo stato prospettato “elemento idoneo a profilare una specifica condizione di vulnerabilità (…) sì da giustificare la invocata protezione umanitaria”;

ritenuto che il richiedente ricorre sulla base di unitaria censura avverso la decisione d’appello e che il Ministero dell’Interno resiste con controricorso;

considerato che il motivo, con il quale il ricorrente denunzia violazione del D.Lgs. n. 286 del 1986, art. 5, comma 6, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, assumendo che la Corte locale aveva errato a negare il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria, non avendo tenuto conto dei principi di cui alla decisione n. 4455/2018 di questa Corte, della natura “aperta” dell’istituto, che assicurava tutela ai diritti fondamentali, la cui compromissione comportava una grave situazione di vulnerabilità, a cui il richiedente sarebbe stato esposto in caso di rimpatrio, a motivo della instabilità socio-politica in cui versa il Pakistan, tenuto conto il grado d’inserimento attuale del ricorrente, non supera il vaglio d’ammissibilità, dovendosi osservare che:

a) la doglianza si caratterizza per la somma genericità delle critiche, consistite unicamente in un richiamo delle disciplina e al precedente giurisprudenziale, mancando, per contro, un’apprezzabile individuazione della vicenda soggettiva;

b) peraltro, il Giudice del merito risulta aver deciso applicando il principio enunciato da questa Corte, la quale ha avuto modo di chiarire che ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria; il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Sez. 6, n. 18306, 08/07/2019, Rv. 654719);

c) rimasta non dimostrata la sussistenza di violenza indiscriminata, la pretesa di aver diritto alla protezione umanitaria, priva di allegazioni di specifiche e individuali ragioni di vulnerabilità (che, ovviamente, non possono coincidere con lo stato di povertà), non ha fondamento giuridico, una volta che la decisione ha negato che dalla effettuata comparazione risulti emergere una situazione di specifica vulnerabilità nel caso di rimpatrio, nè, deve soggiungersi, il ricorrente ha esposto evidenze di causa dimostranti un suo significativo radicamento in Italia;

considerato che, di conseguenza, siccome affermato dalle S.U. (sent. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334 c.p.c., comma 2, sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”;

considerato che il soccombente ricorrente deve essere condannato al rimborso delle spese in favore del costituito Ministero nella misura di cui in dispositivo, tenuto conto della qualità della causa, del suo valore e delle attività svolte;

considerato che sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto;

che di recente questa Corte a sezioni unite, dopo avere affermato la natura tributaria del debito gravante sulla parte in ordine al pagamento del cd. doppio contributo, ha, altresì chiarito che la competenza a provvedere sulla revoca del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato in relazione al giudizio di cassazione spetta al giudice del rinvio ovvero – per le ipotesi di definizione del giudizio diverse dalla cassazione con rinvio (come in questo caso) – al giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato; quest’ultimo, ricevuta copia della sentenza della Corte di cassazione ai sensi dell’art. 388 c.p.c., è tenuto a valutare la sussistenza delle condizioni previste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, per la revoca dell’ammissione (S.U. n. 4315, 20/2/2020).

PQM

dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese legali in favore del Ministero controricorrente, che liquida in Euro 2.100,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese anticipate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2021

 

 

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