Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17084 del 08/08/2011

Cassazione civile sez. lav., 08/08/2011, (ud. 04/05/2011, dep. 08/08/2011), n.17084

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 121/2009 proposto da:

DHL EXPRESS ITALY SRL, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE TRE MADONNE 8,

presso lo studio dell’avvocato MARAZZA Marco, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato ZAMBELLI ANGELO, giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

B.N., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

DELL’UNIVERSITA’ N. 11, presso lo studio dell’avvocato FABBRI

Francesco Luigi, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 6853/2007 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 18/12/2007, R.G.N. 6408/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/05/2011 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito l’Avvocato MAURIZIO MARAZZA per delega MARCO MARAZZA;

udito l’Avvocato FRANCESCO LUIGI FABBRI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VELARDI Maurizio, che ha concluso per il rigetto di entrambi i

ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 19/10 – 18/12/07 la Corte d’Appello di Roma accolse l’appello proposto da B.N. avverso la sentenza n. 15868/06 del giudice del lavoro del Tribunale di Roma, con la quale era stata respinta la domanda di quest’ultima diretta alla reintegra nelle mansioni precedentemente svolte alle dipendenze della DHL Express s.r.l. fino all’ottobre del 2003 di “commercial and service analysis support” o in altre ad esse equivalenti, e dichiarò il diritto della ricorrente allo svolgimento di tali mansioni, condannando la società convenuta al risarcimento del danno, nella misura di 1/3 delle differenze tra il trattamento economico proprio del terzo livello contrattuale e quelle del secondo livello a decorrere dallo stesso mese di ottobre del 2003 sino alla effettiva reintegra nelle superiori mansioni, oltre che alle spese dell’intero giudizio.

La Corte addivenne a tale decisione dopo aver escluso che nella fattispecie fosse intervenuto un patto di demansionamento e dopo aver constatato che dalle stesse allegazioni difensive della società si evinceva che le mansioni alle quali era stata adibita l’appellante a seguito della riorganizzazione aziendale erano limitate ad un meccanico controllo di corrispondenza delle indicazioni inserite nel computer con quelle riportate nella spedizione o nelle altrettante meccaniche operazioni relative all’accettazione delle spedizioni ed al sollecito dei clienti per il loro ritiro, a fronte di quelle precedentemente svolte di analista dei dati, senza che la controparte avesse nemmeno provato di non aver avuto altri posti disponibili comportanti mansioni equivalenti a quelle già svolte in passato dalla lavoratrice. Nel contempo, il giudicante respinse la richiesta di danni all’immagine ed alla vita di relazione avanzata da quest’ultima, non potendo tali conseguenze discendere automaticamente dal demansionamento in mancanza di una prova della loro verificazione.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la DHL Express s.r.l che affida l’impugnazione a quattro motivi di censura.

Resiste con controricorso la B. la quale propone, a sua volta, ricorso incidentale per una diversa quantificazione del danno liquidatole e per il riconoscimento del diritto alle altre voci di danno non accolte nel giudizio d’appello. La ricorrente principale resiste al ricorso incidentale ed entrambe le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente va disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

1. Col primo motivo del ricorso principale viene denunziata l’omessa motivazione in merito all’eccezione di inammissibilità del ricorso d’appello, eccezione che fu sollevata per la dedotta mancanza di specifica indicazione dei motivi di gravame in violazione del disposto di cui all’art. 434 c.p.c.. In pratica, la società lamenta il fatto che la Corte d’appello ha ignorato l’eccezione in parola omettendo qualsiasi pronunzia in merito alla stessa ed evidenzia, nel contempo, che l’inammissibilità del gravame, in ordine alla quale il giudice di secondo grado era stato sollecitato a pronunziarsi, era stata denunziata in quanto la B. si era limitata a dolersi del mancato accoglimento delle tesi esposte col ricorso introduttivo del giudizio senza dedurre, tuttavia, eventuali profili di erroneità o di contraddittorietà della sentenza impugnata e senza contrapporre argomentazioni a quelle sviluppate nella decisione impugnata.

Osserva, tuttavia, la Corte che tale motivo, avente ad oggetto la denunzia di un vizio di omessa pronunzia su di una eccezione sollevata nel giudizio d’appello, come tale riconducibile alla previsione di cui all’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, si conclude senza la formulazione del quesito di diritto prescritto a pena di inammissibilità dall’art. 366 bis c.p.c..

Come, infatti, si è già avuto modo di statuire di recente (Cass. sez. lav. n. 4146 del 21/2/2011) “il motivo di ricorso per cassazione con cui si denuncia la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., da parte del giudice di merito, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 4, deve essere concluso in ogni caso con la formulazione di un quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., che non può essere generica (esaurendosi nella enunciazione della regola della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato), nè può omettere di precisare su quale questione il giudice aveva omesso di pronunciare o aveva pronunciato oltre i limiti della domanda”.

Tale decisione conferma quanto già precedentemente affermato con Ordinanza n. 4329 del 23/2/2009 della sezione 3^ di questa Corte, con la quale si era precisato che “il motivo di ricorso per cassazione con cui si denuncia la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., da parte del giudice di merito, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 4), deve essere concluso in ogni caso con la formulazione di un quesito di diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., anche quando l’inosservanza del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato sia riferibile ad un’erronea sussunzione o ricostruzione di un fatto processuale implicanti la violazione di tale regola, essendo necessario prospettare, pure in tale ipotesi, le corrette premesse giuridiche in punto di qualificazione del fatto. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso con il cui generico quesito di diritto si chiedeva se il giudice di appello avesse violato l’art. 112 cod. proc. civ., adottando la sua decisione senza procedere all’esame dei motivi su cui si fondava l’impugnazione, ed individuare, neppure sinteticamente, il motivo o i motivi di appello di cui si assumeva omesso l’esame)”.

Invero, non può ritenersi sufficiente la sola indicazione del tipo di eccezione sulla quale il giudice d’appello era stato chiamato a pronunziarsi, senza una adeguata illustrazione, attraverso la formulazione del prescritto quesito di diritto, nella fattispecie omesso, delle ragioni per le quali la suddetta eccezione di inammissibilità era stata sollevata e che avrebbero potuto renderla eventualmente meritevole di accoglimento, in quanto l’assoluta genericità del riferimento alla mancata prospettazione, da parte dell’appellante, di eventuali profili di erroneità o di contraddittorietà della sentenza impugnata, non altrimenti specificati, nè supportati dalla indicazione di una “regula iuris” che avrebbe dovuto essere seguita dal giudicante, non consente di verificare se realmente sussistevano i presupposti per affermare che il giudice d’appello era incorso nel denunziato vizio di omessa pronunzia, non potendosi nemmeno escludere, data la genericità dell’eccezione, una ipotesi di implicito rigetto.

Ne consegue che il motivo in esame è inammissibile.

2. Col secondo motivo la società denunzia l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in merito all’asserita sussistenza di un demansionamento della B. contestando, anzitutto, che questo potesse evincersi dagli scritti difensivi delle parti, così come ritenuto nell’impugnata sentenza, stante la dedotta equivalenza delle mansioni assegnate alla lavoratrice a quelle precedentemente svolte dalla medesima, il tutto in ossequio alla norma di cui all’art. 2103 c.c., e nell’intento di preservare alla controparte la posizione lavorativa all’esito della riorganizzazione aziendale; quanto al patto di demansionamento, ritenuto sussistente solo dal primo giudice a giustificazione del convincimento della infondatezza della domanda della lavoratrice, la ricorrente spiega che si era trattato, in realtà, di un mero espediente difensivo teso a ricondurre la fattispecie in esame in una ipotesi residuale e subordinata, quale alternativa estrema al licenziamento accettato anche senza riserve dalla lavoratrice, qualora il Tribunale adito avesse voluto escludere la equipollenza delle nuove mansioni alle vecchie; pertanto, secondo tale ricostruzione, la Corte d’appello non avrebbe potuto trarre dal convincimento della insussistenza del patto di demansionamento elementi per addivenire alla conclusione che nel propugnare una tale tesi la datrice di lavoro aveva finito per ammettere implicitamente il dato di fatto dell’avvenuto demansionamento; ne conseguiva, che nemmeno potevano sussistere i presupposti per il preteso risarcimento dei danni.

Osserva la Corte che tale motivo è infondato.

Invero, si è in presenza di deduzioni aventi ad oggetto una richiesta di rivisitazione del merito che non si giustifica alla luce delle argomentate e logiche motivazioni adottate sul demansionamento nella sentenza impugnata.

Invero, come è stato già statuito da questa Corte (Cass. sez. lav.

n. 2272 del 2/2/2007), “il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5), è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice dì merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse”.

Orbene, nella fattispecie in esame può tranquillamente affermarsi che, nel loro complesso, le valutazioni del materiale probatorio operate dal giudice d’appello appaiono sorrette da argomentazioni logiche e perfettamente coerenti tra di loro, oltre che aderenti ai risultati fatti registrare dalla valutazione delle allegazioni difensive della medesima società su punti qualificanti della controversia, per cui le stesse non meritano affatto le censure di omessa, insufficiente e contraddittoria disamina mosse coi presente motivo di doglianza.

Invero, il giudice d’appello ha fatto riferimento, anzitutto, ad un dato incontrovertibile, quale quello dell’argomento difensivo della società basato sul cosiddetto patto di demansionamento, per ricavarne la deduzione logica che in ogni caso vi era stato un demansionamento; inoltre, la Corte territoriale ha messo in rilievo che la società convenuta non aveva mai contestato la diversa tipologia delle nuove mansioni fatte svolgere alla lavoratrice, aggiungendo che anche a voler prendere come riferimento quelle indicate dalla stessa datrice di lavoro, in luogo di quelle menzionate nel ricorso introduttivo della lavoratrice, comunque si evinceva dalla documentazione in atti la natura decisamente inferiore delle seconde rispetto alle prime; infine, la società non aveva fornito la prova, su essa incombente, della inesistenza all’interno dell’azienda di altri posti comportanti mansioni equivalenti.

3. Col terzo motivo la ricorrente principale deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 6 c.c.n.l. trasporto, spedizione merci e logistica del 13/6/00, sostenendo che nel ritenere sussistente il lamentato demansionamento il giudice d’appello ha ignorato tale declaratoria contrattuale.

Si osserva che il motivo è infondato per la ragione che l’autonoma “ratio decidendi” della sentenza sul punto è basata sul fatto che le stesse allegazioni difensive della società, incentrate essenzialmente sulla presunta legittimità dell’asserito patto di demansionamento, contenevano l’implicita ammissione che un demansionamento si era, comunque, verificato, per cui sarebbe stata superflua una ulteriore indagine condotta alla luce della declaratoria contrattuale, senza considerare che, oltretutto, rimane incontestato il tipo di mansioni svolte in precedenza dalla B. e rispetto alle quali è stato ravvisato, attraverso le congrue argomentazioni logiche di cui al motivo precedente, il demansionamento oggetto di causa.

4. In ultima analisi ed in via subordinata si deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., sostenendosi che, contrariamente a quanto argomentato nell’impugnata sentenza, vi era stata una equivalenza delle mansioni successivamente svolte dalla B. rispetto a quelle iniziali ed evidenziandosi, altresì, che non poteva prescindersi dalla necessità di operare un bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti in presenza di una reale ristrutturazione aziendale, tanto più che l’adibizione a mansioni diverse ed anche inferiori, fermo restando impregiudicato il livello retributivo conseguito, scongiurava il rischio di un sicuro licenziamento.

Anche quest’ultimo motivo si rivela infondato, in quanto non supera il rilievo di fondo svolto in sentenza e congruamente motivato in ordine alla mancata dimostrazione, da parte della datrice di lavoro che ne era onerata, dell’inesistenza di mansioni alternative equivalenti all’interno del complesso aziendale.

Col ricorso incidentale la lavoratrice si duole sia della quantificazione del danno nella misura liquidata dal giudice d’appello che del mancato riconoscimento del danno all’immagine ed alla vita di relazione.

Al riguardo vengono posti i seguenti quesiti di diritto: – Costituisce violazione dell’art. 2729 c.c. e art. 432 c.p.c., oltre che falsa applicazione degli artt. 2, 4, 32 Cost., e art. 2103 c.c., la decisione che, avendo accertato l’avvenuto demansionamento del lavoratore dipendente, limiti il danno contrattuale alla misura di un terzo della differenza retributiva tra le tariffe proprie della qualifica superiore rivestita dal dipendente stesso e quelle corrispondenti alla qualifica inferiore alla quale era stato adibito contro la sua volontà, pur avendo statuito che questo contegno aveva vulnerato la capacità derivante da un esercizio prolungato? Costituisce violazione degli artt. 2, 4, 32 Cost., oltre che delle altre norme sopra elencate ed in particolare dell’art. 2729 c.c., la decisione che, pur essendo stata prospettata, in maniera specifica e dettagliata la conseguenza del ricordato demansionamento sotto il profilo del cosiddetto “danno esistenziale”, ammesso al risarcimento in virtù della lesione, in ambito di responsabilità contrattuale, di diritti inviolabili e quindi di ingiustizia costituzionalmente qualificata, mediante riferimento alle mansioni di “analista” che la lavoratrice svolgeva pacificamente rispetto a quelle di dipendente “isolata” adibita a mansioni di call-center, allegandosi in tal modo esplicitamente un “vulnus” all’immagine della lavoratrice ed alla sua vita di relazione nell’ambito della comunità aziendale, abbia omesso totalmente di disporre il dovuto risarcimento, negandone la spettanza? Il motivo è infondato. Anzitutto, il quesito non offre elementi sufficienti a far ritenere che possa dirsi affetto da vizi di carattere logico-giuridico l’iter argomentativo adoperato dal giudice d’appello nell’avvalersi dei poteri equitativi per la liquidazione del danno di natura professionale che appare, invece, correttamente e congruamente eseguita sulla scorta dei dati emersi dagli atti di causa con particolare riferimento alla durata del demansionamento stesso; inoltre, in maniera altrettanto corretta, il giudice d’appello ha affermato di non poter liquidare il danno all’immagine ed alla vita di relazione, non avendo la lavoratrice fornito la prova di tali voci di danno che non potevano certamente scaturire automaticamente dall’accertato demansionamento, per cui la decisione impugnata non merita le censure sollevate col ricorso incidentale.

Al riguardo si è, infatti, affermato (Cass., sez. lav., 10-04-1996, n. 3341) che “l’esercizio in concreto del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità quando la motivazione della decisione dia adeguatamente conto delle ragioni sia del ricorso al criterio equitativo, sia l’uso di tale facoltà discrezionale, indicando il processo logico e valutativo seguito”.

Si è, inoltre, statuito (Cass., sez. lav., 02-11-2001, n. 13580) che “in caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell’art. 2103 c.c., il giudice del merito, con apprezzamento dì fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico- giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla durata della qualificazione e alle altre circostanze del caso concreto”.

Infine, le sezioni unite di questa Corte (Cass. sez. un. n. 6572 del 24/3/2006) hanno chiaramente evidenziato che “in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale – non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale – da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno – va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) – il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico – si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove”.

Pertanto, sia il ricorso principale che quello incidentale vanno rigettati.

La reciproca soccombenza delle parti induce la Corte a ritenere interamente compensate tra le stesse le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e rigetta sia il ricorso principale che quello incidentale. Spese del giudizio compensate.

Così deciso in Roma, il 4 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 8 agosto 2011

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