Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17053 del 16/06/2021

Cassazione civile sez. VI, 16/06/2021, (ud. 04/12/2020, dep. 16/06/2021), n.17053

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4571-2019 proposto da:

G.A.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL FORTE

TIBURTINO N. 98, presso lo studio dell’avvocato BONFIGLIO RAFFAELE,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FUGAZZOLA

FRANCESCO;

– ricorrente –

contro

G.J.F.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1796/2018 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 22/11/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 04/12/2020 dal Consigliere Relatore Dott. MILENA

FALASCHI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Josè GARAY, con ricorso ex art. 702-bis c.p.a., evocava in giudizio, dinanzi al Tribunale di Bergamo, G.A. chiedendo la risoluzione del contratto di trasferimento di quota societaria stipulato fra le parti il 19.11.2012 per inadempimento grave dell’intera obbligazione di pagamento da parte dell’acquirente, con tutti gli effetti di cui all’art. 1418 c.c. oltre ai danni, che -nella resistenza del convenuto, il quale deduceva l’esistenza di debiti sociali non dichiarati – veniva accolta.

In virtù di appello interposto da G.A., la Corte di appello di Brescia, nella resistenza dell’appellato, con sentenza n. 1796/2018, in parziale accoglimento del gravame, confermava la pronuncia di risoluzione del contratto di cessione della quota sociale Raviol Jolly di Garay Josè s.n.c. per inadempimento grave dell’acquirente, escludendo però l’effetto ripristinatorio delle posizioni in mancanza di una specifica ed espressa domanda dell’appellato in tal senso.

Avverso la sentenza della Corte di appello di Brescia ha proposto ricorso per cassazione l’originario convenuto, fondato su tre motivi.

G.J. è rimasto intimato.

Ritenuto che il ricorso potesse essere rigettato, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380-bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), su proposta del relatore, regolarmente comunicata al difensore del ricorrente, il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

In prossimità dell’adunanza camerale parte ricorrente ha curato il deposito di memoria illustrativa.

Atteso che:

– con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1440 e 1175 c.c. – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – per avere il ricorrente formulato sin dall’atto di citazione in primo grado domanda di condanna al risarcimento del danno per dolo incidente per avere il cedente dolosamente taciuto l’esistenza di debiti in sede di trattative che avrebbero inciso sulla determinazione del prezzo di vendita dell’azienda. Diversamente la Corte territoriale ha ritenuto insussistente la responsabilità precontrattuale nel caso di specie per essere il cedente comunque solidalmente responsabile per i debiti antecedenti alla cessione, senza tenere in alcun conto che la responsabilità risarcitoria ex art. 1440 c.c. sarebbe ricollegabile all’art. 1337 c.c. a prescindere dalla infondatezza della eccezione proposta ex art. 1460 c.c.. Di seguito il ricorrente formula elenco delle posizioni debitorie a suo dire sottaciute dalla controparte.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce l’omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. quale error in procedendo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, per avere la corte di appello erroneamente ritenuto assorbito ogni motivo di impugnazione con il rigetto della domanda ex art. 1460 c.c., per essere differenti i presupposti per la domanda risarcitoria ex artt. 1440 e 1175 c.c..

Con il terzo ed ultimo motivo il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1460 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 Infatti il socio cessionario ben poteva sospendere il pagamento del prezzo atteso che dopo la stipula del contratto di cessione delle quote si era palesata l’esistenza di debiti il cui ammontare era “di molto superiore rispetto a quello dichiarato dal cedente”.

I tre motivi – da trattare unitariamente per la evidente connessione argomentativa che li avvince – non possono trovare ingresso per essere manifestamente infondati.

Va premesso che in materia di compravendita delle azioni di una società, che si assuma stipulata ad un prezzo non corrispondente al loro effettivo valore, senza che il venditore abbia prestato alcuna garanzia in ordine alla situazione patrimoniale della società stessa, il valore economico dell’azione non rientra tra le qualità di cui all’art. 1429 c.c., n. 2, relativo all’errore essenziale (Cass.29.8.1995 n. 9067). Occorre a tal fine tenere presente l’oggetto della causa, vale a dire la compravendita delle azioni di una società, che si assume stipulata ad un prezzo che non corrispondeva al loro effettivo valore – non interessa, in questa ottica, se ciò sia dipeso da false informazioni sociali nell’ipotesi in cui il venditore non abbia prestato alcuna garanzia in ordine alla situazione patrimoniale della società.

La soluzione del problema si sposta, quindi, dal piano societario a quello dell’esame del contratto di compravendita – che pure abbia ad oggetto azioni di una società – secondo i comuni principi inerenti alla vendita, nella quale non sia prestata alcuna garanzia particolare da parte del venditore.

I principi dettati in materia non mutano per il solo fatto che si tratta della vendita di azioni di società.

Sotto il profilo dell’errore, la circostanza che il bilancio della società pubblicato prima della vendita sia falso e nasconda quella situazione in forza della quale si deve applicare la disciplina in materia di riduzione e perdita del capitale sòciale non implica il riferimento ad una qualità delle azioni nel senso di cui all’art. 1429 c.c., n. 2. Tale norma fa riferimento a due elementi: il comune apprezzamento o il riferimento alle circostanze.

Il primo profilo tiene conto della tipica destinazione economica della cosa, e cioè la sua destinazione oggettiva a realizzare il tipico scopo del contratto prescelto.

Deve, pertanto, trattarsi di caratteristiche inerenti alla cosa, che non consentono margini di opinabilità, in quanto non dipendono da una valutazione estimativa, e cioè da un criterio di apprezzamento del bene, alla stregua della pura e semplice “convenienza” dell’affare, nell’economia di una delle parti.

Diversamente opinando, si fornirebbe tutela ad un’errata applicazione dell’autonomia contrattuale, e cioè ai motivi che inducono a contrattare, nonchè alle personali valutazioni, di cui ciascun contraente deve assumersi il rischio.

Infatti, se per comune apprezzamento dovesse intendersi il prezzo che l’insieme degli operatori, e cioè il mercato di quel tipo di cose, attribuisce alle cose stesse, con riguardo alla vendita, l’art. 1474 c.c. anzichè applicarsi alle sole ipotesi dalla norma indicate, sarebbe di applicazione generalizzata, perchè il difetto di coincidenza fra il prezzo di mercato od il giusto prezzo ed il prezzo contrattuale consentirebbe sempre la possibilità di annullare il contratto.

L’impossibilità di tutelare i meri errori di valutazione, che influiscono soltanto sul prezzo, dipende dalla stesso sistema dell’autonomia contrattuale che riserva alla sfera dei motivi individuali, ed irrilevanti, l’apprezzamento in ordine all’utilità dell’affare.

Con riguardo alle azioni di società, le qualità delle stesse che, secondo il comune apprezzamento, devono ritenersi determinanti del consenso, debbono, pertanto, limitarsi a quelle che attengono alla funzione tipica delle azioni predette, e cioè all’insieme delle facoltà e dei diritti che esse conferiscono al loro titolare, nella struttura della società, senza alcun riguardo al valore di mercato di esse, quale può risultare dal bilancio, dallo stato patrimoniale della società e da tutti gli altri elementi che influiscono sul loro valore (Cass. 21 giugno 2006 n. 5773; Cass. 13 dicembre 2006 n. 26690). Proprio la varietà di detti elementi interni ed esterni – quali ad es. la possibilità di sviluppo dell’attività economica, la congiuntura di mercato, l’appartenenza della società ad un gruppo piuttosto che ad un altro – impedisce di inserire il valore economico dell’azione nell’ambito delle sue qualità nel senso di cui all’art. 1429 c.c. ovvero, ai sensi dell’art. 1497 c.c., quanto alla risoluzione per difetto di “qualità” della cosa venduta. Il contraente che compra (o vende) le azioni, infatti, non può essere esposto al rischio di veder annullato il negozio che ha concluso ad un prezzo concordato, mediante un’azione di annullamento che pretenda di basarsi su di una revisione del prezzo, tramite la revisione degli atti contabili, per dimostrare quello che non è altro che un errore di valutazione.

Nè, in tale ambito, si può distinguere fra le oscillazioni di valore che rientrano nell’ambito degli elementi discrezionalmente valutabili e quelle che dipendono dall’esistenza di circostanze tali da portare ad una modifica della funzionalità della società, quale è la perdita del capitale che impone la sua messa in liquidazione. Si tratta, infatti, di una differenza di “misura” che non incide sul contenuto giuridico delle azioni, quale titolo della partecipazione alla società. Si possono, infatti, ritenere rilevanti le caratteristiche che identificano le diverse categorie di azioni fornite di diritti diversi, ma non le utilità economiche – e cioè le aspettative di profitto – che l’acquirente di azioni si prefigge nella sua decisione di acquisto.

L’art. 1429 c.c., n. 2, fa, inoltre, riferimento alle circostanze, e cioè non alle valutazioni soggettive del singolo contraente, ma alle caratteristiche concrete del contratto, nel quale possono rientrare dati di fatto e/o criteri di stima influenti sul valore della cosa venduta.

Ora, non può dubitarsi che una cosa è la vendita di azioni, un’altra la vendita di beni della società – contratti del tutto autonomi e distinti -, posto che diverso è il bene oggetto della compravendita.

In questa ottica, emerge, in maniera netta, la differenza tra vendita dell’azione – cui consegue l’acquisto della status di socio ed anche la misura della partecipazione del nuovo socio nella s.n.c. – e la vendita dell’intero patrimonio o di singoli beni della società. Infatti, solo in quest’ultimo caso, oggetto della vendita sono i beni della società, e, quindi, non possono non trovare applicazione le garanzie dovuta dal venditore, con riferimento al patrimonio sociale. Nella vendita di azioni, la disciplina giuridica, invece, si ferma all’oggetto immediato e, cioè all’azione oggetto del contratto, mentre non si estende alla consistenza od al valore dei beni costituenti il patrimonio, a meno che l’acquirente, per conseguire tale risultato, non abbia fatto ricorso ad un’espressa clausola di garanzia, frutto dell’autonomia contrattuale, che consente alle parti di rafforzare, diminuire, od escludere convenzionalmente la garanzia, in modo da ricollegare esplicitamente il valore dell’azione al valore dichiarato del patrimonio sociale.

Non esiste alcuna norma, infatti, che preveda, in ipotesi di vendita di azioni, il riferimento al dato dell’esattezza e della veridicità del bilancio, quale necessario parametro del valore reale delle azioni.

La conseguenza è che, anche nella compravendita delle azioni, in mancanza di specifiche garanzie, assunte dal venditore, la determinazione del prezzo delle azioni è rimessa alla libera volontà delle parti, con conseguente irrilevanza dell’errore in ordine al valore reale dell’azione.

Con riferimento, poi, al dolo, che può comportare – secondo la giurisprudenza di legittimità l’annullamento del contratto in relazione ad ogni tipo di errore determinante del consenso (Cass.21 gennaio 1996 n. 5773; Cass. 5 febbraio 2007 n. 2479), deve precisarsi che non si nega in astratto la possibilità che la compravendita di azioni possa essere affetta dal vizio costituito dal dolo determinante, ma si precisa che il semplice mendacio o le omissioni sulla situazione patrimoniale della società non sono da sole sufficienti. In sostanza, ricorre il dolus malus solo se, tenuto conto delle circostanze di fatto e delle qualità e condizioni dell’altra parte, il mendacio sia accompagnato da malizie ed astuzie volte a realizzare l’inganno voluto ed idonee in concreto a sorprendere una persona di normale diligenza.

Ciò vuol dire che il dolo è rilevante, e la parte ingannata riceve protezione, soltanto se la buona fede non sia costituita da negligenza o da ignoranza.

Passando all’esame della fattispecie concreta, deve, in via preliminare, rilevarsi che il ricorrente indulge, nell’esposizione dei motivi, ad una “rivisitazione” nella ricostruzione dei fatti di causa che appartiene al giudice di merito e non è consentita in questa sede, se la motivazione è esente da vizi logici e giuridici. Infatti, i motivi di ricorso per cassazione, con i quali la sentenza impugnata venga censurata per vizio della motivazione, non possono essere intesi a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte.

In caso contrario, infatti, il motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, ovvero di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di Cassazione.

Al riguardo questa Corte ha chiarito, anche a Sezioni Unite, che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, censurabile ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. Un. 27 dicembre 2019 n. 34476; Cass. 8 novembre 2019 n. 28887).

In particolare le doglianze contenute nell’odierno ricorso, sotto l’apparente deduzione del vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione, tralasciando di considerare che il fatto storico non può identificarsi con il difettoso esame delle risultanze istruttorie.

In breve, la censura sottoposta trapassa il modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 c.p.c., n. 5, perchè pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti, senza neppure confrontarsi con la ratio decidendi della sentenza gravata.

Invero, il ricorso neanche deduce che vi siano state dichiarazioni mendaci od omissione sulla situazione patrimoniale della società accompagnate da malizie e astuzie volte a realizzare l’inganno e a sorprendere una persona di normale diligenza, riferendo esclusivamente della consapevolezza della esistenza di ulteriori posizioni debitorie della società da parte del cedente. E per tale ragione la Corte di merito ha ritenuto non legittimamente esercitata l’eccezione di cui all’art. 1460 c.c. e per l’effetto ha ritenuto grave l’inadempimento del ricorrente relativo alla sospensione del pagamento del prezzo pattuito.

Di siffatta argomentazione il ricorrente non tiene alcun conto nelle censure qui formulate.

In conclusione, non può trovare ingresso, anche alla luce del regime di sindacato minimale ex art. 360 c.p.c., n. 5 novellato.

In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

Non essendo state svolte difese dalla controparte rimasta intimata, non vi è pronuncia sulle spese processuali.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorsot

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1-qualer, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1 comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della VI-2 Sezione Civile, il 4 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2021

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