Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17084 del 21/07/2010

Cassazione civile sez. lav., 21/07/2010, (ud. 06/05/2010, dep. 21/07/2010), n.17084

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BARBERINI 11,

presso LA SEDE DELLA SOFIM S.P.A., nello studio dell’avvocato

D’ONOFRIO ANGELO, rappresentato e difeso dall’avvocato DI LORENZO

ERRICO, giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI MASSA DI SOMMA, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PORTUENSE 104, presso

lo studio dell’avvocato DE ANGELIS ANTONIA, rappresentato e difeso

dall’avvocato VIOLANTE RUGGI D’ARAGONA GIANCARLO, giusta delega in

calce alla copia notificata del ricorso;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 67/2006 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 11/05/2006 R.G.N. 243/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/05/2010 dal Consigliere Dott. PIETRO CURZIO;

udito l’Avvocato VIOLANTE RUGGI D’ARAGONA GIANCARLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

G.C. chiede l’annullamento della sentenza della Corte d’Appello di Salerno, pubblicata l’11 gennaio 2006, che ha giudicato in sede di rinvio, accogliendo in parte la sua domanda nei confronti del Comune di Massa di Somma.

Il G. era risultato vincitore di un concorso bandito dal Comune di Massa di Somma per un posto di manutentore riservato alle categorie protette, di cui alla L. n. 482 del 1968.

La graduatoria fu impugnata da altro candidato, perchè l’invalidità del G. era del 37%, mentre il D.Lgs. n. 509 del 1988, art. 7, richiedeva un’invalidità superiore al 45%. Si pronunciarono il TAR Campania ed il Consiglio di Stato, accogliendo il ricorso dell’altro lavoratore.

Il Comune, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza del giudice amministrativo, licenziò il G. il (OMISSIS), quando questi già da sette anni lavorava.

Il G. propose un ricorso al giudice del lavoro del Tribunale di Nola, chiedendo in via d’urgenza la reintegrazione nel posto di lavoro, previa declaratoria della illegittimità del licenziamento.

Il Tribunale, al termine del giudizio di merito, rigettò il ricorso ritenendo che il recesso fosse legittimo, costituendo un atto obbligato a seguito del passaggio in giudicato della decisione del giudice amministrativo, e rigettò la domanda di risarcimento dei danni, escludendo la responsabilità del Comune sia sotto il profilo dell’art. 2043 c.c., sia sotto il profilo del D.Lgs. n. 29 del 1993 art. 36, comma 8.

Il G. propose appello. La Corte d’Appello di Napoli confermò la decisione di primo grado.

Il G. propose ricorso per cassazione. Il Comune eccepì il difetto di giurisdizione. Le Sezioni unite definirono la questione di giurisdizione, rimettendo per il resto la causa alla Sezione lavoro, che si pronunciò con sentenza del 22 novembre 2003, n. 17794, ritenendo fondati i primi due motivi di ricorso, concernenti il danno derivante al partecipante ad un concorso pubblico dal protrarsi delle operazioni concorsuali.

Era infatti accaduto che erano state approvate nuove norme che innalzarono, con efficacia retroattiva, il livello di invalidità richiesto per la partecipazione al concorso riservato agli invalidi civili, e che la L. n. 509 del 1988, art. 7, aveva dettato una disciplina transitoria specificando che i vecchi livelli di invalidità conservavano vigore per un periodo di dodici mesi.

decorrente dalla data di entrata in vigore del decreto di cui all’art. 2, comma 1, della citata legge (D.M. 5 febbraio 1992, entrato in vigore il 13 marzo 1992), con la conseguenza che il G., la cui invalidità rientrava nel livello richiesto dalla normativa vigente al momento del bando e della richiesta di presentazione dei documenti, era stato ingiustamente danneggiato dal fatto che il Comune, protraendo i tempi del concorso, aveva fatto decorrere l’anno previsto dalla norma su indicata.

La Cassazione annullò la sentenza con rinvio alla Corte di Salerno.

Quest’ultima, in parziale accoglimento dell’appello ed in parziale riforma della sentenza impugnata, accertata la irragionevolezza della durata della procedura concorsuale, condannò il Comune appellato al pagamento in favore del G. della somma di 28.514,00 Euro a titolo di risarcimento del danno patrimoniale commisurato all’ultima retribuzione per un periodo equitativamente determinato in due anni, oltre accessori.

Il G. ricorre contro tale sentenza per cinque motivi. Il Comune ha depositato delega ed il suo difensore ha discusso la causa.

Con il primo motivo si denunzia la violazione dell’art. 384 c.p.c., per non essersi la sentenza impugnata uniformata a quanto statuito dalla Cassazione, che aveva rimesso al giudice di rinvio la valutazione della ragionevolezza o meno dei tempi del concorso, mentre la Corte di rinvio ha valutato il danno considerando anche il concorso nel fatto colposo del G..

Il motivo non è fondato perchè questa Corte, nella sentenza di cassazione con rinvio, si pronunziò sul problema della ragionevolezza o meno della durata del concorso e sulla conseguente sussistenza di una responsabilità della amministrazione comunale, rimettendosi per il resto alle valutazioni della Corte di rinvio, che pertanto non è andata al di là del suo compito rilevando e motivando la sussistenza di un comportamento colposo anche da parte del lavoratore e considerando tale elemento in sede di quantificazione del danno.

Con il secondo motivo si denunzia la contraddittorietà della motivazione per aver sostenuto due tesi in netto contrasto tra di loro: da una parte che la durata del concorso di oltre 14 mesi era un fatto colposo a carico del Comune e dall’altra che il G. aveva concorso nell’accadimento dell’evento con una condotta colposa. Il motivo non è fondato perchè non vi è alcuna contraddizione nel ritenere che a fronte di un fattore di responsabilità a carico dell’amministrazione, vi sia stato un comportamento colposo anche da parte del G. e che i due comportamenti abbiano concorso nel determinare il danno.

Con il terzo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 1227, 2697 c.c., e art. 112 c.p.c. e omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione, nella parte in cui la decisione ha quantificato il danno non accogliendo la richiesta di condanna dell’amministrazione al pagamento delle retribuzioni dal licenziamento sino al compimento del 65mo anno, ossia fino al conseguimento del diritto alla pensione e parametrando, invece, il danno alle retribuzioni di un biennio.

Nell’ambito di tale motivo si rileva che peraltro la richiesta di liquidazione anche delle ingenti spese sostenute nelle difese dinanzi ai giudici amministrativi è stata erroneamente ritenuta nuova dalla Corte, perchè era stata formulata una richiesta di risarcimento di tutti i danni ed erano state allegate le sentenza del giudice amministrativo.

Quest’ultimo passaggio critico è formulato in violazione del criterio di autosufficienza, perchè non si da conto del come e del dove tale richiesta era stata formulata nel giudizio di merito. Se poi la richiesta si risolve solo nelle le frasi riportate in ricorso, è evidente che tale domanda non era stata, neanche implicitamente, formulata.

La quantificazione del danno in misura corrispondente alla retribuzione di un biennio risulta invece adeguatamente motivata, con un ragionamento privo di incongruenze, e corrisponde ad una corretta applicazione dei principi fissati della normativa codicistica. Per il resto la valutazione insita nella quantificazione del danno attiene al merito della decisione, che rimane estraneo al giudizio di legittimità.

Con il quarto motivo si denunzia la violazione degli art. 32 Cost., artt. 2043, 2059, 2967 c.c. e artt. 112, 115 e 116 c.p.c., nonchè vizio di omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia e di “motivazione contraddittoria sotto il profilo dell’aver ritenuto la domanda sfornita di prova, ignorandosi sia il principio della prova presuntiva e del fatto notorio, sia la richiesta di consulenza tecnica”.

Nel motivo si fissano poi tre punti.

Si sostiene che la domanda di risarcimento del danno biologico non è nuova perchè nel ricorso di prime eureka pag. 16, punto sub c); si chiedeva la condanna “anche ai danni biologici e, comunque, a tutti i danni derivanti dalla mancata esplicazione dell’attività lavorativa”. Il che implicava la richiesta di liquidazione del danno biologico ed esistenziale.

Si censura la sentenza per non aver tenuto conto, ai fini della liquidazione del danno biologico che il G. aveva subito un incremento del livello di invalidità dal 38% al 67%.

Si censura infine la sentenza per non aver considerato provato in re ipsa il danno esistenziale derivante dalla illegittima perdita del posto di lavoro.

Quest’ultimo rilievo è infondato perchè, come hanno spiegato le Sezioni unite del novembre 2008, il danno esistenziale deve essere specificamente allegato e provato.

L’aggravamento della percentuale di inabilità può avere cause molteplici: il ricorrente avrebbe dovuto provare il rapporto eziologico con il comportamento della pubblica amministrazione.

Quanto alla valutazione della Corte di Salerno sulla novità della domanda di liquidazione del danno biologico ed esistenziale, la stessa è condivisibile, perchè il danno esistenziale non è stato mai richiesto, mentre la richiesta, invero generica, di liquidazione dei danni biologici formulata in primo grado, non è stata specificamente riproposta, come era invece necessario fare, in sede di ricorso in appello. Al di là delle espressioni usate, tale ricorso è costruito sulla richiesta di liquidazione delle retribuzioni non percepite e quindi su una richiesta di liquidazione del danno patrimoniale.

Con il quinto ed ultimo motivo si denunzia la violazione dell’art. 92 c.p.c. e delle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nonchè motivazione assolutamente carente in ordine alla compensazione delle spese.

Anche questo motivo non è fondato, perchè la compensazione è conforme al corretto esercizio dei poteri conferiti al giudice dall’art. 92 c.p.c. ed è stata motivata con argomenti adeguati e privi di contraddizioni. Il riferimento agli artt. 1, 2, 6, 13 e 17 ss. della Convenzione europea dei diritti dell’uomo è inammissibile per la sua genericità ossia per inosservanza dell’art. 366 c.p.c., n. 4, giacchè il ricorrente si limita a dire che la compensazione delle spese si traduce in una “colossale disfunzione del nostro sistema amministrativo-giudiziario nel pressochè totale annientamento del cittadino G.C.”.

Il ricorso pertanto deve essere rigettato. Le spese del giudizio di legittimità devono essere poste a carico del soccombente nel giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10,00, nonchè 1.500,00 Euro per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2010

 

 

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