Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17076 del 08/08/2011

Cassazione civile sez. un., 08/08/2011, (ud. 24/05/2011, dep. 08/08/2011), n.17076

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Primo Presidente f.f. –

Dott. DE LUCA Michele – Presidente Sezione –

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere –

Dott. CURCURUTO Filippo – Consigliere –

Dott. AMOROSO Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. MORCAVALLO Ulpiano – Consigliere –

Dott. TIRELLI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 32217/2007 proposto da:

S.O. ((OMISSIS)), B.P., nella qualità

di amministratori della OL.PA. s.r.l., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIALE DI VILLA PAMPHILI 59, presso lo studio dell’avvocato

SALAFIA ANTONIO, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato

D’OTTAVIO OTTAVIO, per delega in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto stesso,

rappresentato e difeso dagli avvocati CORRERA FABRIZIO, CALIULO

LUIGI, CORETTI ANTONIETTA, per delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

S.C.C.I. S.P.A., UNIRISCOSSIONI S.P.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 99/2007 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 25/05/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pub. ud. del 24/05/11 dal

Consigliere Dott. GIOVANNI AMOROSO;

udito l’Avvocato Antonio SALAFIA, Lelio MARITATO per delega

dell’avvocato Luigi Caliulo;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. CENICCOLA

Raffaele, che ha concluso per il rigetto, o sospensione in attesa di

decisione della Corte Costituzionale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con ricorso depositato in data 11 luglio 2003 S.O., nella sua qualità di legale rappresentante della società OL.PA. s.r.l., conveniva l’INPS e la Uniriscossioni s.p.a. davanti al Tribunale di Pordenone in funzione di giudice del lavoro, proponendo opposizione avverso la cartella esattoriale notificatale il 2 giugno 2003. avente ad oggetto il pagamento dei contributi previdenziali dovuti alla Gestione Commercianti, per vedersi annullare il credito iscritto a ruolo e revocare il provvedimento impugnato. A sostegno della domanda, la ricorrente precisava di dover essere iscritta nella Gestione Separata di cui alla L. n. 335 del 1995, e non invece nella Gestione Commercianti. In subordine chiedeva la restituzione dei contributi versati nella prima Gestione.

Con un secondo ricorso, depositato il 24 luglio 2003, l’altra socia amministratrice della OL.PA., B.P., conveniva davanti al medesimo Tribunale l’INPS e la Uniriscossioni, impugnando analoga cartella esattoriale notificatale il 23 giugno 2003 e formulando identiche conclusioni.

Con un terzo ricorso, depositato il 24 maggio 2004, la B. conveniva le medesime parti avanti al Tribunale di Pordenone, impugnando, per le stesse ragioni, la cartella esattoriale notificatale il 30 aprile 2004.

Infine, con un ultimo ricorso, depositato il 17 giugno 2004, la S. conveniva l’INPS, la S.C.CI. s.p.a. e la Uniriscossioni davanti allo stesso Tribunale, opponendosi, per le medesime ragioni, alla cartella esattoriale notificatale il 4 giugno 2004.

L’INPS, nel costituirsi in tutti i giudizi anche per la S.C.C.L., insisteva per il rigetto dei ricorsi.

2. Nella contumacia della Uniriscossioni e previa riunione dei giudizi, la causa, istruita documentalmente e con l’audizione dei testi indicati dall’INPS, veniva decisa dal tribunale adito che rigettava i ricorsi in opposizione con conseguente conferma delle cartelle esattoriali impugnate.

Il Tribunale riteneva che, nella specie, l’attività di impresa aveva ad oggetto la gestione di un albergo e vedeva le ricorrenti svolgere non solo attività esecutive (ricezione dei clienti, funzionamento del bar, preparazione delle camere e del servizio colazioni), ma anche l’attività organizzativa e direttiva, di natura intellettuale, distinta da quella manuale e certamente necessaria per il raggiungimento degli scopi sociali e per la realizzazione degli obiettivi aziendali. Anche tale attività di gestione doveva essere considerata lavoro aziendale, alla stregua dell’attività esecutiva, per cui, se svolta in maniera prevalente, e non con saltuarietà o occasionalmente, essa doveva essere assoggettata alla assicurazione obbligatoria nella Gestione Separata introdotta dalla L. n. 662 del 1996. Nel caso di specie, era pacifico – e comunque risultava dalle testimonianze raccolte, tra cui quelle agli ispettori INPS – che la S. e la B., rispettivamente madre e figlia, avevano svolto attività lavorativa manuale presso l’albergo gestito dalla società OL.PA., oltre ad occuparsi della gestione aziendale, sicchè le stesse erano tenute a versare sia il contributo previdenziale del 10% ex L. n. 335 del 1995, quali amministratrici della società e sul compenso percepito a tale titolo, sia quello per l’assicurazione I.V.S. per la personale e prevalente attività esercitata in seno all’azienda sui proventi a tale distinto titolo percepiti.

3. La decisione veniva impugnata dalle originarie opponenti con ricorso di data 21 luglio 2005.

Con l’unico motivo di appello le appellanti contestavano l’interpretazione delle norme di riferimento da parte del giudice di primo grado ed in particolare, sottolineavano che la loro attività prevalente fosse quella gestionale ed amministrativa, talchè non avrebbero potuto essere assoggettati ad una ulteriore contribuzione oltre quella relativa alla Gestione Separata. Sostenevano che la portata della L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 208, cit. doveva considerarsi nella sua portata testuale talchè il criterio unificante dell’attività prevalente doveva ritenersi applicabile in ogni caso di svolgimento di attività autonoma, anche se soggetta all’assicurazione presso la Gestione separata suddetta.

Si costituiva l’Istituto resistente rilevando che le due tipologie di contribuzione in discussione (quella alla Gestione Separata introdotta con L. n. 335 del 1995, e l’assicurazione obbligatoria per commercianti di cui alla L. n. 613 del 1966, successivamente modificata dalla L. n. 662 del 1996) non erano nè in contrasto nè in antitesi tra loro essendo invece sostanzialmente diverse con riferimento sia ai requisiti di appartenenza, sia agli anni necessari per ottenerne le relative prestazioni. L’Istituto sosteneva in diritto che il principio di concentrazione di cui al comma 208 della L. n. 662 del 1996, art. 1, non trovava applicazione in caso di attività autonoma soggetta a contribuzione nella Gestione separata.

4. La Corte d’appello di Trieste con sentenza del 24-25 maggio 2007 rigettava l’appello.

Rilevava la Corte distrettuale che il socio di una società a responsabilità limitata ha l’obbligo di iscrizione alla Gestione assicurativa di cui alla L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 202, ove svolga in seno alla società la propria attività con carattere di abitualità e prevalenza, non valendo ad escludere detto obbligo il fatto che lo stesso sia iscritto anche alla c.d. Gestione separata di cui alla L. n. 335 del 1995 quale amministratore della società medesima. Non v’è, infatti, incompatibilità tra le due iscrizioni, neppure ai sensi della stessa L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 208, il quale riguarda non la situazione di coloro che svolgono due attività egualmente fonte di reddito, ma la posizione di coloro che lavorano all’interno di un’impresa la cui attività potrebbe determinare l’iscrizione sia alla gestione artigiani che a quella commercianti.

5. Avverso questa pronuncia ricorrono per cassazione S. O. e B.P. con tre motivi.

Resiste con controricorso la parte intimata.

Entrambe le parti hanno presentato memoria.

6. Con ordinanza n. 22.557 del 13 ottobre 2010 la sezione lavoro ha rimesso il ricorso al Primo Presidente per l’assegnazione alle sezioni unite rilevando che, dopo che sulla questione posta dal ricorso si sono pronunciate dalle Sezioni Unite con sentenza 12 febbraio 2010 n. 3240, è intervenuta una disposizione di interpretazione autentica, il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 12, comma 11, che ha riaperto il discorso interpretativo talchè è apparso opportuno un nuovo intervento di queste Sezioni Unite.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso è articolato in tre motivi con cui le ricorrenti, denunciando la violazione e falsa applicazione della L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 2, comma 26, e della L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, commi 202, 203 e 208, contestano sotto più profili l’interpretazione che della L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, comma 208, ha dato l’impugnata sentenza della Corte d’appello di Trieste.

Sostengono le ricorrenti che la decisione impugnata è basata su un’interpretazione errata della citata L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 208; disposizione questa che va letta invece nel senso che chi, nell’ambito di una società a responsabilità limitata, svolga attività di socio amministratore e di socio lavoratore, è assoggettato all’obbligo di iscrizione nella sola gestione in cui svolge l’attività prevalente con carattere di abitualità.

Sostengono altresì che nell’esegesi dell’art. 1, comma 208, la corte distrettuale avrebbe dovuto privilegiare l’interpretazione letterale che costituisce il criterio ermeneutico prioritario.

2. Il ricorso i cui tre motivi possono essere esaminati congiuntamente – è infondato.

3. La questione interpretativa, che pone la presente controversia e che, come questione di massima di particolare importanza, ha giustificato l’assegnazione del ricorso a queste sezioni unite ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2, vede come principale riferimento normativo il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 12, comma 11, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, art. 1, comma 1, recante misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica.

Tale disposizione prevede, con norma dichiaratamente di interpretazione autentica: “La L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, comma 208, si interpreta nel senso che le attività autonome, per le quali opera il principio di assoggettamento all’assicurazione prevista per l’attività prevalente, sono quelle esercitate in forma d’impresa dai commercianti, dagli artigiani e dai coltivatori diretti, i quali vengono iscritti in una delle corrispondenti gestioni dell’INPS. Restano, pertanto, esclusi dall’applicazione della L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 208, i rapporti di lavoro per i quali è obbligatoriamente prevista l’iscrizione alla gestione previdenziale di cui alla L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 2, comma 26”.

A sua volta la disposizione interpretata prevedeva nel suo primo periodo: “Qualora i soggetti di cui ai precedenti commi esercitino contemporaneamente, anche in un’unica impresa, varie attività autonome assoggettabili a diverse forme di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, sono iscritti nell’assicurazione prevista per l’attività alla quale gli stessi dedicano personalmente la loro opera professionale in misura prevalente”.

Quindi il criterio dell’attività prevalente”, quale parametro di valutazione per individuare la gestione assicurativa dell’INPS alla quale versare i contributi previdenziali nel caso di svolgimento di plurime attività che, autonomamente considerate, comporterebbero l’iscrizione a diverse gestioni previdenziali, opera per le attività esercitate in forma d’impresa dai commercianti, dagli artigiani e dai coltivatori diretti. Per queste attività vale il criterio (semplificante) dell’attività prevalente per individuare l’unica gestione assicurativa alla quale versare i contributi previdenziali in riferimento anche all’attività non prevalente che, ove esercitata da sola, comporterebbe riscrizione in un’altra gestione assicurativa;

ciò nel concorso con l’assenso dell’INPS che, in ragione del disposto del secondo periodo del medesimo art. 1, comma 208 cit., è chiamato a “decidere” sulla iscrizione nell’assicurazione corrispondente all’attività prevalente.

Questo criterio dell'”attività prevalente” non opera invece – prevede la norma di interpretazione autentica sopra citata – per i rapporti di lavoro – quelli a carattere autonomo – per i quali è obbligatoriamente prevista l’iscrizione alla gestione previdenziale di cui alla L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 2, comma 26; disposizione quest’ultima che ha creato una nuova gestione assicurativa nel complesso sistema della previdenza obbligatoria introducendo l’obbligo assicurativo per i lavoratori autonomi. Ha infatti previsto che a decorrere dal 1 gennaio 1996, sono tenuti all’iscrizione presso una apposita Gestione separata, presso l’INPS, e finalizzata all’estensione dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, i soggetti che esercitano per professione abituale, ancorchè non esclusiva, attività di lavoro autonomo, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 49, comma 1, (Testo Unico delle imposte sui redditi), nonchè i titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, di cui all’art. 49, comma 2, lett. a), del medesimo testo unico e gli incaricati alla vendita a domicilio di cui alla L. 11 giugno 1971, n. 426, art. 36.

Quindi la regola espressa dalla norma risultante dalla disposizione interpretata (L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, comma 208,) e dalla disposizione di interpretazione autentica (D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 12, comma 11) è molto chiara: l’esercizio di attività di lavoro autonomo, soggetto a contribuzione nella Gestione separata, che si accompagni all’esercizio di un’attività di impresa commerciale, artigiana o agricola, la quale di per sè comporti l’obbligo dell’iscrizione alla relativa gestione assicurativa presso l’INPS, non fa scattare il criterio dell'”attività prevalente”;

rimangono attività distinte e (sotto questo profilo) autonome sicchè parimenti distinto ed autonomo resta l’obbligo assicurativo nella rispettiva gestione assicurativa. Non opera il criterio “‘semplificante” (dell’art. 1, comma 208, cit.) e derogatorio – dell’unificazione della posizione previdenziale in un’unica gestione con una sorta di fictio juris per cui chi è ad un tempo commerciante ed artigiano (o coltivatore diretto), con caratteristiche tali da comportare l’iscrizione alle relative gestioni assicurative, è come se svolgesse un’unica attività d’impresa – quella “prevalente” – con la conseguenza che unica è la posizione previdenziale. Si tratta non solo di un criterio di semplificazione – perchè nelle attività “miste” può non essere agevole distinguere ciò che è da qualificare come impresa commerciale, o artigianale, o agricola (si pensi all’artigiano o al coltivatore diretto che abbia anche un’attività di vendita al minuto) – ma anche di un sostanziale beneficio previdenziale perchè il soggetto obbligato vede tutti i suoi contributi accreditati in un’unica gestione, senza quindi che in seguito possa porsi un problema di trasferimento di contributi da una gestione ad un’altra. Va subito detto che in ciò solo sta il beneficio previdenziale, nella concentrazione della posizione contributiva, giacchè nè la disposizione interpretata, nè quella di interpretazione autentica – entrambe dirette solo ad individuare la gestione assicurativa di pertinenza – contengono alcun riferimento ad un esonero contributivo per l’attività “non prevalente”.

Questa essendo quindi la regola espressa dalla norma risultante dalla disposizione interpretata e dalla disposizione di interpretazione autentica, la controversia in esame sarebbe di agevole soluzione perchè il concorso di attività delle ricorrenti è, nella specie, tra quella di lavoro autonomo (come amministratrici della società), soggetta ex se alla contribuzione nella Gestione separata sui compensi a tale titolo percepiti, e quella di socie lavoratrici della società stessa. Quindi la fattispecie non è quella del contemporaneo esercizio dell’attività di commerciante (comprensivo delle nuove figure previste dalla L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 196-197 e 202-202), artigiano o coltivatore diretto, previsto dalla norma suddetta, ma vede un’attività di lavoro autonomo affiancata ad una collaborazione come socio lavoratore nell’impresa, fattispecie quest’ultima per la quale testualmente non opera il criterio dell’attività prevalente”, ma ogni attività segue il suo regime previdenziale; sicchè il ricorso sarebbe destituito di fondamento.

4. La soluzione della controversia però presenta anche delicati profili problematici – essenzialmente in termini di compatibilità con l’art. 6 CEDU – che si vengono ora ad esaminare.

Mette conto ricordare innanzi tutto che la disposizione interpretata (L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, comma 208) dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 12, comma 11, aveva visto la giurisprudenza divisa quanto alla sua portata e da ultimo il contrasto di giurisprudenza era stato composto da questa Corte a Sezioni Unite (Cass., sez. un., 12 febbraio 2010 n. 3240, cit.) che aveva affermato il seguente principio di diritto: “la regola dettata dalla L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 208, – secondo la quale i soggetti che esercitano contemporaneamente, in una o più imprese commerciali, varie attività autonome assoggettabili a diverse forme di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, sono iscritti nell’assicurazione prevista per l’attività alla quale gli stessi dedicano personalmente la loro opera professionale in misura prevalente – si applica anche al socio di società a responsabilità limitata che eserciti attività commerciale nell’ambito della medesima e, contemporaneamente, svolga attività di amministratore, anche unico. In tal caso, la scelta dell’iscrizione nella gestione di cui alla L. n. 335 del 1995, art. 2, comma 26, o nella gestione degli esercenti attività commerciali, ai sensi della L. n. 662, del 1996, art. 1, comma 203, spetta all’Inps, secondo il carattere di prevalenza. La contribuzione si commisura esclusivamente sulla base dei redditi percepiti dall’attività prevalente e con le regole vigenti nella gestione di competenza”.

Quindi il processo di elaborazione giurisprudenziale aveva raggiunto la sua sintesi in un arresto di queste Sezioni Unite sicchè sul punto si era formata una situazione di diritto vivente. La disposizione interpretata, pur avendo originariamente una potenzialità di plurimi significati plausibili (ossia di plurime “norme” espresse dalla “disposizione”: per la distinzione tra “norma” e “disposizione” v. C. cost. n. 84 de 1996 che per prima, sulla base di tale distinzione, ha predicato la trasferibilità ad una “disposizione” successiva della questione di costituzionalità della “norma” veicolata da una precedente disposizione), doveva ritenersi ormai “vivere” (appunto, come diritto “vivente”) nell’ordinamento giuridico con l’unico significato ricostruito dalla citata pronuncia di queste Sezioni Unite.

In questa situazione di una disposizione già “interpretata” dal sistema giudiziario nel suo complesso si pone il problema dell’ammissibilità o no – sul piano costituzionale, ben inteso – di una “interpretazione” ad opera del legislatore che si sovrapponga – e, nella specie, si opponga – a quella dei giudici.

Problema questo che, in una fattispecie seppur diversa, ma, ai fini che interessano, analoga, che vedeva la stessa sequenza (diritto vivente formato dalla giurisprudenza di questa Corte, “neutralizzato” da una successiva disposizione dichiaratamente di interpretazione autentica), è stato posto con ordinanza di rimessione di questa Corte (Cass., sez. lav., 4 settembre 2008, n. 22260) nel mutato quadro costituzionale della riforma del Titolo 5^ della seconda parte della Costituzione che – come è noto – ha prescritto all’art. 117, comma 1, novellato, che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto (oltre che della Costituzione, anche) dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Tale “innovazione” – che muoveva dall’esigenza unanimemente avvertita di dare copertura costituzionale ad un indirizzo asimmetrico della giurisprudenza costituzionale degli anni novanta, che nei giudizi in via incidentale non ammetteva, come parametro interposto, la normativa comunitaria, nè la stessa pregiudiziale interpretativa comunitaria, ed invece nei giudizi in via principale non solo ammetteva che la normativa comunitaria fosse allegata dal ricorrente a parametro interposto, ma procedeva (conseguentemente) alla sua diretta interpretazione – è stata letta dalla più recente giurisprudenza costituzionale (a partire dall’arresto operato dalle note sentenze “gemelle” – sent. n. 348 e 349 del 2007 – e più volte successivamente ribadito: da ultimo sent. n. 236 del 2011) come generale riconoscimento, alla normativa comunitaria ed internazionale, del rango di parametro interposto. Ciò vale soprattutto per la normativa internazionale perchè per quella comunitaria è stata contestualmente riaffermata la dottrina della generale non applicabilità da parte del giudice comune della normativa interna contrastante con quella comunitaria self executing. E, tra la normativa internazionale di rilievo, quella maggiormente interessata dal nuovo arresto giurisprudenziale della Corte costituzionale è la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la L. 4 agosto 1955, n. 848 (CEDU), che ben si presta al “ruolo” di parametro interposto perchè, con la formulazione tipica delle Carte costituzionali, riguarda diritti fondamentali, che ricevono peraltro già protezione dalla Costituzione italiana.

Si tratta inoltre – nel caso della CEDU – non soltanto di un parametro interposto nel giudizio di costituzionalità, ma anche di un parametro la cui portata è in realtà rimessa alla interpretazione della Corte di Strasburgo deputata all’interpretazione di quelle garanzie poste dalla Convenzione. La Corte costituzionale ha infatti più volte affermato che le norme della CEDU devono essere applicate nel significato loro attribuito dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (da ultimo sent. n. 1 e n. 113 del 2011).

Questa “permeabilità” dei parametri di costituzionalità per il tramite dei parametri interposti costituiti dalle norme della CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, è stata da subito contenuta – nella giurisprudenza della Corte costituzionale – con una clausola di riserva, una sorta di dottrina dei controlimiti quale quella in passato enunciata, ed in seguito più volte riaffermata, in riferimento al diritto comunitario: la norma della CEDU cessa di operare come parametro interposto ove, in quella lettura, essa risulti non essere in sintonia con il complessivo bilanciamento di valori costituzionali quale operato dalla Corte costituzionale. La Corte esclude l’idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro costituzionale tutte le volte che “la norma della Convenzione – norma che si colloca pur sempre ad un livello sub- costituzionale – si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione” (così da ultimo C, cost. n. 236 del 2011 cit.).

A ciò si aggiunge l’ulteriore arresto giurisprudenziale (C. cost. n. 80 del 2011) che nega, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con L. 2 agosto 2008, n. 130, la comunitarizzazione della CEDU (in ragione dell’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea, secondo cui le disposizioni della CEDU sono divenute parte integrante del diritto dell’Unione) sicchè – allo stato attuale della giurisprudenza – il giudice comune non è autorizzato a non applicare la normativa interna ritenuta dalla Corte di Strasburgo contrastante con le norme della CEDU, ma deve sollevare la questione di costituzionalità (mutatis mutandis è – per la CEDU – la stessa situazione che in passato c’era per il diritto comunitario prima della nota sentenza n. 170 del 1984 della Corte costituzionale).

5. In questo mutato contesto di controllo di costituzionalità in ragione dell’incidenza delle norme della CEDU si pone la questione della legittimità di una disposizione dichiaratamente di interpretazione autentica, qual è il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 12, comma 11, in riferimento alla garanzia del giusto processo approntata dall’art. 6 CEDU che fa dubitare della possibilità che nel corso del processo mutino le “regole del gioco” – ossia le norme applicabili alla fattispecie concreta – perchè interviene, come jus superveniens con efficacia retroattiva, una diversa regolamentazione della fattispecie astratta.

Sì è già rilevato che la sequenza di una disposizione di interpretazione autentica che neutralizza e ribalta l’interpretazione giudiziale già consolidata in una situazione di diritto vivente è analoga a quella oggetto di una precedente ordinanza di rimessione di questa Corte che ha sollevato l’incidente di costituzionalità (Cass., sez. lav., 4 settembre 2008, n. 22260, cit.).

A questa ha fatto seguito innanzi tutto la sentenza n. 311 del 2009 della Corte costituzionale che ha dichiarato non fondata la questione e, muovendo da un’ampia ricostruzione della giurisprudenza della Corte di Strasburgo sulla portata dell’art. 6 della Convenzione Europea, in relazione alle norme nazionali interpretative concernenti disposizioni oggetto di procedimenti nei quali è parte lo Stato, è pervenuta ad una duplice conclusione di carattere generale quanto all’incidenza del parametro interposto costituito dall’art. 6 CEDU:

a) deve escludersi l’esistenza di un principio secondo cui la necessaria incidenza delle norme retroattive sui procedimenti in corso si porrebbe automaticamente in contrasto con la convenzione Europea; b) queste ultime non sono illegittime ove ricorrano “ragioni imperative di interesse generale” che consentono, nel rispetto dell’art. 6 della Convenzione Europea e nei limiti evidenziati dalla Corte di Strasburgo, interventi interpretativi e retroattivi.

La Corte – che comunque ha ritenuto sussistenti nella fattispecie al suo esame i “motivi imperativi d’interesse generale” – ha poi precisato che “fare salvi i motivi imperativi d’interesse generale che suggeriscono al legislatore nazionale interventi interpretativi nelle situazioni che qui rilevano non può non lasciare ai singoli Stati contraenti quanto meno una parte del compito e dell’onere di identificarli, in quanto nella posizione migliore per assolverlo, trattandosi, tra l’altro, degli interessi che sono alla base dell’esercizio del potere legislativo”. In sostanza quindi c’è in materia una discrezionalità del legislatore che può ritenere sussistenti i “motivi imperativi d’interesse generale” giustificativi di una normativa con efficacia retroattiva.

Successivamente la Corte di Strasburgo (sentenza 7 giugno 2011, Agrati c. Italia, ric. n. 43549/08 e altri), pronunciandosi sulla medesima fattispecie, da una parte ha ribadito in generale che “si en principe, le pouvoir legislatif n’est pus empeche de reglementer en matiere civile, par de nouvelles dispositions a porlee retroactive, des droits decoulant de lois en vigueur, le principe de la preeminence du droit et la notion de proces equilable consacres par l’article 6 s’opposent, sauf pour d’imperieux motifs d’interet general, à l’ingerence du pouvoir legislatif dans l’administrattori de la justice dans le bui d’influer sur le denouement judiciaire d’un litige”. D’altra parte, con riferimento alla fattispecie al suo esame, non si è sentita vincolata dalla precedente sentenza n. 311/2009 della Corte costituzionale ed ha proceduto essa, in piena autonomia, a valutare – e, nella specie, ad escludere – la sussistenza di “imperieux motifs d’interet general” concludendo per la ritenuta violazione dell’art. 6 CEDU. Un’ulteriore vicenda del tutto analoga (i.e. disposizione di interpretazione autentica che neutralizza e ribalta un precedente consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte) ha visto altra ordinanza di rimessione di questa Corte (Cass., sez. lav. 5 marzo 2007, n, 5048); altra sentenza della Corte costituzionale (sent. n. 172 del 2008) parimenti di infondatezza ; altra decisione della Corte di Strasburgo (sentenza 31 maggio 2011, Maggio c. Italia, ric. n. 46286/09 e altri) che all’opposto ha ritenuto sussistente la violazione dell’art. 6 CEDU e nel contempo ha ulteriormente precisato che “financial consideratiom cannot by themselves warrant the legislature substituting itselffor thè courts in arder to settle disputes”.

6. Orbene, la fattispecie attualmente all’esame di questa Corte non è in realtà del tutto sovrapponibile a quelle, sopra richiamate, che già hanno interessato la Corte di Strasburgo, la Corte costituzionale e questa stessa Corte come giudice rimettente dell’incidente di costituzionalità.

Ed infatti la prima fattispecie (quella di cui a Cass., sez. lav., 4 settembre 2008, n. 22260, cit.) aveva ad oggetto una disposizione (L. 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 218) che si qualificava di interpretazione, ma in realtà non aveva il contenuto effettivo di interpretazione autentica perchè vi era un assai marcato scarto di contenuto rispetto alla disposizione interpretata (L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 8, comma 2). Quest’ultima si limitava a riconoscere toni court al personale amministrativo, tecnico e ausiliario (Ata) del settore scuola, che era stato trasferito dall’ente locale all’Amministrazione statale, “l’anzianità maturata presso l’ente locale di provenienza” “ai fini giuridici ed economici”, mentre la disposizione di interpretazione aveva un contenuto ben più dettagliato e nient’affatto estraibile come significato plausibile dalla disposizione di interpretazione (testualmente: il personale trasferito era inquadrato “sulla base del trattamento economico complessivo in godimento all’atto del trasferimento, con l’attribuzione della posizione stipendiale di importo pari o immediatamente inferiore al trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999 costituito dallo stipendio, dalla retribuzione individuale di anzianità nonchè da eventuali indennità, ove spettanti, previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro del comparto degli enti locali, vigenti alla data dell’inquadramento.

L’eventuale differenza tra l’importo della posizione stipendiale di inquadramento e il trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999, come sopra indicato, viene corrisposta ad personam e considerata utile, previa temporizzazione, ai fini del conseguimento della successiva posizione stipendiale”). In realtà si trattava di una norma di sanatoria con efficacia retroattiva perchè elevava a dato normativo primario il contenuto di un atto regolamentare o amministrativo a carattere generale (il decreto ministeriale del 5 aprile 2001 di recepimento dell’accordo collettivo del 20 luglio 2000) che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. lav., 27 settembre 2005, n. 18829) era illegittimo perchè non poteva derogare a quanto stabilito dalla fonte primaria, ossia dalla L. n. 124 del 1999. Elevato il livello (di una parte) del contenuto normativo di quest’ultimo “trascrivendolo” in una norma di rango primario (la disposizione dichiaratamente di interpretazione), è venuto meno con efficacia retroattiva il vizio ritenuto dalla giurisprudenza di questa Corte. Si è trattato quindi di una sanatoria ex lege del contenuto precettivo del D.M. 5 aprile 2001 (in parte qua); ciò che in linea di massima era consentito fare al legislatore avendo la giurisprudenza costituzionale da tempo ammesso le leggi di sanatoria pur assoggetandone la sostanziale retroattività a scrutinio di legittimità sulla base del parametro della ragionevolezza; cfr., proprio a proposito di tale disposizione (apparentemente) di interpretazione la sentenza n. 234 del 2007 della Corte costituzionale che ha ritenuto non fondata la questione di costituzionalità della disposizione di interpretazione.

Parimenti – e per la stessa ragione – la disposizione interpretativa dell’altra citata fattispecie (quella di cui a Cass., sez. lav., 5 marzo 2007, n. 5048, cit.) non poteva qualificarsi come di interpretazione autentica, ma aveva in realtà un contenuto innovativo. Ed infatti la disposizione interpretata (D.P.R. 27 aprile 1968, n. 488, art. 5, comma 2) prevedeva che “Per retribuzione annua pensionabile si intende la terza parte della somma delle retribuzioni determinate ai sensi dell’art. 27 e seguenti del testo unico delle norme sugli assegni familiari, estese all’assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti della L. 4 aprile 1952, n. 218, art. 17, risultanti dalle ultime 156 settimane coperte da contribuzione effettiva in costanza di lavoro o figurativa antecedenti la data di decorrenza della pensione”. Invece la disposizione di interpretazione (L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 777) prevedeva che “la retribuzione pensionabile relativa ai periodi di lavoro svolto nei Paesi esteri è determinata moltiplicando l’importo dei contributi trasferiti per cento e dividendo il risultato per l’aliquota contributiva per invalidità, vecchiaia e superstiti in vigore nel periodo cui i contributi si riferiscono”. Anche in questa ipotesi lo scarto assai marcato di contenuto tra disposizione interpretata e disposizione di interpretazione era tale da indurre a ritenere che il legislatore avesse adottato una disposizione innovativa con efficacia retroattiva; ciò che comunque poteva fare con la riserva del possibile controllo di costituzionalità sulla base del parametro della ragionevolezza (oltre che. nella specie, dell’art. 35 Cost., comma 4, e art. 38 Cost., comma 2); controllo operato dalla sentenza n. 172 del 2008 della Corte costituzionale che ha dichiarato non fondata la questione di costituzionalità.

Invece la fattispecie ora all’esame di questa Corte – che parimenti è quella di una disposizione dichiaratamente di interpretazione – si connota e si differenzia perchè si tratta di una disposizione effettivamente di interpretazione autentica giacchè il significato espresso da quest’ultima poteva dirsi già contenuto tra i significati plausibilmente espressi dalla disposizione interpretata.

Ciò che consente – anticipandosi quanto si viene ora ad argomentare – di escludere che si prospetti un dubbio non manifestamente infondato di costituzionalità (diversamente da quanto in precedenza ritenuto da questa Corte nelle due altre citate fattispecie di disposizioni di interpretazione: Cass., sez. lav., 4 settembre 2008, n. 22260, e Cass., sez. lav., 5 marzo 2007, n, 5048 seguite dalle menzionate pronunce di non fondatezza della Corte costituzionale), neppure con riferimento al parametro interposto costituito dall’art. 6 CEDU. 7. Che il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 12, comma 11, sia una disposizione non solo dichiaratamente di interpretazione autentica, ma anche effettivamente tale, emerge dal raffronto tra quest’ultima e la disposizione interpretata (L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, comma 208).

Quest’ultima prevedeva: “Qualora i soggetti di cui ai precedenti commi esercitino contemporaneamente, anche in un’unica impresa, varie attività autonome assoggettabili a diverse forme di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, sono iscritti nell’assicurazione prevista per l’attività alla quale gli stessi dedicano personalmente la loro opera professionale in misura prevalente”.

Si è già rilevato che tale disposizione, con riferimento all’ipotesi di esercizio di plurime attività, ognuna delle quali integrerebbe i presupposti per l’iscrizione ad una gestione assicurativa presso l’INPS, introduce un criterio di semplificazione – quello dell’attività prevalente” che vale ad individuare l’unica gestione alla quale vanno versati i contributi assicurativi. Questa concentrazione della contribuzione in un’unica gestione assicurativa rappresenta anche un beneficio previdenziale in termini non già di esenzione (non prevista), ma di unificazione della posizione contributiva complessiva perchè in prospettiva esclude che possa esserci per l’assicurato un problema di trasferimento di contributi da una gestione all’altra; essi sono già accreditati in un’unica gestione.

Il problema interpretativo che si poneva all’indomani di tale disposizione era quello dell’individuazione dell’area di applicazione del criterio dell'”attività prevalente”.

La disposizione citata (l’art. 1, comma 208) definiva l’area di applicazione di tale criterio facendo riferimento ai “soggetti di cui ai precedenti commi” i quali esercitino contemporaneamente, anche in un’unica impresa, varie attività autonome assoggettabili a diverse forme di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti.

Se si considerano (solo) i commi contigui, ossia quelli immediatamente precedenti (commi 202-207) il riferimento dovrebbe allora intendersi fatto ai soggetti che svolgono attività di impresa commerciale e alla relativa gestione assicurativa, i cui presupposti per l’iscrizione da una parte vengono nuovamente posti in termini generali (comma 203) – con la riformulazione dell’art. 29, primo comma, della legge 3 giugno 1975, n. 160, che già aveva sostituito la L. 27 novembre 1960, n. 1397, art. 1, istitutiva dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie per gli esercenti attività commerciali – ed il cui ambito viene esteso a vari soggetti: quelli del settore terziario (comma 202), gli operatori turistici (comma 205), i familiari coadiutori comprendendo parenti ed affini entro il terzo grado (commi 204 e 206); a questi vanno poi aggiunti, risalendo a commi ancora precedenti, i promotori di servizi finanziari ed i loro collaboratori familiari (commi 196 e 197).

L’estensione così prevista dell’assicurazione per i commercianti (commi 196-197 e 202-206) a soggetti prima non assicurati prevedeva poi anche la possibilità di una copertura con efficacia retroattiva, del periodo pregresso (comma 207).

Quindi il riferimento testuale ai “soggetti di cui ai precedenti commi” poteva intendersi fatto a quelli che ricadevano nell’ambito (contestualmente allargato) dell’obbligo di iscrizione all’assicurazione commercianti i quali svolgessero contemporaneamente anche un’attività autonoma nella stessa impresa o in altre.

Nell’interpretazione della disposizione rilevava anche la sua ratio che era quella di “semplificare” il regime assicurativo in caso di attività miste in cui concorrevano un’attività prevalente con un’altra (o altre) di minore importanza. 11 carattere misto dell’attività esercitata suggeriva poi anche l’omogeneità e la connessione delle stesse, come nel caso tipico dell’artigiano che vende anche il suo prodotto, dove non sono distinguibili nettamente i proventi della produzione e quelli della commercializzazione che incidono sulla base imponibile della contribuzione previdenziale.

Questo “intreccio” di attività giustificava un criterio unificante – quello dell’attività prevalente – mediato peraltro da una verifica dell’INPS atteso che l’art. 1 cit., comma 208, prevedeva anche che “spetta all’Istituto nazionale della previdenza sociale decidere sulla iscrizione nell’assicurazione corrispondente all’attività prevalente. Avverso tale decisione, il soggetto interessato può proporre ricorso, entro 90 giorni dalla notifica del provvedimento, al consiglio di amministrazione dell’Istituto, il quale decide in via definitiva, sentiti i comitati amministratori delle rispettive gestioni pensionistiche”. Quindi l’Istituto – unico creditore della contribuzione previdenziale sia per l’attività prevalente che per quella non prevalente del soggetto assicurato – era chiamato a “decidere sull’iscrizione”; ciò che assegnava all’Istituto una facoltà – non arbitraria perchè legata al presupposto dell'”attività prevalente” – di imputazione del pagamento dei contributi fatti dal soggetto obbligato in deroga alla disciplina posta dall’art. 1193 c.c..

La ratio del comma 208 orientava quindi verso le attività tipicamente miste quali quella del commerciante/artigiano o quella del commerciante/coltivatore diretto e non anche quella del commerciante che, in ipotesi, svolga anche nella stessa impresa o in altra un’attività autonoma professionale, ad es., di consulenza o di collaborazione autonoma.

Inoltre – come peraltro già hanno osservato queste Sezioni Unite (Cass. civ., sez. un., 12 febbraio 2010, n. 3240) – la compatibilità, per i lavoratori autonomi che percepiscono i redditi di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 46 (T.U.I.R.), della doppia iscrizione è testualmente prevista dalla L. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 59, comma 16, che ha operato la distinzione, all’interno della gestione separata, tra coloro che sono iscritti ad altre forme di previdenza obbligatoria e quanti non lo sono: per i primi viene infatti mantenuta l’aliquota del dieci per cento sui compensi percepiti, mentre per i secondi il contributo è stato elevato di 1,5 punti percentuali.

Tale caratteristica della gestione separata – che vedeva (e vede) già una specifica norma speciale dettata per l’ipotesi in cui l’iscritto alla gestione separata eserciti anche un’altra attività – poteva indurre astrattamente ad escludere che il criterio della concentrazione dell’art. 1 cit., comma 208, potesse operare anche per essa.

Insomma era plausibile un’interpretazione sistematica che conducesse ad escludere la gestione separata dall’area di operatività dell’art. 1 cit., comma 208; interpretazione che peraltro ha trovato accoglimento in parte della giurisprudenza di merito alla quale si iscrive anche la sentenza attualmente impugnata, pronunciata prima della citata disposizione di interpretazione.

Per altro verso però c’era che nella sua formulazione letterale il comma 208 faceva riferimento indifferenziato ad altre attività autonome, che avrebbero potuto essere anche quelle residualmente assoggettate alla menzionata “gestione separata”.

Tutto ciò rendeva non univoco – e di non agevole determinazione – l’ambito di applicazione della disposizione; la quale quindi esibiva un intervallo di più significati plausibili, come poi ha mostrato in concreto l’esistenza di un ampio contenzioso sul punto, nonchè da ultimo il fatto che per l’interpretazione di tale disposizione era sorto contrasto di giurisprudenza composto da queste Sezioni Unite con la cit. sentenza n. 3240 del 2010. La quale nella sostanza accede all’interpretazione letterale del comma 208 dell’art. 1 cit. ritenuta più plausibile, sulla base degli ordinari criteri interpretativi della legge, di quella ispirata maggiormente alla rado della disposizione.

Successivamente la disposizione di interpretazione (D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 12, comma 11) – prevedendo in positivo, con il riferimento a commercianti, artigiani e coltivatori diretti, l’ambito di applicazione della regola della concentrazione della contribuzione in quella relativa all’attività prevalente ed escludendo, in negativo, le attività autonome soggette alla contribuzione nella gestione separata – non ha fatto altro che operare ex post la focalizzazione della norma su uno di tali significati plausibili della disposizione originaria, quello che pareva suggerito dalla ratio della stessa, al di là del suo tenore letterale.

Può pertanto affermarsi che l’inlerpretazione disattesa dalla cit.

pronuncia di queste Sezioni unite, quella peraltro che è stata accolta, tra le altre, proprio dalla sentenza attualmente impugnata, era plausibile nel senso che rientrava tra i significati che ex ante aveva la potenzialità di esprimere la disposizione poi interpretata autenticamente.

Ma se una disposizione dichiaratamente di interpretazione fa propria uno dei significati che la disposizione interpretata poteva esprimere ex ante secondo un criterio di plausibilità, la fattispecie si qualifica come di effettiva “interpretazione autentica” e non già come disposizione innovativa con efficacia retroattiva.

8. Una volta verificato che il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 12, comma 11, è disposizione effettivamente di interpretazione autentica, può dirsi che essa costituisce espressione della funzione legislativa di interpretazione autentica che deve riconoscersi appartenere sia al legislatore nazionale che a quello regionale.

A differenza dello Statuto Albertino che all’art. 73, conteneva un’espressa previsione che riconosceva al potere legislativo (anzi, solo al potere legislativo) la facoltà di “interpretare” le leggi, la vigente Costituzione, che assegna alle Camere l’esercizio congiunto della “funzione legislativa” ioni court (art. 70 Cost.), non contiene analoga espressa previsione.

Non di meno la giurisprudenza costituzionale fin da epoca risalente (sent. n. 118 del 1957) ha riconosciuto che la funzione legislativa, che nel suo contenuto tipico ed essenziale consiste nella produzione di atti normativi, può esprimersi talora anche nella loro successiva interpretazione, che, per il fatto di provenire dallo stesso potere legislativo che ha posto la norma interpretata, si connota come “interpretazione autentica”. Nello scrutinare la prima legge recante “norme interpretative”, la Corte costituzionale (sent. n. 118 del 1957, cit.) ha negato categoricamente che “la vigente Costituzione escluda la possibilità di leggi interpretative”; ciò perchè “manca nella Carta costituzionale qualsiasi limitazione di ordine generale al riguardo”. E del resto si tratta di “un istituto comunemente ammesso da altri ordinamenti statali, che posseggono i caratteri di Stato di diritto e di Stato democratico”.

La norma di interpretazione autentica, in quanto tale, si impone al giudice che, per essere soggetto alla legge (art. 101 Cost., comma 2), deve considerarla come vincolante nel senso che la norma di cui è chiamato a fare applicazione risulta dal blocco costituito dalla disposizione interpretata e dalla disposizione di interpretazione.

Precisa infatti la Corte nella citata pronuncia che “il fatto della emanazione di una legge interpretativa non rappresenta dunque, di per sè sola, una interferenza nella sfera del potere giudiziario”.

Questi principi sono stati riaffermati dalla Corte costituzionale quando è stata posta una questione incidentale riguardante una fattispecie – all’epoca piuttosto rara, ma successivamente sempre più ricorrente – analoga a quella attualmente all’esame di questa Corte: quella di una disposizione la cui interpretazione si consolida in un principio affermato da questa Corte di legittimità (in quel caso, Cass. 10 aprile 1968 n. 1079) che viene neutralizzato e ribaltato da una disposizione di interpretazione autentica (all’epoca, la L. 25 febbraio 1971, n. 110, art. 1). La Corte costituzionale (sent. n. 175 del 1974) riconosce che si tratta di un disposizione che è realmente di interpretazione autentica e ribadisce quindi “il principio della piena legittimità costituzionale dell’interpretazione autentica da parte del legislatore”, talchè “alccertata la indubbia natura interpretativa della legge denunziata, si palesa l’infondatezza” della questione di costituzionalità.

Fin dalla giurisprudenza più risalente (quella appena citata) è poi netta la distinzione tra disposizione di interpretazione autentica e disposizione innovativa con efficacia retroattiva. La prima assegna alla disposizione interpretata un significato plausìbile che già potenzialmente conteneva quest’ultima; la seconda invece la modifica e ciò fa con efficacia retroattiva.

E’ vero che nella giurisprudenza successiva si rinviene anche una diversa affermazione (cfr. sent. 123 del 1988 che ha ritenuto che “(l)a legge di interpretazione autentica (…) non si distingue dalla legge innovativa con efficacia retroattiva, essendo anch’essa innovativa”. Ma la distinzione è ancora ben presente nella sentenza n. 155 del 1990 che ribadisce che “va riconosciuto carattere interpretativo soltanto ad una legge che fermo il tenore testuale della norma interpretata, ne chiarisce il significato normativo ovvero privilegia una tra le tante interpretazioni possibili, di guisa che il contenuto precettivo è espresso dalla coesistenza delle due norme (quella precedente e l’altra successiva che ne esplicita il significato)”. E quindi “(l)a legge interpretativa… non viola di per sè gli artt. 101, 102 e 104 Cost.”; “nè le leggi interpretative sono escluse dalle disposizioni dell’art. 24 Cost., e art. 25 Cost., comma 1”. In quel caso però il legislatore aveva definito interpretativa una disciplina che, invece, aveva in realtà natura innovativa con conseguente verifica da parte della Corte della ragionevolezza della retroattività della disposizione innovativa;

verifica che in quel caso ha condotto alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata.

La ammissibilità di norme di interpretazione autentica si ritrova anche nella giurisprudenza più recente.

Nella sent. n. 41 del 2011 la Corte sottolinea ancora quello che è il “fattore fondante di distinzione”; ciò che rileva e fa la differenza è “il carattere interpretativo della norma impugnata, ovvero quello innovativo con efficacia retroattiva”. Viene ribadito che il “legislatore può, dunque, approvare sia disposizioni di interpretazione autentica, che chiariscono la portata precettiva della norma interpretata fissandola in un contenuto plausibilmente già espresso dalla stessa, sia norme innovative con efficacia retroattivà”. Non di meno la Corte si riserva un controllo di ragionevolezza anche delle disposizioni realmente di interpretazione autentica, precisando che “per quanto attiene alle norme che pretendono di avere natura meramente interpretativa, la palese erroneità di tale auto-qualificazione (ove queste non si limitino ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto e riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario), potrà costituire un indice di manifesta irragionevolezza”. Ma già la sent. n. 1 del 2011, una volta riconosciuta la natura realmente di interpretazione autentica delle disposizioni censurate, dichiara non fondata la questione di costituzionalità. E la sent. n. 209 del 2010 precisa che il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull’applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche “quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con ciò vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore”.

In senso conforme v. anche sent. nn. 71 del 2010, 290 e 311 del 2009, 74, 170 e 172 del 2008.

9. Può quindi dirsi acquisito nella giurisprudenza costituzionale il riconoscimento al potere legislativo della funzione di interpretazione autentica che partecipa della funzione legislativa (art. 70 Cost.).

Tale interpretazione autentica, anche se fatta dal legislatore, deve però avere i connotati di un’attività interpretativa; non può fare de albo nigrum perchè ciò rientra nell’alveo dell’ordinario potere normativo a carattere innovativo anche con efficacia retroattiva.

Sicchè in tesi ben diversa è la disposizione che modifica, ora per allora (ossia con efficacia retroattiva), una precedente disposizione e quella che invece ne pone l’interpretazione autentica, tale essendo perchè si muove nell’ambito delle interpretazioni plausibili, ossia nell’ambito dei significati plausibili che potenzialmente esprime la disposizione interpretata.

Nell’interpretazione autentica il legislatore specifica la portata normativa di una disposizione posta in precedenza, la quale è originariamente idonea ad esprimere plurimi (ed alternativi) contenuti normativi graduabili secondo maggiore o minore plausibilità alla stregua degli ordinari criteri interpretativi con l’effetto che la disposizione realmente di interpretazione autentica si salda con la disposizione interpretata ed entrambe compongono un unico precetto normativo vigente dalla data di entrata in vigore della prima.

La verifica dell’autenticità dell’esercizio della funzione di interpretazione autentica – condotta anche secondo un canone di ragionevolezza, più volte richiamato dalla giurisprudenza costituzionale – assicura l’ammissibilità dell’intervento del legislatore.

Questa connotazione invece non si riscontra nel caso in cui il legislatore ponga una norma innovativa con efficacia retroattiva: tra la disposizione originaria e quella sopravvenuta non c’è questo nesso per cui il significato precettivo della seconda è riconducibile all’intervallo di tutti significati esprimibili dalla prima.

Diversa è la “retroattività” della disposizione realmente di interpretazione autentica come mostra, tra l’altro, che si ritiene essa sia ammissibile, pure in malam parlem, anche in materia penale (Cass. pen., sez. 3^, 6 maggio 1997 – 31 luglio 1997), mentre una disposizione innovativa con efficacia retroattiva, ampliativa della fattispecie penale, sarebbe preclusa dal divieto posto dall’art. 25 Cost., comma 2.

10. Si può allora dire conclusivamente che il D.L. n. 78 del 2010, art. 12, comma 11, è effettivamente una disposizione di interpretazione autentica posta dal legislatore nell’esercizio della funzione legislativa, che si può estrinsecare anche in tal modo.

La funzione legislativa per il tramite di disposizioni di interpretazione autentica appartiene alla garanzia costituzionale dell’art. 70 Cost., che assegna alle Camere il suo esercizio e che.

essendo norma di rango costituzionale, prevale, nel bilanciamento di valori, su quelli espressi da parametri interposti; i quali, in quanto contenuti in atti di normazione ordinaria (quale la legge di ratifica della CEDU, come rilevato da ultimo da C. cost. n. 236 del 2011, cit.), sono sottordinati nel sistema delle fonti del diritto.

Il meccanismo dell’interpretazione autentica è tale per cui il processo non è alterato – in termini di lesione del principio del giusto processo ex art. 6 CEDU – perchè la regnici juris che il giudice, in quanto soggetto alla legge, è chiamato ad applicare nel significato espresso dalla disposizione di interpretazione autentica era fin dall’inizio ricompresa nell’intervallo dei significati plausibili che potenzialmente esprimeva la disposizione interpretata.

L’affidamento che di fatto una parte possa aver riposto in un’interpretazione che in precedenza aveva avuto l’avallo della giurisprudenza, ma che successivamente viene smentita da una disposizione di interpretazione autentica, può semmai ricevere tutela nei limiti recentemente riconosciuti da queste Sezioni Unite (Cass., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144).

11. Il ricorso va quindi respinto, dovendo affermarsi ex art. 384 c.c., comma 1, i seguenti principi di diritto:

a) “Il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 12, comma 11, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, art. 1, comma 1 – che prevede che la L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, comma 208, si interpreta nel senso che le attività autonome, per le quali opera il principio di assoggettamento all’assicurazione prevista per l’attività prevalente, sono quelle esercitate in forma d’impresa dai commercianti, dagli artigiani e dai coltivatori diretti, i quali vengono iscritti in una delle corrispondenti gestioni dell’INPS, mentre restano esclusi dall’applicazione della L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 208, i rapporti di lavoro per i quali è obbligatoriamente prevista l’iscrizione alla gestione previdenziale di cui alla L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 2, comma 26, – costituisce disposizione dichiaratamente ed effettivamente di interpretazione autentica, diretta a chiarire la portata della disposizione interpretata, e pertanto, in quanto tale, non è lesiva del principio del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU, trattandosi di legittimo esercizio della funzione legislativa garantita dall’art. 70 Cost..

b) In caso di esercizio di attività in forma d’impresa ad opera di commercianti, o artigiani, o coltivatori diretti, contemporaneamente all’esercizio di attività autonoma per la quale è obbligatoriamente prevista l’iscrizione alla gestione previdenziale separata di cui all’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, non opera l’unificazione della contribuzione sulla base del parametro dell’attività prevalente, quale prevista dalla L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, comma 208”.

12. Sussistono giustificati motivi (in considerazione della novità delle questioni dibattute e della problematicità delle stesse nel contesto dello jus superveniens costituito dalla citata disposizione di interpretazione autentica) per compensare tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 24 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 8 agosto 2011

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