Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17084 del 11/07/2017

Cassazione civile, sez. III, 11/07/2017, (ud. 07/06/2017, dep.11/07/2017),  n. 17084

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – rel. Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6900/2014 proposto da:

MINISTERO DELLA SALUTE, (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, domiciliato ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui è rappresentato e difeso

per legge;

– ricorrente –

contro

S.M., B.M., M.D., C.G.,

BE.RO., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA MARZIALE,

7/B, presso lo studio dell’avvocato AMALIA RE, che li rappresenta e

difende unitamente agli avvocati LUCIANA LETIZIA, LUIGI DELUCCHI

giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrenti –

e contro

BE.RO., C.G., CA.LU.,

c.s., CO.GU.AN., c.m.,

D.C.P., D.L.M., M.D., MA.GI.,

P.S., PI.FR., R.R., S.M.,

V.L., VO.GI., E.S., E.A.,

EP.AL., F.N.;

– intimati –

nonchè da:

F.N., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE 114, presso lo studio dell’avvocato LUIGI PARENTI, che la

rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del

controricorso e ricorso incidentale;

– ricorrente incidentale –

contro

MINISTERO DELLA SALUTE (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 1163/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 21/02/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

07/06/2017 dal Consigliere Dott. ENRICO SCODITTI.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che:

1. B.M. ed altri convennero in giudizio innanzi al Tribunale di Roma il Ministero della Salute chiedendone la condanna al risarcimento del danno per il contagio HBV e HCV da emotrasfusione. Il Tribunale adito accolse solo la domanda proposta da C.G. e rigettò quella proposta dagli altri attori. Avverso detta sentenza proposero appello gli attori in primo grado. Con sentenza di data 21 febbraio 2014 la Corte d’appello di Roma accolse parzialmente gli appelli condannando il Ministero appellato al pagamento delle somme analiticamente indicate in dispositivo.

2. Osservò la corte territoriale, per quanto qui rileva, quanto segue. Per Be.Ro. e S.M. la prescrizione decorre dalla proposizione dell’istanza di indennizzo, non essendo stati acquisiti elementi che possano comportare una diversa decorrenza sulla base dell’ordinaria diligenza e tenuto conto delle conoscenze scientifiche; non sufficienti sono i referti del (OMISSIS) e (OMISSIS), stante la mulitifattorialità della positività all’HVC, non necessariamente collegata alla somministrazione di sangue infetto, e la difficoltà dunque di conoscere lo specifico nesso eziologico. Circa M.D., B.M. e F.N. sussisteva a carico del Ministero anche prima dell’entrata in vigore della L. n. 107 del 1990, un obbligo di controllo e di vigilanza in materia di raccolta e di distribuzione di sangue umano per uso terapeutico. Nei confronti di F.N. la CTU, sulla base delle Tabelle di Milano, ha quantificato il danno biologico nella misura del 30%; ai fini della quantificazione del danno non patrimoniale, tenuto conto dell’età della danneggiata e dell’epoca di insorgenza della patologia, può liquidarsi la somma di Euro 129.844,00. Infine, quanto a C.G., considerato che l’indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992, non può essere scomputato dall’importo dovuto a titolo di risarcimento se non sia stato corrisposto o quanto meno non sia determinato o determinabile, nel caso di specie la quantificazione dell’indennizzo non può essere operata mancando in atti elementi sufficienti per l’individuazione del suo esatto ammontare.

3. Ha proposto ricorso per cassazione il Ministero della Salute sulla base di quattro motivi e resistono con unico controricorso B.M., Be.Ro., C.G., M.D. e S.M.. Resiste con separato controricorso anche F.N., che ha proposto altresì ricorso incidentale sulla base di un motivo. Resiste con controricorso al ricorso incidentale il ricorrente in via principale. E’ stato fissato il ricorso in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che:

1. con il primo motivo del ricorso principale si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2935 e 2947 c.c., artt. 112, 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva il ricorrente in via principale che, sulla base delle diagnosi risalenti al (OMISSIS) e (OMISSIS), Be.Ro. e S.M. ben avrebbero potuto acquisire la consapevolezza delle cause del contagio e che il giudice doveva accertare se, usando l’ordinaria diligenza ed alla stregua delle conoscenze esistenti, fosse acquisibile la consapevolezza in discorso.

1.1. Il motivo è inammissibile. Il giudice di merito ha fatto applicazione della regola enunciata dal ricorrente, ha cioè accertato se, usando l’ordinaria diligenza ed alla stregua delle conoscenze scientifiche esistenti, fosse acquisibile la consapevolezza in ordine alle cause del contagio. L’esercizio di tale apprezzamento rientra nella competenza del giudice di merito ed è sindacabile nella presente sede solo nei termini del vizio motivazionale. La censura ha pertanto per oggetto la rivisitazione del giudizio di fatto svolto dal giudice di merito, non consentita nella presente sede di legittimità.

2. Con il secondo motivo del ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., artt. 112, 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva il ricorrente, in relazione a B.M. e F.N., che, trattandosi di trasfusione somministrata nei lontani (OMISSIS), difetta sia il nesso causale che la colpevolezza del Ministero in quanto negli anni (OMISSIS) non solo non era stato ancora scoperto il virus HBV, ma anche non erano noti mezzi efficaci di individuazione del virus del sangue dei donatori.

3. Con il terzo motivo del ricorso incidentale si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., artt. 112, 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva il ricorrente, in relazione a M.D., che, trattandosi di trasfusione somministrata nel lontano (OMISSIS), difetta sia il nesso causale che la colpevolezza del Ministero in quanto nel (OMISSIS) non solo non era stato ancora scoperto il virus HBV, ma anche non erano noti mezzi efficaci di individuazione del virus del sangue dei donatori.

3.1 I motivi secondo e terzo, da valutare unitariamente, sono infondati. Va premesso allo scrutinio del secondo motivo che nei confronti di F.N. deve intendersi intervenuta la cessazione della materia del contendere. Prima dell’adunanza camerale è stata depositata rinuncia al ricorso incidentale da parte di F.N.. Nella rinuncia si dà atto della rinuncia anche del Ministero al proprio ricorso nei confronti della F., nel quadro dell’accordo intervenuto fra le parti a chiusura della controversia. La rinuncia non è sottoscritta dal Ministero, tuttavia dall’allegazione alla rinuncia del decreto di liquidazione di somma a titolo di equa riparazione di data 16 marzo 2016, in epoca cioè successiva alla proposizione dell’odierno ricorso, si evince l’intervenuta cessazione della materia del contendere, da cui l’inammissibilità del ricorso nei confronti della F..

Entrando nel merito della censura, ha affermato Cass. Sez U. 11 gennaio 2008, n. 584 (e altre di pari data), imprescindibile punto di avvio dell’indagine, a proposito della responsabilità civile per le patologie conseguenti ad infezione con i virus HBV (epatite B), HIV (AIDS) e HCV (epatite C) contratti a causa di assunzione di emotrasfusioni o di emoderivati con sangue infetto, che non sussistono tre eventi lesivi, bensì un unico evento lesivo, cioè la lesione dell’integrità fisica (essenzialmente del fegato) in conseguenza dell’assunzione di sangue infetto; ne consegue che già a partire dalla data di conoscenza dell’epatite B – la cui individuazione spetta all’esclusiva competenza del giudice di merito, costituendo un accertamento di fatto – sussiste la responsabilità del Ministero della Salute, anche per il contagio degli altri due virus, che non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo. Precisarono in particolare le Sezioni Unite che “di fronte ad obblighi di prevenzione, programmazione, vigilanza e controllo imposti dalla legge, deve inoltre sottolinearsi che si arresta la discrezionalità amministrativa, ove invocata per giustificare le scelte operate nel peculiare settore della plasmaferesi. Il dovere del Ministero di vigilare attentamente sulla preparazione ed utilizzazione del sangue e degli emoderivati postula un dovere particolarmente pregnante di diligenza nell’impiego delle misure necessarie a verificarne la sicurezza, che comprende il dovere di adoperarsi per evitare o ridurre un rischio che è antico quanto la necessità della trasfusione”.

Sulla base di tale arresto Cass. 29 agosto 2011, n. 17685 ha riconosciuto che anche in epoca antecedente al (OMISSIS) doveva ritenersi il Ministero della salute tenuto a controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni o per gli emoderivati fosse esente dai virus in questione e che i donatori non presentassero alterazione delle transaminasi, in adempimento di obblighi specifici posti da fonti normative speciali risalenti nel tempo. Ha in particolare precisato Cass. n. 17685 del 2011 come fosse ben noto fin dalla fine degli anni Sessanta il rischio di trasmissione di epatite virale, la rilevazione (indiretta) dei virus essendo possibile già mediante la determinazione delle transaminasi ALT ed il metodo dell’anti-HbcAg e che già da tale epoca sussistevano obblighi normativi (L. n. 296 del 1958 e L. n. 592 del 1967, D.P.R. n. 1256 del 1971, L. n. 519 del 1973 e L. n. 833 del 1973) in ordine ai controlli volti ad impedire la trasmissione di malattie mediante il sangue infetto. Ha aggiunto la sentenza in discorso: “Fin dalla metà degli anni 60 erano infatti esclusi dalla possibilità di donare il sangue coloro i cui valori delle transaminasi e delle GPT – indicatori della funzionalità epatica – fossero alterati rispetto ai limiti prescritti (cfr., da ultimo, Cass., 20 aprile 2010, n. 9315). Come questa Corte ha già avuto modo di osservare, lo stesso Ministero, ben a conoscenza del fenomeno, ha con circolari n. 1188 del 30 giugno 1971, 17 febbraio e 15 settembre 1972 disposto la ricerca sistematica dell’antigene Australia (cui fu dato poi il nome di antigene di superficie del virus dell’epatite B); e con circolare n. 68 del 1978 ha poi reso obbligatoria la ricerca della presenza dell’antigene dell’epatite B in ogni singolo campione di sangue o plasma. Anche prima dell’entrata in vigore della L. 4 maggio 1990, n. 107, contenente la disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati, sulla base della legislazione vigente in materia il Ministero della sanità era dunque tenuto ad attività di controllo, direttiva e vigilanza in materia di sangue umano”.

La giurisprudenza successiva ha riconosciuto sussistente la responsabilità per omissione del Ministero in relazione ai controlli sull’idoneità del sangue ad essere oggetto di trasfusione anche per l’epoca anteriore alla più risalente delle scoperte dei mezzi di prevenibilità delle relative infezioni, individuabile nel (OMISSIS) (Cass. 14 giugno 2013, n. 14932; 30 agosto 2013, n. 19995; 28 febbraio 2014, n. 4785; 8 ottobre 2014, n. 21256; 2 aprile 2015, n. 6746; 9 aprile 2015, n. 7126; 4 febbraio 2016, n. 2232).

3.2. Si è differenziata dal prevalente indirizzo Cass. 20 maggio 2015, n. 10291, la quale ha affermato che la responsabilità del Ministero della Salute per contagio da trasfusioni di sangue infetto, postula – oltre al riscontro dell’omissione dell’attività di controllo, di direttiva e di vigilanza, nonchè dell’esistenza della patologia e dell’assenza di altri fattori causali alternativi – l’accertamento, avuto riguardo all’epoca di produzione del preparato, della conoscenza oggettiva, ai più alti livelli scientifici, della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto, sì da far ritenere, secondo un giudizio ipotetico, che l’azione omessa avrebbe potuto impedire l’evento perchè obbiettivamente prevedibile che ne sarebbe potuta derivare come conseguenza la lesione. Ha quindi precisato che la prova di tale conoscenza deve ritenersi raggiunta a partire dal (OMISSIS), con il riconoscimento del virus dell’epatite “B” da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sempre che non emerga altra data antecedente con lo stesso livello di oggettività e ha concluso in tali sensi: “dagli atti processuali non risultano accertamenti, con carattere di oggettività, in ordine alla conoscenza ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto, diversi dal riconoscimento in sede internazionale del virus dell’epatite B), individuato nel (OMISSIS). Pertanto, la ricorrenza della regolarità causale tra il mancato controllo da parte del Ministero e l’infezione da epatite C) per emotrasfusioni subite negli anni tra il (OMISSIS) e il (OMISSIS), può essere esclusa senza la necessità di ulteriori accertamenti da parte del giudice del merito”.

Reputa il Collegio che l’indirizzo prevalente di questa Corte, in continuità con il fondamentale arresto delle Sezioni Unite, vada mantenuto per le seguenti ragioni.

3.3. Cass. n. 10291 del 2015, valorizzando proprio un passaggio motivazionale delle Sezioni Unite, giunge alle proprie conclusioni attraverso il medium del nesso causale. Muovendo dalla rilevanza solo di quelle cause che nel momento in cui si produce l’evento causante si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, si afferma che ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale egli ha agito, considerando la prevedibilità effettuata con giudizio ex ante ed obiettiva, individuata in astratto e con il metro di valutazione delle migliori conoscenze scientifiche del momento, proprio perchè si tratta di accertare il nesso causale e non l’elemento soggettivo.

Non ignora il Collegio che negli argomenti delle Sezioni Unite, ripresi da Cass. n. 10291 del 2015, sia ravvisabile l’interferenza fra causalità e prevedibilità, ma deve distinguersi nel fondamentale arresto nomofilattico l’enunciazione del principio di diritto dall’argomentazione. Cass. n. 10291 del 2015, pur adoperando taluni degli argomenti delle Sezioni Unite, giunge ad una conclusione che non è coerente con il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite. Il centro di gravità del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite è l’unicità dell’evento lesivo, cioè la lesione dell’integrità fisica (essenzialmente del fegato) in conseguenza dell’assunzione di sangue infetto. E’ rispetto a tale evento che va valutato il rispetto da parte del Ministero del dovere di vigilare sulla preparazione ed utilizzazione del sangue e degli emoderivati, “che comprende il dovere di adoperarsi per evitare o ridurre un rischio che è antico quanto la necessità della trasfusione”.

Se l’evento di danno prescinde dalla sua specificazione in termini di malattia tipica (HBV, HCV, HIV), il problema del nesso causale si risolve in quello della derivazione probabilistica dell’infezione dalla trasfusione operata nella struttura sanitaria. Non rileva il nomen dell’infezione, ma il fatto dell’infezione e la sua riconducibilità sul piano eziologico alla trasfusione. Il principio dell’unicità dell’evento lesivo, enunciato dalle Sezioni Unite, rappresenta la premessa di tale risoluzione in termini puramente probabilistici del nesso di causalità riferito al fatto dell’infezione. Ciò significa che alla medesima conclusione delle Sezioni Unite è possibile pervenire attraverso un diverso percorso argomentativo, liberato dalla nozione di prevedibilità cui Cass. n. 10291 del 2015 ha fatto riferimento. Quello che importa a mente dell’art. 374 c.p.c., comma 3, ai fini del rapporto fra Sezione Semplice e Sezioni Unite, è la condivisione del medesimo principio di diritto, cui può pervenirsi anche mediante processi argomentativi diversi. Anche a questo contribuisce quella che è stata definita “nomofilachia dinamica”, quale capacità di adattamento e di stabilità (“resilienza” si suole oggi definire) dei principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite alle mutevoli esigenze di un ordinamento in costante evoluzione.

3.4. Le Sezioni Unite, pur affermando che in base al principio di regolarità causale si risponde solo delle conseguenze che appaiono sufficientemente prevedibili al momento dell’azione (o omissione), sono consapevoli della necessità di mantenere una distinzione fra l’accertamento del nesso causale e quello della sussistenza dell’elemento soggettivo del fatto illecito. Per evitare la sovrapposizione delle due nozioni, cui darebbe adito la nozione di prevedibilità, le Sezioni Unite riconducono il metro di valutazione di quest’ultima alle “migliori conoscenze scientifiche del momento” e giungono così ad affermare che la regolarità causale diviene la misura della relazione probabilistica in astratto fra comportamento ed evento dannoso. Il giudizio di non improbabilità dell’evento viene tuttavia effettuato sulla base dell’accertamento della prevedibilità dell’evento ex ante (coerentemente peraltro al parametro, proprio delle teorie classiche della causalità adeguata, dell’idoneità astratta da stabilirsi con giudizio ex ante) e dunque non sulla base della cognizione tecnico-scientifica dell’osservatore (la quale può anche attingere a parametri elaborati successivamente al momento dell’azione o omissione) ma del punto di vista dell’agente, sia pure parametrato alla migliore conoscenza scientifica.

La prevedibilità al momento di compimento dell’azione o omissione, pur nella versione astratta delle regole statistiche e/o scientifiche del momento, riporta la causalità nell’alveo della colpa. La “miglior scienza ed esperienza del momento dell’azione” rappresenta una misura sulla cui base valutare l’avvedutezza dell’agente. Mediante l’accertamento ex ante si riconduce il punto di vista della valutazione dell’esistenza del nesso causale a quello della valutazione esigibile, sulla base delle migliori conoscenze scientifiche, al momento dell’azione, e dunque ad un profilo di responsabilità soggettiva. La causalità viene così informata ad un criterio che rinvia alla colpa. Il giudizio probabilistico, in quanto spiegazione di un processo causale, va formulato oggettivamente, tenendo conto delle uniformità naturali e sociali che sono oggetto del patrimonio di conoscenza umana al tempo in cui il giudizio viene reso e non con riferimento all’epoca dell’azione o omissione oggetto di valutazione. La conoscibilità in astratto, se fatta coincidere con la prevedibilità e la prognosi postuma, non è dunque sufficiente ai fini dell’emancipazione della causalità dalla colpa.

Per liberare il giudizio di causalità da ogni residuo afferente l’elemento soggettivo dell’illecito, insito nell’immanenza della categoria di colpa a quella di previsione, deve mantenersi netta la distinzione fra causalità ed imputazione, la prima espressione della legge scientifica, la seconda espressione della legge giuridica. La causalità attiene al collegamento naturalistico di elementi accertato sulla base delle cognizioni scientifiche o più semplicemente logiche (Cass. 18 aprile 2005, n. 7997 rinvia a “criteri: a) di probabilità scientifica, se esaustivi, b) di logica aristotelica, se appare non praticabile o insufficiente il ricorso a leggi scientifiche di copertura”). L’imputazione corrisponde invece all’effetto giuridico che la norma collega ad un determinato comportamento o fatto sulla base di un criterio di valore. La colpa, quale parametro della condotta, si colloca chiaramente sul versante dell’imputazione. L’aggregazione di dati oggettivi, congiunti l’un l’altro dal nesso funzionale della causa ed effetto, resta indifferente rispetto alla qualificazione della condotta sulla base di un parametro di valutazione. La causalità attiene al piano dell’essere (se è A, allora sarà anche B), l’imputazione inerisce a quello del dover essere (se è A, deve essere B).

Tale è la differenza fra causalità (naturale) ed imputazione (giuridica) che la dottrina della prima metà del secolo scorso, pur non mancando di rilevare che il proprium della nozione di fattispecie legale è il collegamento ad un fatto di determinate conseguenze giuridiche, ha escluso che il dispiegamento degli effetti giuridici possa essere letto mediante il paradigma della causalità, sulla base di due argomenti: la mancanza nelle qualificazioni giuridiche della nota della successione temporale propria della connessione causale e l’eterogeneità di piani fra il fatto (appartenente al mondo delle entità materiali) e gli effetti giuridici (corrispondenti ad una valutazione).

Anche la causalità ricade tuttavia nell’orbita del diritto e ciò si verifica quando ai fini dell’imputazione la norma si avvale anche del principio causalistico. La giuridicizzazione del nesso di causalità procede attraverso il recepimento della legge scientifica da parte di quella giuridica sulla base dei criteri di selezione della norma, che mutano a seconda della branca dell’ordinamento giuridico. Non c’è qui solo la distinzione fra due regole di apprezzamento della prova, “oltre il ragionevole dubbio” nel processo penale e “il più probabile che non” nel processo civile, ma anche la progressiva astrazione dalla causalità in senso naturalistico nel passaggio dal diritto penale al diritto civile. La relativa astrazione dalla causalità naturalistica nella responsabilità civile è dettata dalla circostanza che mentre la causalità penale, in quanto relativa alla responsabilità per il fatto, è orientata nella direzione dell’evento (da cui l’irrilevanza, ovvero l’equivalenza, delle cause concorrenti – art. 41 c.p., comma 1), la causalità civile è relativa alla responsabilità per il danno (da cui l’incidenza della concausa umana colposa ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 1, ed il regresso fra responsabili solidali in base alla gravità della colpa e all’entità delle conseguenze di cui all’art. 2055 c.c., comma 2, con il relativo frazionamento della responsabilità secondo l’efficienza dei singoli apporti, su cui Cass. 11 febbraio 2017, n. 4208).

Mediante la recezione normativa del nesso eziologico si ottengono l’imputazione mediante causalità e l’imputazione mediante colpa, dal cui concorso risulta la responsabilità per il diritto. L’imputazione mediante causalità segue le cognizioni statistico-scientifiche, o più semplicemente logiche, nei limiti in cui il diritto le recepisca. Essa non risente della colpa perchè, pur trattandosi di un’imputazione (nella misura in cui corrisponde ad un collegamento della condotta all’evento stabilito dalla norma), inerisce ad una connessione puramente naturalistica, o tendenzialmente tale (come accade nel diritto civile). Ciò che deve accertarsi è l’oggettiva idoneità della condotta a determinare un evento.

Proprio il comportamento omissivo, apparentemente area di incrocio fra causalità e colpa, rende chiari i confini fra causalità ed imputazione giuridica. Dal punto di vista del sapere causale (e dei propri concetti qualificatori) l’omissione vive in rerum natura perchè il non facere svolge efficacia causale sul piano naturalistico. Già Cass. Sez. U. pen. 10 luglio 2002, Franzese, pur dando atto del persistente contrasto fra la teoria normativa dell’omissione e quella dell’entità materiale, osservava che lo statuto logico del rapporto di causalità nel campo omissivo rimane quello del “condizionale controfattuale”. Come la norma non crea il nesso di causalità, ma lo recepisce selettivamente a seconda della branca dell’ordinamento giuridico, così l’omissione preesiste alla norma. L’obbligo giuridico di impedire un evento (art. 40 c.p., comma 2) rappresenta il momento in cui la norma incorpora la causalità omissiva ai fini dell’imputazione e la rende antigiuridica. Dall’esistenza dell’obbligo giuridico di impedire l’evento dipende non l’efficienza causale dell’omissione, ma la possibilità di imputare l’evento al soggetto. L’imputazione giuridica non toglie che alla produzione del danno il soggetto abbia concorso con la propria omissione, la quale è così efficiente sul piano naturalistico, salvo valutarne l’antigiuridicità se la norma prevede l’obbligo di impedire l’evento. L’inosservanza della norma fonda poi la colpa specifica dell’agente.

Una volta che l’inferenza probabilistica sia stata ricondotta al piano puramente causalistico, viene meno il criterio della prevedibilità, ed il conseguente residuo soggettivistico della colpa che quel criterio porta con sè, e l’accertamento del “più probabile che non” viene svolto non ex ante, assumendo il punto di vista dell’agente sia pure in senso astratto, ma sulla base delle regole statistiche e/o scientifiche (o più semplicemente logiche) del tempo un cui viene formulato il giudizio dall’osservatore, il quale ha il compito, oggettivo e neutrale, di accertare l’esistenza del nesso eziologico. Si tratta di provvedere ad un’esplicazione causale, e non ad una predizione postuma.

3.5. Proprio la materia dei danni da sangue o emoderivati infetti evidenzia la pertinenza al sapere causale del criterio dell’oggettiva idoneità della condotta a determinare un evento, senza alcun riferimento alla c.d. prevedibilità soggettiva. Laddove vigano precetti specifici e precostituiti relativamente al compimento di determinate attività, la regola viene imposta all’agente indipendentemente dalla capacità quest’ultimo di rappresentarsi l’esistenza e la natura del pericolo. La regola è stata posta allo scopo di evitare un determinato rischio, sicchè di tutti gli eventi dannosi che siano realizzazione del rischio in relazione al quale la regola è stata posta l’agente risponde indipendentemente da ciò che potesse prevedere e per il sol fatto della violazione della regola. L’omissione della struttura sanitaria, relativamente ai controlli sull’idoneità del sangue ad essere oggetto di trasfusione, è da reputare causalmente efficiente in ordine all’insorgere dell’infezione e tale omissione è antigiuridica indipendentemente dal criterio della prevedibilità soggettiva perchè regole specifiche, poste allo scopo di evitare il rischio di infezione, imponevano il controllo sul sangue umano. Se si considera che la norma violata mediante l’omissione ha la funzione di prevenire il rischio dell’infezione, la descrizione dell’evento dannoso deve arrestarsi a quest’ultima, e non estendersi alle particolari specificazioni del nome della malattia contratta mediante la trasfusione.

L’efficienza causale dell’omissione della struttura sanitaria è suscettibile di imputazione giuridica in forza dei controlli in materia di sangue umano cui l’autorità amministrativa era tenuta a partire da una normativa assai risalente nel tempo. Vanno richiamate a questo proposito, quanto a fonti risalenti nel tempo, la L. n. 296 del 1958, la L. n. 592 del 1967 ed il D.P.R. n. 1256 del 1971. Il collegamento probabilistico tra la somministrazione del sangue infetto in ambiente sanitario e la patologia insorta va apprezzato non sulla base delle conoscenze scientifiche del momento in cui venne effettuata la trasfusione, stante l’irrilevanza del criterio della prevedibilità soggettiva, ma sulla base di quelle presenti al momento in cui viene svolto l’accertamento dell’esistenza del nesso causale, posto che ciò che deve essere valutato è il collegamento naturalistico fra l’omissione e l’evento dannoso. L’osservatore accerta l’esistenza del nesso eziologico fra trasfusione ed infezione, nominando quest’ultima sulla base delle cognizioni scientifiche del proprio tempo, che hanno consentito di identificare le malattie tipiche (HBV, HCV, HIV), ma ciò che rileva ai fini dell’apprezzamento causalistico è l’evento obiettivo dell’infezione. Il giudizio in ordine all’eziologia dell’infezione viene reso in base alle cognizioni del tempo, e perciò nominando l’infezione in base alle conoscenze acquisite al tempo della valutazione, ma il problema del nesso causale coincide integralmente con quello della derivazione probabilistica dell’infezione dalla trasfusione, a prescindere dalla sua specificazione in termini di malattia tipica (HBV, HCV, HIV).

All’elemento soggettivo dell’illecito resta da ascrivere l’incauta somministrazione in assenza dei doverosi controlli, che comprendono “il dovere di adoperarsi per evitare o ridurre un rischio che è antico quanto la necessità della trasfusione”. Una volta acquisita al processo la circostanza dell’incauta somministrazione in violazione di specifiche regole, diventa onere della struttura sanitaria dimostrare, sempre sul piano soggettivo dell’illecito, di aver utilizzato sacche di sangue opportunamente controllate secondo tutti i canoni normativi.

Va in conclusione affermato che “in materia di danni da sangue e emoderivati infetti l’indagine sul nesso di causalità ha ad oggetto la derivazione probabilistica dell’infezione, quale evento di danno, dalla trasfusione, a prescindere dalla sua specificazione in termini di malattia tipica (HBV, HCV, HIV)”.

4. Con il quarto motivo del ricorso incidentale si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1241, 1242, 1243, 2043 e 2059 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Osserva il ricorrente che, nonostante C.G. non avesse mai contestato di avere ricevuto l’indennizzo ai sensi della L. n. 210 del 1992, il giudice di appello ha escluso la compensazione sul presupposto che non fosse stata data prova dell’effettiva erogazione e che, non essendo controversa la percezione dell’indennizzo, la corte territoriale avrebbe dovuto limitarsi a riconoscere la compensazione, lasciando alla fase esecutiva l’effettuazione dello scorporo dall’importo risarcitorio della somma ricevuta a titolo di indennizzo.

4.1. Il motivo è inammissibile. La censura presuppone un fatto processuale che non è stato accertato dal giudice di merito. Questi si è limitato ad osservare che nella controversia in esame la quantificazione dell’indennizzo non può essere operata mancando in atti elementi sufficienti per l’individuazione del suo esatto ammontare. Non ha il giudice di appello accertato che il danneggiato avesse riscosso l’indennizzo previsto dalla legge. Peraltro, ove si ritenga che il ricorrente abbia fatto appello al c.d. principio di non contestazione (ora positivizzato dall’art. 115 c.p.c.), la censura resterebbe comunque inammissibile. Quando il motivo di ricorso per cassazione si fondi sul rilievo che la controparte avrebbe tenuto condotte processuali di non contestazione, per consentire alla Corte di legittimità di prendere cognizione delle doglianze ad essa sottoposte, il ricorso, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, deve sia indicare la sede processuale di adduzione delle tesi ribadite o lamentate come disattese, sia contenere la trascrizione dei relativi passaggi argomentativi (Cass. 9 agosto 2016, n. 16655).

4.2. Per il resto il giudice di merito si è attenuto al principio di diritto secondo cui nel giudizio promosso nei confronti del Ministero della Salute per il risarcimento del danno conseguente al contagio da virus HBV, HIV o HCV a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto, l’indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992, non può essere scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno (compensatio lucri cum damno), qualora non sia stato corrisposto o quantomeno sia determinato o determinabile, in base agli atti di causa, nel suo preciso ammontare, posto che l’astratta spettanza di una somma suscettibile di essere compresa tra un minimo ed un massimo, a seconda della patologia riconosciuta, non equivale alla sua corresponsione e non fornisce elementi per individuarne l’esatto ammontare, nè il carattere predeterminato delle tabelle consente di individuare, in mancanza di dati specifici a cui è onerato chi eccepisce il lucrum, il preciso importo da portare in decurtazione del risarcimento (Cass. 14 giugno 2013, n. 14932).

Ha poi affermato Cass. 28 febbraio 2014, n. 47885, sempre a proposito dell’indennizzo in discorso: “nè può dirsi che la relativa attività di determinazione sia rimessa alla fase di esecuzione o con il richiamo a formule di eventualità: la parte attrice ha diritto ad un titolo esecutivo per un credito certo e liquido ed è compito del giudice pronunziare la condanna che tenga conto di tutti gli elementi che le parti gli hanno dato o avrebbero avuto l’onere di dargli, senza che possa sopperire una cd. etero integrazione del titolo stesso in un momento successivo; al riguardo, il principio di cui a Cass. Sez. Un. 2 luglio 2012, n. 11066, si riferisce alla possibilità di colmare lacune nella formulazione del titolo derivanti dalla mancata riproduzione in esso delle soluzioni alle questioni già legittimamente affrontate nel corso del giudizio, ma non anche a quella di introdurre successivamente al titolo, superando le barriere preclusive processuali consacrate nel giudicato, l’allegazione e la prova di fatti non allegati e tanto meno provati dalla parte onerata; 7.3. d’altra parte, l’astratta spettanza di una somma suscettibile di essere compresa tra un limite minimo e massimo a seconda della patologia riconosciuta non equivale all’effettiva sua corresponsione e non fornisce elementi per individuare l’esatto ammontare del credito per indennizzo: sicchè il carattere predeterminato della tabella di quest’ultimo non consente di individuare, in mancanza di dati specifici di cui è onerato colui che eccepisce il lucrum, il preciso importo della somma da portare in decurtazione del risarcimento; 7.4. era quindi onere del ministero, che opponeva la – pure pienamente ammissibile – compensatio, fornire prova dell’effettiva corresponsione dell’indennizzo e della sua entità: in mancanza di tanto, in modo corretto la corte territoriale ha escluso l’invocata decurtazione del risarcimento”.

5. Passando al ricorso incidentale, con l’unico motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2056 e 2059 c.c., art. 32 Cost., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la ricorrente in via incidentale che il danno biologico è stato riconosciuto sulla base della CTU nella misura del 30% e non nella maggior misura del 48-50% riconosciuto dal consulente di parte e che il danno non patrimoniale era stato fatto coincidere con il danno biologico, senza considerare anche il danno morale e quello esistenziale alla vita di relazione.

5.1. Prima dell’adunanza camerale è intervenuta rituale rinuncia al ricorso incidentale. Ne discende, relativamente a tale rapporto processuale, l’estinzione del processo.

6. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Quanto al rapporto processuale con Nicolina F., la rinuncia al ricorso incidentale da parte di quest’ultima e la cessazione della materia del contendere quanto al ricorso principale costituiscono giusto motivo di compensazione delle spese processuale.

Nei casi di impugnazione respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile, l’obbligo di versare, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, non può trovare applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (da ultimo Cass. 29 gennaio 2016, n. 1778).

PQM

 

Dichiara l’inammissibilità del ricorso principale nei confronti di F.N. e l’estinzione del processo relativamente al ricorso incidentale proposto da quest’ultima; rigetta per il resto il ricorso principale.

Condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti B.M., Be.Ro., C.G., M.D. e S.M., delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; dispone la compensazione delle spese quanto al rapporto processuale con F.N..

Dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente in via principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, il 7 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2017

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