Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17067 del 11/08/2016


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Cassazione civile sez. lav., 11/08/2016, (ud. 18/05/2016, dep. 11/08/2016), n.17067

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. DELLA TORRE Paolo Negri – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28359-2012 proposto da:

RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona

dell’institore legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA 22, presso lo studio

dell’avvocato GERARDO VESCI, che la rappresenta e difende, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

N.G. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

(OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato FABIO CIPRIANI, che lo

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

nonchè contro

C.A.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 5040/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 07/06/2012, R.G. N. 10369/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/05/2016 dal Consigliere Dott. MANNA ANTONIO;

udito l’Avvocato MICHELE GUZZO per delega GERARDO VESCI;

udito l’Avvocato FABIO CIPRIANI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GHERSI RENATO FINOCCHI, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza depositata il 7.6.12 la Corte d’appello di Roma rigettava – per quel che rileva nella presente sede – il gravame di Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. contro la sentenza n. 19717/10 con cui il Tribunale capitolino l’aveva condannata a pagare ai dipendenti C.A. e N.G. le differenze retributive conseguenti agli scatti d’anzianità loro riconosciuti.

Per la cassazione della sentenza ricorre Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. affidandosi a due motivi che fanno leva sulla preclusione delle domande dei lavoratori in ragione di precedenti verbali di conciliazione.

N.G. resiste con controricorso.

C.A. non svolge attività difensiva.

La società ricorrente e il controricorrente depositano memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Il primo motivo denuncia violazione, errata interpretazione e falsa applicazione dell’art. 2113 c.c., anche in relazione agli artt. 410 e 411 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, per avere la sentenza impugnata trascurato l’eccezione di inoppugnabilità ex art. 2113 c.c., comma 4, dei verbali di conciliazione (impugnazione comunque tardiva) con cui C.A. e N.G. avevano rinunciato all’anzianità di servizio loro riconosciuta grazie a precedenti sentenze emesse nei confronti di Rete Ferroviaria Italiana S.p.A., ossia a quella stessa anzianità in base alla quale – poi – detti lavoratori hanno ottenuto le differenze retributive per scatti d’anzianità oggetto del presente contenzioso.

Il motivo è infondato perchè travisa il senso della motivazione della pronuncia di merito.

Invero, la Corte territoriale, lungi dal trascurare l’eccepita inammissibilità dell’impugnazione ex art. 2113 c.c., dei verbali di conciliazione de quibus, ha fatto esattamente il contrario, ossia ha espressamente preso in considerazione quanto in essi pattuito, giungendo però alla conclusione che, in realtà, dal loro tenore non risulta alcuna rinuncia agli effetti della pregressa anzianità di servizio.

2 – Con il secondo motivo si lamenta violazione, errata interpretazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363 e 1367 c.c. e dell’art. 116 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, per avere la sentenza impugnata malamente interpretato i verbali di conciliazione intervenuti fra le parti, violandone il senso letterale e omettendo di esaminare ulteriori documenti prodotti in giudizio, come la comunicazione 2.5.05 proveniente dalla società ricorrente (in base alla quale il riconoscimento dell’esistenza del rapporto di lavoro secondo la decorrenza indicata in sentenza doveva intendersi riferito esclusivamente alla regolarizzazione contributivo – previdenziale).

Il motivo va disatteso sotto plurimi profili.

Da un lato, infatti, il motivo risulta non autosufficiente nella parte in cui lamenta un’errata interpretazione del tenore letterale dei verbali di conciliazione, che però non trascrive.

Nè a tal fine basta la mera allegazione dell’intero fascicolo di parte del giudizio di merito contenente i documenti in oggetto, essendo altresì necessario che in ricorso se ne indichi la precisa collocazione nell’incarto processuale (v., ad es., Cass. n. 27228/14), il che nel caso in esame non è avvenuto.

Sotto altro profilo, poi, va rilevato che il motivo si colloca all’esterno dell’area prevista dall’art. 360 c.p.c., comma n. 5, perchè in esso in sostanza si sollecita ad onta dei richiami normativi – una mera rivisitazione del materiale istruttorio affinchè se ne fornisca una valutazione diversa da quella accolta dalla sentenza impugnata, operazione non consentita in sede di legittimità neppure sotto forma di denuncia di vizio di motivazione.

In altre parole, il ricorso si dilunga nell’opporre al motivato apprezzamento della Corte territoriale proprie difformi valutazioni del tenore dei verbali de quibus e della summenzionata comunicazione 2.5.05, ma tale modus operandi non è idoneo a segnalare un vizio di motivazione ai sensi e per gli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (nel testo, applicabile ratione temporis, previgente rispetto alla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134).

Infatti, i vizi argomentativi deducibili con il ricorso per cassazione ai sensi del previgente testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non possono consistere in apprezzamenti di fatto difformi da quelli propugnati da una delle parti, perchè a norma dell’art. 116 c.p.c., rientra nel potere discrezionale – come tale insindacabile – del giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, apprezzare all’uopo le prove, controllarne l’attendibilità, l’affidabilità e la concludenza e scegliere, tra le varie risultanze istruttorie, quelle ritenute idonee e rilevanti, con l’unico limite di supportare con congrua e logica motivazione l’accertamento eseguito (v., ex aliis, Cass. n. 2090/04; Cass. S.U. n. 5802/98).

Le differenti letture ipotizzate in ricorso scivolano sul piano dell’apprezzamento di merito, che presupporrebbe un accesso diretto agli atti e una loro delibazione, in punto di fatto, incompatibili con il giudizio innanzi a questa Corte Suprema, cui spetta soltanto il sindacato sulle massime di esperienza adottate nella valutazione delle risultanze probatorie, nonchè la verifica sulla correttezza logico – giuridica del ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute, senza che ciò possa tradursi in un nuovo accertamento, ovvero nella ripetizione dell’esperienza conoscitiva propria dei gradi precedenti.

A sua volta il controllo in sede di legittimità delle massime di esperienza non può spingersi fino a sindacarne la scelta, che è compito del giudice di merito, dovendosi limitare questa S.C. a verificare che egli non abbia confuso con massime di esperienza quelle che sono, invece, delle mere congetture.

Le massime di esperienza sono definizioni o giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto sul quale il giudice è chiamato a decidere, acquisiti con l’esperienza, ma autonomi rispetto ai singoli casi dalla cui osservazione sono dedotti ed oltre i quali devono valere; tali massime sono adoperabili come criteri di inferenza, vale a dire come premesse maggiori dei sillogismi giudiziari.

Costituisce, invece, una mera congettura, in quanto tale inidonea ai fini del sillogismo giudiziario, tanto l’ipotesi non fondata sull’id quod plerumque accidit, insuscettibile di verifica empirica, quanto la pretesa regola generale che risulti priva, però, di qualunque pur minima plausibilità.

Ciò detto, si noti che nel caso di specie il ricorso non evidenzia l’uso di inesistenti massime di esperienza nè violazioni di regole inferenziali, ma si limita a segnalare soltanto possibili difformi valutazioni degli elementi raccolti, il che costituisce compito precipuo del giudice del merito, non di quello di legittimità, che non può prendere in considerazione quale ipotetica illogicità argomentativa la mera possibilità di un’ipotesi alternativa rispetto a quella ritenuta in sentenza.

Nè il ricorso isola (come invece avrebbe dovuto) singoli passaggi argomentativi per evidenziarne l’illogicità o la contraddittorietà intrinseche e manifeste (vale a dire tali da poter essere percepite in maniera oggettiva e a prescindere dalla lettura del materiale di causa), ma ritiene di poter enucleare vizi di motivazione dal mero confronto con i documenti acquisiti nel corso del giudizio, vale a dire attraverso un’operazione che suppone un accesso diretto agli atti e una loro delibazione non consentiti innanzi a questa Corte Suprema.

In breve, la gravata pronuncia ha – con motivazione immune da vizi logici o giuridici – accertato che nei suddetti verbali di conciliazione la società oggi ricorrente ha fatto formale acquiescenza alle pronunce giurisdizionali che avevano accertato l’esistenza d’un rapporto di lavoro fra le parti con le decorrenze in esse indicate, escludendo che tali decorrenze siano state limitate alla mera regolarizzazione contributivo – previdenziale.

Del tutto logica, quindi, à l’interpretazione dei verbali di conciliazione in oggetto effettuata dalla Corte d’appello, nel senso che essi, pur precludendo ai lavoratori la possibilità di rivendicare differenze retributive per scatti di anzianità maturati in base alla anzianità pregressa nel periodo anteriore alla formale assunzione da parte di RFI, non impedisce loro di esercitare il diritto di avvalersi di tale anzianità al fine del computo degli scatti di anzianità maturati dopo l’assunzione, trattandosi di diritti che non erano ancora maturati al momento delle conciliazioni.

Tale soluzione è, poi, conforme al principio secondo cui l’anzianità di servizio non è uno status o un elemento costitutivo di uno status del lavoratore subordinato, nè un distinto bene della vita oggetto di un autonomo diritto, ma rappresenta la dimensione temporale del rapporto di lavoro, nel cui ambito integra il presupposto di fatto di specifici diritti (quali quelli all’indennità di fine rapporto o agli scatti di anzianità). Essa, pertanto, non può essere oggetto di atti di disposizione, traslativi o abdicativi che siano (cfr., proprio in analoghe controversie aventi ad oggetto conciliazioni fra l’odierna ricorrente e altri suoi dipendenti, Cass. n. 12227/13 e Cass. n. 9909/16).

Quanto alla valenza interpretativa della comunicazione 2.5.05 proveniente dalla direzione del personale della società ricorrente e indirizzata alla direzione compartimentale di Reggio Calabria e per conoscenza a quella di Roma (tale documento risulta, invece, trascritto in ricorso), basti notare che, secondo costante giurisprudenza di questa S.C. (cfr., ex aliis, Cass. n. 12535/12; Cass. n. 415/06; Cass. n. 18352/04), ex art. 1362 cpv. c.c., il comportamento complessivo, che integra uno dei canoni interpretativi del contratto, è solo quello di cui siano stati partecipi entrambi i contraenti, non potendo la comune intenzione delle parti emergere dall’iniziativa unilaterale di una di esse, corrispondente ai suoi personali disegni e intendimenti.

Nè, infine, può prendersi in considerazione il precedente di questa S.C. (n. 19092/13) invocato nella memoria ex art. 378 c.p.c., di parte ricorrente, che si assume riguardare analogo verbale di conciliazione, giacchè si tratta di sentenza che censura la mancata applicazione dei criteri ermeneutici da parte d’una pronuncia di merito di cui non si conosce la motivazione (così come non si conosce l’esatto tenore dell’accordo transattivo in quella sede interpretato).

Pertanto, non può costituire un parametro di riferimento anche nella presente vicenda processuale.

3 – In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza e si distraggono ex art. 93 in favore del difensore del controricorrente N.G., dichiaratosi antistatario.

Non è, invece, dovuta pronuncia sulle spese riguardo all’intimato C.A., che non ha svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare al controricorrente N.G. le spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.600,00 di cui Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali e agli accessori di legge, spese da distrarsi in favore dell’avv. Fabio Cipriani, antistatario. Nulla per spese riguardo all’intimato C.A..

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 18 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 11 agosto 2016

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