Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17083 del 12/08/2016


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Cassazione civile sez. I, 12/08/2016, (ud. 28/06/2016, dep. 12/08/2016), n.17083

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPPI Aniello – Presidente –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1629/2011 proposto da:

B.T. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA FLAMINIA 213, presso l’avvocato ROMOLO REBOA,

rappresentato e difeso dall’avvocato ROSALIA CIPOLLETTA FABBRI,

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO MARIOTTI S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del Curatore

avv. C.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA F.

CORRIDONI 7, presso l’avvocato LUIGI PETTINARI, rappresentato e

difeso dall’avvocato ANDREA MEDICI, giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ANCONA, depositato il 01/12/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/06/2016 dal Consigliere Dott. MAURO DI MARZIO;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato S. TRIVELLI, con delega, che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito, per il controricorrente, l’Avvocato A. MEDICI che si riporta;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SORRENTINO Federico, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

p.1. – Con decreto del 1 dicembre 2010 il Tribunale di Ancona ha respinto l’opposizione allo stato passivo proposta da B.T. nei confronti del Fallimento Mariotti S.r.l. in liquidazione.

A fronte del reclamo rivolto dal B. contro il decreto di reiezione della domanda di insinuazione al passivo per l’importo di 47.402,81 in privilegio ai sensi dell’art. 2751 bis c.c., n. 1, a titolo di TFR, avanzata dallo stesso B. sull’assunto di aver lavorato alle dipendenze della società fallita, domanda disattesa in considerazione della sua qualità di associato in partecipazione di Mariotti S.r.l., il Tribunale:

-) ha disatteso le istanze istruttorie avanzate dal B.;

-) ha evidenziato che il B. aveva sempre percepito compensi mensili correlati al fatturato lordo, compensi dunque caratteristici del rapporto di associazione in partecipazione e di importo superiore a quello contemplato dai contratti collettivi nazionali di categoria per l’ipotesi di rapporti di lavoro subordinato;

-) ha sottolineato che, come risultante dai documenti versati dalla Curatela, il B. aveva ricevuto la rendicontazione mensile dell’attività della società, mai contestata;

-) ha aggiunto che la condotta del B., il quale non aveva contestato la natura simulata del rapporto di lavoro intercorso con Mariotti S.r.l. sotto forma di associazione in partecipazione, protrattosi per un lunghissimo periodo di tempo, faceva presumere che in effetti detto rapporto fosse non già simulato ma vero e reale.

p.2. – Per la cassazione del decreto B.T. ha proposto ricorso affidato ad un solo motivo illustrato da memoria.

Il Fallimento Mariotti Srl in liquidazione ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p.3. Il ricorso contiene un solo motivo svolto sotto la rubrica: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 2967 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, nonchè violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2099 c.c., e art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”.

Sostiene il B., riassunti i criteri distintivi del rapporto di lavoro subordinato, di aver capitolato una prova testimoniale diretta a dimostrare le effettive modalità di espletamento della prestazione di lavoro, prova che il Tribunale avrebbe erroneamente qualificato come superflua, essendo essa viceversa essenziale per stabilire la natura del rapporto lavorativo intercorrente tra le parti.

Viene altresì affermato nel motivo che il Tribunale:

-) avrebbe errato a non attribuire rilievo probatorio alla circostanza che l’Inps di Pesaro, a seguito di controlli espletati presso il datore di lavoro, aveva riconosciuto al B. lo status di lavoratore dipendente per il periodo 1997-2006;

-) avrebbe errato nell’omettere di considerare i cartellini-orario, in parte versati e allegati al ricorso introduttivo del giudizio, tali da dimostrare che tutti gli associati in partecipazione, come i dipendenti, erano obbligati all’osservanza di un rigido orario di lavoro.

Così ragionando, secondo il B., il Tribunale avrebbe in definitiva desunto la natura del rapporto dalla mera denominazione utilizzata al momento della conclusione del contratto.

Prosegue il ricorrente osservando che il Tribunale aveva rigettato anche la richiesta di produzione del rendiconto, non avvedendosi che quelli depositati in causa dalla controparte non potevano qualificarsi come rendiconti, i quali altro non erano che conti mensili, tali da non consentire l’esercizio di alcun controllo diretto sulla contabilità sociale.

Si lamenta, infine, che il Tribunale abbia disatteso l’istanza di esibizione ex art. 210 c.p.c., concernente i bilanci della società, per il fatto che detti bilanci potevano essere acquisiti dallo stesso interessato: nondimeno il Tribunale aveva riconosciuto che, anche laddove prodotti, non sarebbe stato possibile determinare la. parte riferibile all’officina in quanto il bilancio della Mariotti S.r.l. era unitario non essendoci al suo interno un’officina considerata come autonomo reparto o ramo di azienda.

p.4. – Il ricorso è inammissibile.

Esso è congegnato come ricorso composito, contenente la simultanea denuncia di violazione di legge e di vizio di motivazione.

E, tuttavia, nessuna comprensibile violazione di legge emerge dal contenuto della doglianza. Ed infatti, la violazione della legge, intesa in generale, si articola nei due momenti ai quali si riferisce l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ossia la violazione in senso proprio e la falsa applicazione: a) l’una concernente la ricerca e l’interpretazione della norma regolatrice del caso concreto; b) l’altra concernente l’applicazione della norma stessa al caso concreto, una volta correttamente individuata ed interpretata. In relazione al primo momento, il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella erronea negazione o affermazione dell’esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non ha riguardo alla fattispecie in essa delineata; con riferimento al secondo momento, il vizio di falsa applicazione di legge consiste, alternativamente: a) nel sussumere la fattispecie concreta entro una norma non pertinente, perchè, rettamente individuata ed interpretata, si riferisce ad altro; b) nel trarre dalla norma in relazione alla fattispecie concreta conseguenze giuridiche che contraddicano la sua pur corretta interpretazione (in questi termini Cass. 26 settembre 2005, n. 18782). Ricorre insomma la violazione ogni qualvolta vi è un vizio nella individuazione o nell’attribuzione di significato ad una disposizione normativa; ricorre invece la falsa applicazione qualora l’errore si sia annidato nella individuazione della esatta portata precettiva della norma, che il giudice di merito abbia applicato ad una fattispecie non corrispondente a quella descritta nella norma stessa.

Dalla violazione o falsa applicazione di norme di diritto va tenuta distinta la denuncia dell’erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, ricognizione che si colloca al di fuori dell’ambito dell’interpretazione e applicazione della norma di legge. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (da ult. tra le tante Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110).

Nel caso in esame, dunque, è del tutto palese che il B., tenuto conto della sintesi del motivo precedentemente effettuata, non ha addebitato al Tribunale di avere travisato il significato delle norme richiamate in rubrica, bensì di aver male amministrato il materiale probatorio disponibile, disattendendo erroneamente le istanze istruttorie proposte, così da pervenire per tale via alla errata conclusione che esso B. avesse stipulato con Mariotti S.r.l. non già un contratto di lavoro subordinato, bensì un contratto di associazione in partecipazione.

La doglianza, dunque, contiene in effetti la denuncia di un vizio motivazionale, riconducibile all’art. 360 c.p.c., n. 5, richiamato in rubrica.

Ora, il vizio di motivazione è evidentemente insussistente.

In generale, in tema di ricorso per cassazione, il riferimento – contenuto nell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2, applicabile ratione temporis) – al “fatto controverso e decisivo per il giudizio” implica che la motivazione della quaestio facti sia affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che sia tale da determinare la logica insostenibilità della motivazione (Cass. 20 agosto 2015, n. 17037). Lo scrutinio effettuato dalla Corte di cassazione non può riguardare il convincimento in sè stesso del giudice di merito, come tale incensurabile, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, il che si tradurrebbe in un complessivo riesame del merito della causa (Cass., n. 14929/2012; Cass., n. 5205/2010; Cass., n. 10854/2009; Cass., n. 5066/2007; Cass., n. 3881/2006). Il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non equivale dunque alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.

Ciò detto, la giurisprudenza considera questione di fatto la distinzione tra associazione in partecipazione e lavoro subordinato. Ed invero, la riconducibilità del rapporto di lavoro al contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato ovvero al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili, esige un’indagine del giudice di merito volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo implica l’obbligo del rendiconto periodico dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa, il secondo comporta un effettivo vincolo di subordinazione più ampio del generico potere dell’associante di impartire direttive e istruzioni al cointeressato, con assoggettamento al potere gerarchico e disciplinare di colui che assume le scelte di fondo dell’organizzazione aziendale (Cass. 29 gennaio 2015, n. 1692; v. pure Cass. 28 gennaio 2013, n. 1817).

Il principio che precede, inoltre, va calato nella vicenda processuale in esame considerando che il preteso creditore il quale proponga opposizione allo stato passivo, dolendosi dell’esclusione di un credito del quale aveva chiesto l’ammissione, è onerato della prova dell’esistenza del credito medesimo, secondo la regola generale stabilita dall’art. 2697 c.c., comma 1 (v. per vari aspetti Cass. 14 luglio 2014, n. 16101; Cass. 16 gennaio 2012, n. 493; Cass. 6 novembre 2013, n. 24972; Cass. 14 ottobre 2010, n. 21251).

Ecco, allora, che la motivazione adottata dal Tribunale risponde ai principii ricordati, e non solo non è insostenibile, ma è del tutto plausibile, avendo il giudice del merito valorizzato:

i) la circostanza che il B. avesse percepito compensi mensili correlati al fatturato lordo addebitato alla clientela, con una conseguente oscillazione in ragione dell’alea di impresa che caratterizza i contratti di associazione in partecipazione;

ii) la circostanza che il B. avesse ricevuto la rendicontazione mensile dell’attività dell’officina, mai contestata;

iii) la circostanza che il B. non avesse mai denunciato la natura simulata del contratto di associazione in partecipazione, nonostante la lunghissima protrazione del rapporto, a decorrere dal 1985.

E’ dunque evidente che, a fronte di tale motivazione, il B. ha sollecitato una complessiva revisione del merito della controversia, revisione che, in ossequio ai principi prima ricordati, è interdetta a questa Corte.

Ciò esime dall’osservare che, con riguardo alla deliberazione dell’Inps di Pesaro di riconoscere al B. lo status di lavoratore dipendente per il periodo 1997-2006, nonchè ai cartellini-orario menzionati, il ricorso difetta altresì del requisito dell’autosufficienza, giacchè il contenuto di tale deliberazione e dei cartellini non emerge con precisione dal ricorso. Eguale considerazione vale per i rendiconti mensili, giacchè non si comprende quali elementi non risulterebbero dalla menzionata documentazione, che invece avrebbero potuto desumersi dai rendiconti annuali.

D’altronde, quanto alla mancata ammissione dei mezzi di prova, vale ulteriormente osservare che il Tribunale non ha giudicato superflua la prova testimoniale dedotta dal B. ma l’ha invece ritenuta non rilevante per la genericità dei capitoli, diretti a provare circostanze riferibili a soggetti estranei al giudizio, eccezion fatta per il capitolo numero 18, comunque ininfluente ai fini della decisione. A fronte di ciò l’inammissibilità della censura, per quanto riguarda la mancata ammissione della prova testimoniale, discende dalla circostanza che il ricorrente non ha colto la ratio decidendi posta dal giudice di merito a sostegno della decisione adottata.

La parte finale della censura è poi incomprensibile, giacchè non riesce ad apprezzarsi quale rilievo possa mai avere per fini della decisione la circostanza che i bilanci della società, ove pure acquisiti, non sarebbero stati idonei a dimostrare gli effettivi conti dell’officina.

p.5. – Le spese seguono la soccombenza.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso, in favore del Fallimento controricorrente, delle spese sostenute per questo grado del giudizio, liquidate in complessivi Euro 5200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre Iva e quant’altro dovuto per legge.

Così deciso in Roma, il 28 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 12 agosto 2016

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