Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17058 del 11/08/2016


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Cassazione civile sez. lav., 11/08/2016, (ud. 06/04/2016, dep. 11/08/2016), n.17058

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24568-2013 proposto da:

D.S.P.M.E., C.F. (OMISSIS), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA C. COLOMBO 436, presso lo studio

dell’avvocato RENATO CARUSO, rappresentato e difeso dall’avvocato

STEFANO SPINELLI;

– ricorrente –

contro

IS.M.A.C. S.R.L., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

LUIGI RIZZO 41, presso lo studio dell’avvocato VITTORIO OLIVIERI,

rappresentata difesa dall’avvocato FRANCESCO STOLFA, giusta procura

speciale notarile in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 387/2013 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 03/05/2013, r.g.n. 1055/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/04/2016 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito l’Avvocato CARUSO BIANCA per delega Avvocato SPINELLI STEFANO;

udito l’Avvocato OLIVIERI VITTORIO per delega Avvocato STOLFA

FRANCESCO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Forlì rigettava le domande proposte da D.S.P.M.E., già direttore tecnico del Laboratorio di Analisi IS.MAC. s.r.l., volte all’accertamento della illegittimità del licenziamento disciplinare intimatole il 9 maggio 2009 e alla condanna della parte datoriale al risarcimento del danno risentito per effetto del comportamento persecutorio adottato nei suoi confronti, trasfuso in atti reiterati nel tempo, contrari al principio di correttezza e buona fede, oltre che gravemente lesivi del diritto alla salute e idonei ad ingenerare un danno esistenziale ed economico.

Avverso tale decisione proponeva appello la lavoratrice, invocandone l’integrale riforma. Resisteva al gravame la società.

Con sentenza resa pubblica il 3 maggio 2013, la Corte d’appello di Bologna, rilevato che dalle risultanze istruttorie non emergevano profili di illegittimità del provvedimento espulsivo irrogato, nè di lesività, per l’appellante, dei vari provvedimenti adottati nei suoi confronti e tantomeno l’intenzione e l’attuazione di un disegno discriminatorio ed emarginativo consapevolmente perseguito, rigettava l’impugnazione.

Per la cassazione di tale pronuncia ricorre la D.S.P. con due motivi, depositando anche memoria ex art. 378 c.p.c..

Resiste con controricorso la IS.MAC. s.r.l..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. e art. 115 c.p.c. nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Si critica la sentenza impugnata per avere escluso qualsiasi intento vessatorio nella condotta posta in essere dalla sig. B. – ex amministratrice unica e titolare del laboratorio, quindi dipendente della società a seguito di cessione delle proprie quote – sul rilievo che l’attività di controllo fosse esercitata nei confronti della generalità dei dipendenti e comunque risultasse giustificata dall’incarico fiduciario rivestito nel contesto della compagine aziendale.

Ci si duole che la Corte distrettuale, nella valutazione del quadro istruttorio delineato in prime cure, abbia tralasciato di considerare la posizione di responsabilità ascritta alla ricorrente che ricopriva il ruolo di Direttore Tecnico di Laboratorio, nei cui confronti non poteva configurarsi un mero controllo di attività, bensì una sostanziale e continua delegittimazione nell’esercizio delle funzioni a lei conferite.

Con riferimento alla acclarata esclusione dell’elemento soggettivo unificativo della intera condotta persecutoria posta in essere dalla parte datoriale, si imputa ai giudici del gravame di aver omesso ogni considerazione della copiosa documentazione versata in atti dalla quale detto elemento soggettivo si deduce emergesse chiaramente.

Il motivo è privo di pregio per plurime concorrenti ragioni.

La mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione intrinsecamente eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate sotto l’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 mostra, infatti, di non tener conto dell’impossibilità della prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o della falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale ed analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nell’impugnata sentenza, che si porrebbero in contraddizione tra loro (vedi Cass. 23-9-2011 n. 19443).

Nell’ottica descritta della contemporanea proposizione di censure aventi ad oggetto violazione di legge e vizi della motivazione, si realizza, invero, una negazione della regola di chiarezza posta dall’art. 366 c.p.c., n. 4 giacchè si affida alla Corte di cassazione il compito di enucleare dalla mescolanza dei motivi la parte concernente il vizio di motivazione, che invece deve avere una autonoma collocazione (vedi fra le tante, Cass. Sez. Lav. 26-3-2010 n. 7394 cui adde Cass.8-6-2012 n.9341, Cass. 20 settembre 2013 n. 21611).

In realtà, la ricorrente con il motivo di doglianza proposto, tende a pervenire, ad una rinnovata considerazione, nel merito, della valutazione dei fatti di causa elaborata dai giudici del gravame, inammissibile nella presente sede di legittimità.

Per consolidato orientamento di questa Corte il motivo di ricorso ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nello specifico novellato ex D.L. 22 giugno 2012, n. 83 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134), non potrebbe comunque risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice dell’impugnazione, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione.

Nella interpretazione resa dai recenti arresti delle sezioni unite di questa Corte, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi (vedi Cass. S.U. 7-4-2014 n.8053), la disposizione va letta in un’ottica di riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione. Il controllo previsto dal nuovo n. 5) dell’art. 360 c.p.c. concerne, quindi, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.

Applicando i suddetti principi alla fattispecie qui scrutinata, non può prescindersi dal rilievo che tramite la articolata censura, la parte ricorrente, contravvenendo ai detti principi, sollecita un’inammissibile rivalutazione dei dati istruttori acquisiti in giudizio, esaustivamente esaminatè dalla Corte territoriale, auspicandone un’interpretazione a sè più favorevole, non ammissibile nella presente sede di legittimità.

Infatti, come accennato nello storico di lite, la Corte distrettuale ha compiutamente esaminato i fatti storici oggetto di allegazione e scrutinato il materiale probatorio acquisito, accertando che il controllo esercitato dalla sig. B. si estendeva alla attività di tutti i dipendenti; che i rapporti interpersonali con la ricorrente erano connotati da radicata divergenza di opinioni; che la situazione lavorativa della appellante era qualificata da elementi di forte conflittualità con l’intero contesto ambientale; che era mancata la dimostrazione da parte della ricorrente dell’elemento soggettivo qualificante la condotta ascritta alla parte datoriale così come della prova oggettiva del pregiudizio risentito all’integrità psico-fisica.

Si tratta di un iter motivazionale che non risponde ai requisiti dell’assoluta omissione, della mera apparenza ovvero della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta, che avrebbero potuto giustificare l’esercizio del sindacato di legittimità e si sottrae, in quanto congruo e completo, alla censura all’esame.

Con il secondo mezzo di impugnazione si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2106, 2119 e 1455 c.c., della L. n. 300 del 1970, art. 7, dell’art. 112 c.p.c. nonchè delle norme del c.c.n.l. Aziende del Terziario 2003-2006.

Si deduce che il giudice dell’impugnazione sia incorso in vizio di ultrapetizione nel ritenere la ritualità della lettera di contestazione inviata il 29/3/05 benchè sottoscritta da uno dei soci di minoranza e non dal legale rappresentante della società, in quanto oggetto di ratifica da parte di quest’ultimo con lettera 9/5/05 mediante la quale erano. stati confermati gli addebiti posti alla base della pregressa lettera di contestazione, ed irrogata la sanzione espulsiva. Si sostiene che la società nulla aveva argomentato nei propri scritti nel senso della ratifica della lettera di contestazione da parte del legale rappresentante della società con la lettera di licenziamento. Vertendosi in ipotesi di eccezione di merito in senso stretto, la Corte distrettuale sarebbe stata tenuta a pronunciarsi su di essa solo a seguito di una puntuale contestazione da parte della società.

Sotto altro versante, si ripropone l’eccezione di genericità della contestazione disciplinare e di tardività della sanzione irrogata in violazione dell’art. 153 c.c.n.l. di settore che prevede la comunicazione del provvedimento disciplinare entro i quindici giorni dalla scadenza del termine assegnato al lavoratore per le giustificazioni.

L’articolato motivo va disatteso, alla stregua delle considerazioni di seguito esposte.

Per costante giurisprudenza di questa Corte, il principio della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato può ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (petitum e causa petendi), attribuendo o negando ad uno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nell’ambito della domanda o delle richieste delle parti (vedi Cass. 26/10/2009 n. 22595).

Ne consegue che non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che esamini una questione espressamente formulata dal ricorrente (attinente alla ritualità della contestazione), e già risolta nei medesimi sensi dal giudice di prima istanza, alla stregua di una esegesi degli atti correttamente acquisiti in giudizio, così permanendo nei limiti del thema decidendum. Va rimarcato al riguardo che in materia di procedimento civile, l’applicazione del principio iura novit curia, di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, fa salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, nonchè all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo e fondamento della sua decisione anche principi di diritto diversi da quelli richiamati dalle parti, ferma restando la preclusione di una decisione basata non già sulla diversa qualificazione giuridica del rapporto, ma su diversi elementi materiali che inverano il fatto costitutivo della pretesa (vedi ex plurimis, Cass.24/07/2012 n. 12943). Nello specifico la Corte distrettuale, si è limitata a rendere una esegesi della lettera di irrogazione della sanzione espulsiva, di conferma delle statuizioni emesse sul tema dal giudice di prima istanza, e conforme a diritto perchè coerente con i dicta giurisprudenziali di questa Corte in tema di ratifica degli atti emessi da soggetto privo di rappresentanza (vedi Cass. 8/2/2016 n. 2403 secondo cui la ratifica sana, con efficacia retroattiva, il difetto di potere rappresentativo del falsus procurator).

Peraltro, non può sottacersi che non risulta dimostrata la deduzione del vizio da cui era già affetta la sentenza di primo grado, quale specifico motivo di gravame, sicchè la censura di ultrapetizione evidenzia chiari profili di inammissibilità (cfr. Cass. 18/5/15 n. 10172).

Si palesa, pertanto, eccentrica rispetto alla tematica dibattuta, la prospettata natura di eccezione in senso stretto della ratifica della lettera di contestazione posta in essere dal legale rappresentante della società, oltre che infondata, ove si consideri che le eccezioni in senso stretto si identificano in quelle per le quali la legge espressamente riservi il potere di rilevazione alla parte o in quelle in cui il fatto integratore dell’eccezione corrisponde all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio da parte del titolare, che suppone la manifestazione di volontà della parte.

Attinente ad aspetti riservati alla cognizione del giudice di merito, e, pertanto, inammissibile nella presente sede, risulta, quindi, la critica formulata con riferimento alla genericità della lettera di contestazione dell’addebito, oggetto di attento scrutinio da parte del giudice dell’impugnazione il quale, con affermazione congrua sotto il profilo logico, e corretta sotto il versante giuridico, ha accertato che la stessa recava specifico riferimento alla condotta assunta dalla ricorrente il 23 marzo 2005 consentendo alla stessa di articolare specifiche difese anche in relazione a tale episodio, nella lettera di giustificazione in data 5 aprile 2005.

Da ultimo, va rimarcato che il motivo di doglianza attinente alla violazione delle disposizioni contrattuali collettive in tema di tempestività della irrogazione della sanzione, presenta profili di improcedibilità.

Non può prescindersi, sul punto, dal richiamo all’orientamento espresso da questa Corte, e Che va qui ribadito, in base al quale, ai fini del rituale adempimento dell’onere, imposto al ricorrente dalla disposizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, è necessario indicare specificamente nel ricorse anche gli atti processuali su cui si fonde e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, provvedendo anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (vedi Cass. 6/3/2012 n. 4220, Cass. 9/4/2013 n. 8569, cui adde Cass. 2410/2014 n. 22607).

Tale specifica indicazione, quando riguardi un documento, un contratto o un accordo collettivo prodotto in giudizio, postula quindi, che si individui dove sia stato prodotto nelle fasi di merito, e, in ragione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, anche che esso sia prodotto in sede di legittimità.

E’ stato altresì precisato che “l’onere gravante sul ricorrente, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, di depositare, a pena di improcedibilità, copia dei contratti o degli accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda, può essere adempiuto, in base al principio di strumentalità delle forme processuali – nel rispetto del principio di cui all’art. 111 Cost., letto in coerenza con l’art. 6 della CERDU – anche mediante la riproduzione, nel corpo dell’atto d’impugnazione, della sola norma contrattuale collettiva sulla quale si basano principalmente le doglianze, purchè il testo integrale del contratto collettivo sia stato prodotto nei precedenti gradi di giudizio onde verificare l’esattezza dell’interpretazione offerta dal giudice di merito (vedi Cass. 7/7/2014 n.15437).

Può quindi affermarsi che il ricorrente per cassazione, ove intenda dolersi, come nella specie, della erronea valutazione di un contratto collettivo da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 – di produrlo integralmente agli atti e di indicarne il contenuto.

Nello specifico, la ricorrente non ha prodotto integralmente il contratto collettivo, nè tantomeno detta circostanza risulta dall’indice dei documenti posta in calce al presente ricorso, sicchè il motivo svolto non si sottrae ad un giudizio di improcedibilità alla stregua dei dettami sanciti dall’art. 369 c.p.c., comma 4.

In definitiva, alla luce delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.

Il governo delle spese inerenti al presente giudizio di cassazione segue il principio della soccombenza nella misura in dispositivo liquidata.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 6 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 11 agosto 2016

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