Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17052 del 21/07/2010

Cassazione civile sez. trib., 21/07/2010, (ud. 18/03/2010, dep. 21/07/2010), n.17052

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ALTIERI Enrico – Presidente –

Dott. D’ALONZO Michele – rel. Consigliere –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.S., residente in (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

Roma alla Via dei Tre Orologi n. 20 presso l’avv. Picozza Paolo

insieme con gli avv. CACCIATO Giuseppe e CASUSCELLI Giuseppe (del

Foro di Milano) che lo rappresentano e difendono in forza della

procura speciale rilasciata a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

l’AGENZIA delle ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma alla Via dei Portoghesi n. 12

presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e

difende;

– controricorrente –

AVVERSO la sentenza n. 108/35/95 depositata il 12 luglio 2005 dalla

Commissione Tributaria Regionale della Lombardia;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 18 marzo 2010

dal Cons. Dr. Michele D’ALONZO;

sentite le difese delle parti, perorate dall’avv. CACCIATO Giuseppe,

per il ricorrente, e dall’avv. PALATIELLO Giovanni (dell’Avvocatura

Generale dello Stato), per l’Agenzia;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dr. SEPE

Ennio Attilio, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso notificato il giorno 11 ottobre 2006 all’AGENZIA delle ENTRATE (depositato il 20 ottobre 2006), C.S. – premesso che con avviso di accertamento notificato il 27 ottobre 1999 l’Ufficio, richiamati i “processi verbali di constatazione … del 10 il settembre 1997 … della G.F. di Milano” e contestato, per l’anno d’imposta 1993, l’omessa dichiarazione dei “redditi di capitale derivanti dagli investimenti intrattenuti all’estero” (pari a L. 2.712.456.000), aveva (a) sottoposto a tassazione gli “interessi maturati” su detti investimenti, quantificati ai sensi della L. n. 227 del 1990, art. 6 tenuto conto “dei periodi di accreditamento e addebitamento e del tasso ufficiale di sconto” (“tasso” calcolato, per detto atto, “nella misura del 9,882%”), b) rettificato il reddito dichiarato e (c) irrogato “la sanzione per infedele dichiarazione IRPEF nel massimo edittale” -, in forza di otto motivi, chiedeva di cassare la sentenza n. 108/35/95 della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia (depositata il 12 luglio 2005) che aveva disatteso il suo appello avverso la decisione (361/35/01) della Commissione Tributaria Provinciale di Milano la quale, in parziale accoglimento del ricorso, aveva determinato “i redditi di capitale soggetti a tassazione separata in L. 956.552.021” e le “penalità di conseguenza”.

Nel proprio controricorso l’Agenzia intimata instava per il rigetto dell’avversa impugnazione.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Nella sentenza gravata la Commissione Tributaria Regionale – ricordato che “il ricorso … si fonda sull’avviso di accertamento per IRPEF anno 1993, con il quale l’Ufficio … rettificava il reddito dichiarato dal contribuente tenuto conto dal P.V. della Guardia di Finanza notificato al contribuente stesso” e che “la rettifica del reddito dichiarato trae origine dal fatto che il contribuente aveva omesso di dichiarare i redditi di capitale derivanti dalla disponibilità di somme di denaro detenute all’estero” (per le quali detto Ufficio aveva proceduto “alla determinazione dei redditi di capitale ai sensi della L. n. 227 del 1990, tenuto conto degli addebitamenti e accreditamenti dei conti esteri e del tasso ufficiale di sconto”) – espone:

(a) in primo grado:

a1) “il contribuente” ha chiesto “l’annullamento dell’accertamento” per:

(1) “falsa ed erronea valutazione dei presupposti, anche in relazione alla natura illecita delle somme e dei valori considerati e dei relativi presunti frutti quali risultano dagli atti del P.V.”;

(2) “inesistenza o nullità dell’autorizzazione del P.M. per l’utilizzo dei dati raccolti ai fini fiscali”;

3) “carenza di motivazione perchè concretato per relationem al P.V. della Guardia di Finanza, basato per lo più su prove testimoniali desunte da processi penali nonchè su rogatorie internazionali”;

(4) “violazione del divieto di utilizzo di presunzioni a catena”;

(5) “erronea valutazione dei fatti materiali desunti dai procedimenti penali”;

(6) “inesistenza del maggior reddito”;

a2) l’Ufficio si è riportato “ai motivi dell’accertamento”;

(b) il giudice di primo grado ha accolto “in parte” il “ricorso” (“determinava il reddito di capitali, in applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 41 e della L. n. 227 del 1990,art. 6 in L. 956.552.021; annullava la ripresa relativa ai redditi diversi per L. 31.800.000”) “ritenendo ed osservando”:

(1) “la L. n. 227 del 1990 prende in considerazione la detenzione di redditi all’estero, indipendentemente dal fatto che tali redditi siano di proprietà del contribuente o meno e che, nella fattispecie, risultava incontrovertibile che il C. avesse la disponibilità di conti esteri, posto che la movimentazione di tali conti era dallo stesso effettuata in forma autonoma” (“secondo i primi giudici, in base alla norma dell’art. 6 della stessa legge i soggetti che detenevano somme all’estero, senza che risultino dichiarati i redditi effettivi, per legge si presume che siano fruttiferi di interessi al tasso ufficiale medio di sconto vigente in Italia nel periodo di imposta, salvo prova contraria. Nel caso di specie, il ricorrente non aveva prodotto alcuna prova contraria, tale da far ritenere alla Commissione Provinciale di non avere percepito tali interessi”);

“per quanto riguarda poi il fatto che si trattava di capitali detenuti illegalmente, i primi giudici osservavano che a norma della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4, nella categoria di reddito tassabile devono ricomprendersi anche i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificati come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale”:

“poichè il ricorrente non aveva dimostrato che all’epoca dei fatti contestati in accertamento, i redditi erano già sottoposti a sequestro o confisca penale, legittimamente l’Ufficio aveva accertato i relativi redditi di capitale”;

(2) “in merito all’inesistenza dell’autorizzazione da parte dei P.M. per l’utilizzo ai fini fiscali della documentazione acquisita a seguito di indagini di Polizia Tributaria, la Commissione Provinciale riteneva che tale autorizzazione risultava essere stata richiesta e concessa dai magistrato inquirente”;

(3) “in merito alla mancanza di motivazione, la Commissione rilevava che nell’avviso di accertamento erano indicati tutti gli elementi in base ai quali l’Ufficio aveva accertato un reddito diverso da quello dichiarato dal contribuente”;

(4) “per quanto riguarda l’utilizzo di presunzioni a catena, i primi giudici ritenevano che l’Ufficio non aveva fatto altro che sulla base della verifica effettuata, utilizzare le presunzioni legali di cui alla L. n. 227 del 1990”;

(5) “in merito alla erronea valutazione dei fatti materiali desunti dai procedimenti penali, si rilevava che lo stesso ricorrente aveva ammesso che le somme accertate erano da lui detenute anche se per conto di terzi.

Che poi tali somme fossero state trattenute dal contribuente, non era considerato rilevante, posto che nell’anno accertato non veniva fornita la prova che tali somme non erano più nella sua disponibilità”;

(6) “nel merito, infine, si osservava che dalla documentazione prodotta emergeva che nell’anno accertato alcuni conti risultavano chiusi. Pertanto, gli interessi presunti non potevano essere calcolati per l’intero anno e, comunque, successivamente alla chiusura del conto”;

“il calcolo degli interessi accertati dalla Commissione Provinciale veniva cosi rivisto” omissis); “vendita di immobile in Lussemburgo avvenuta il … 6 luglio 1993 per L. 3.000.000.000 interessi: L. 144.574.982”: “totale interessi: L. 956.552.021”; “in ordine alle eccezioni del ricorrente sulle movimentazioni dei vari conti, si osservava che le stesse non meritano accoglimento in quanto non sono supportate da alcuna documentazione atta a far ritenere i dati che emergono dall’accertamento che si rifà al P.V. della Guardia di Finanza inattendibili”;

c) in appello:

(c1) il C. ha svolto “i seguenti motivi di impugnazione”:

“motivo n. 1: omessa pronuncia sulla eccezione relativa alla tardiva costituzione in giudizio dell’Ufficio”;

“motivo n. 2: la sentenza gravata avrebbe omesso di pronunciare, ed in parte pronunciato con motivazione erronea e contraria a legge, ritenendo che “il C. avesse la disponibilità di conti esteri…. posto che la movimentazione di tali conti era dallo stesso effettuata in forma autonoma”;

“motivo n. 3: la sentenza gravata si limiterebbe ad asserire che l’autorizzazione “risulta essere stata richiesta e concessa dal magistrato inquirente”;

“motivo n. 4: … aveva eccepito la nullità dell’accertamento per carenza di motivazione.

La sentenza gravata non prenderebbe in esame alcuna delle doglianze per confutarle, ma si limita alla stringata quanto apodittica contraria asserzione “che nell’avviso di accertamento sono indicati tutti gli elementi in base ai quali l’Ufficio ha ritenuto doversi accertare un reddito diverso da quello dichiarato dal Contribuente”;

“motivo n. 5: … aveva eccepito la nullità dell’accertamento per la violazione del divieto di utilizzo di presunzioni “a catena”.

I giudici di primo grado si sarebbero limitati ad osservare che “l’Ufficio non ha fatto altro che, sulla base della verifica effettuata, utilizzare le presunzioni legali di cui alla L. n. 227 del 1990”;

“motivo n. 6: … aveva eccepito la invalidità dell’accertamento conseguente alla erronea valutazione dei fatti materiali desunti dai procedimenti penali a suo carico, fornendo la prova che il Tribunale Penale di Milano aveva pronunciato nel senso che “è del tutto evidente che lo stesso ( C.) non ha trattenuto le ingenti somme qui ricordate per interesse personale”. … la sentenza gravata avrebbe ritenuto che questa circostanza “non appare qui rilevante, posto che nell’anno accertato non viene fornita la prova che tali somme non erano più nella sua disponibilità”;

“motivo n. 7: … aveva segnalato notevoli discrepanze ed imperfezioni dei PP.VV. e del verbale d’accertamento, analizzandone alcune di maggior rilievo al fine di dimostrare l’infondatezza, la superficialità e l’erroneità delle conclusioni dell’Ufficio, con conseguente invalidità dell’accertamento.

In particolare, … si doleva che l’Ufficio, nel determinare gli interessi per l’anno 1993, avesse pretermesso la circostanza che i PP.VV. predisposti dalla Guardia di Finanza fornivano la prova documentale che i conti esteri erano stati svuotati interamente tra il marzo e l’aprile del 1993 per disposizione del … G., di guisa che non potevano sussistere quei saldi dei medesimi conti al 31 dicembre 1993, che l’Ufficio invece supponeva esistenti” “secondo l’appellante, la sentenza gravata, non potendo negare l’evidenza, avrebbe proceduto ad un nuovo calcolo degli interessi maturati sui singoli conti fino al giorno di chiusura (sebbene nè esso … C. nè l’Ufficio lo avesse richiesto) anzichè annullare l’accertamento per la manifesta sussistenza di un vizio formale, quale è il praesumptum de praesumpto”;

“motivo n. 8: … aveva chiesto alla Commissione Provinciale di dichiarare comunque non dovute le sanzioni pecuniarie perchè il contribuente non era tenuto ad auto-denunciarsi (pag. 29 del ricorso). Anche su questa domanda la sentenza gravata avrebbe omesso la pronuncia”;

(c2) l’Ufficio ha opposto “le seguenti obiezioni”;

(1) “in relazione al motivo di impugnazione fondato sull’art. 116 c.p.p., … che risulta essere stata richiesta e, successivamente concessa dal P.M., l’autorizzazione per l’utilizzo ai fini fiscali della documentazione acquisita a seguito di indagini di polizia tributaria”;

(2) “con riferimento a quanto sostenuto dall’appellante, secondo il quale l’Ufficio avrebbe recepito acriticamente quanto verbalizzato dai militari della Guardia di Finanza, … nell’avviso di accertamento sono indicati tutti gli elementi in base ai quali l’Ufficio ha ritenuto doversi accertare un reddito diverso da quello dichiarato dal contribuente” (“elementi che hanno consentito al contribuente di conoscere la pretesa dell’Ufficio e di potersi adeguatamente difendere”); omissis);

(3) “anche nell’ipotetica presenza di una motivazione per relationem, nel caso di motivazione con rinvio alle considerazioni sviluppate dalla Guardia di Finanza, non è fondato ritenere che l’Ufficio sia venuto meno al suo dovere di motivazione dell’atto” essendo “l’Amministrazione … libera di condividere appieno le argomentazioni formulate dalla Guardia di Finanza, senza che ciò possa significare l’esclusione di una autonoma valutazione”;

“nel caso di specie, l’Ufficio ha messo il ricorrente nella duplice condizione di conoscere l’an debeatur ed i motivi ed il procedimento seguiti”;

4) “con riferimento ad una presunta erronea valutazione dei fatti desunti dai procedimenti penali l’Ufficio ritiene che “la verità processuale dei fatti accertata nel procedimento penale determina, al contrario, un rafforzamento della legittimità delle sanzioni tributarie”;

(5) “con riferimento al nuovo calcolo effettuato dai giudici della Commissione Tributaria Provinciale” che l’operazione è “corretta” anche se l’afferente “provvedimento del giudice incorre … nel vizio di extrapetizione” “violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto (annullamento in toto dell’atto) e il pronunciato (diverso calcolo degli interessi)” perchè “tale rideterminazione degli interessi” non è stata “richiesta dal contribuente nel ricorso di primo grado” “per cui l’Ufficio … chiede la conferma integrale dell’atto posto in essere e … “… la condanna dell’appellante all’adempimento dell’obbligazione tributaria pendente”).

Ciò esposto, la stessa Commissione – reietta la “domanda riconvenzionale” recte: appello incidentale “svolta dall’Ufficio in quanto il criterio ed il conteggio seguiti dalla Commissione Provinciale per ridimensionare il “quantum” dell’accertamento sembrano corretti e condivisibili” – ha disatteso l’impugnazione del C. osservando:

“le ragioni opposte dall’Ufficio in corrispondenza a ciascun motivo di impugnazione” privano di “giuridico fondamento ed attendibilità le ragioni svolte dall’appellante in ordine a ciascun motivo di impugnazione” essendo “incontrovertibile” la “circostanza che le somme di che trattasi erano nella disponibilità del contribuente e, nel limitato periodo preso in considerazione dalla sentenza appellata, erano produttive di interessi”.

2. Il C. contesta tale decisione con otto motivi.

A. Con il primo il ricorrente – premesso che aveva impugnato l’”A.d.A.” opponendo: (a) l’”illegittimità dell’accertamento per falsa ed erronea valutazione dei presupposti, anche in relazione alla natura illecita dei proventi considerati e dei relativi presunti frutti”; b) l’”illegittimità dell’autorizzazione del P.M. ex art. 116 c.p.p. e la sua invalidità per carenza di legittimazione”; (c) la “nullità dell’atto impugnato per carenza di motivazione” (“perchè concretato per relationem al PVC della G.F.” e “basato … su prove testimoniali desunte da processi penali nonchè su rogatorie internazionali”); (d) la “nullità dell’accertamento per violazione del divieto di utilizzo di presunzioni a catena”; (e) l’”erronea valutazione dei fatti materiali desunti dai procedimenti penali”; (f) l’”illegittimità dell’accertamento perchè non preceduto dalla “espressa richiesta” prescritta dal D.L. n. 167 del 1990, art. 6” oltre che per “manifeste incongruenze e discrasie nella ricostruzione dei movimenti e saldi dei conti” (quindi “degli interessi presunti”) – denunzia “omessa pronunzia sui motivi del ricorso (introduttivo, riproposti) in appello” nonchè “violazione degli artt. 276 e 277 c.p.c. per omessa o insufficiente motivazione” esponendo che “l’estrema concisione della parte motiva della sentenza rende … manifesto che i giudici di appello … non hanno realmente preso in esame nessuno dei motivi di ricorso”.

Lo stesso ricorrente – dichiarato voler (“intendendo così”) “evitare per economia di giudizio, il riesame di questioni sulle quali si è formato un orientamento giurisprudenziale consolidato” -, di poi, prospetta, “nel prosieguo” (ovverosia nei successivi motivi di ricorso), “solo taluni” di detti “motivi e delle questioni … (ri)proposti nel giudizio di appello”.

B. Con il secondo motivo il C. denunzia “violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2, del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 16, comma 2, e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4” nonchè “carenza di motivazione sulla valenza probatoria di dichiarazioni e testimonianze acquisite aliunde” in ordine alla pretesa “titolarità e/o piena disponibilità, diretta o indiretta, di conti esteri” da parte sua adducendo:

– l’Ufficio non ha indicato gli “elementi probatori”, non ha “dato atto del valore probatorio attribuito agli atti del procedimento penale”, non ha “esplicitato l’iter logico che lo ha condotto ad ascrivere gli investimenti e disponibilità estere e la relativa redditività presunta” ad esso C. per cui “emerge … l’illegittimità dell’avviso di accertamento per violazione dell’obbligo della motivazione” in quanto “non riporta in modo autonomo gli elementi probatori tratti dal processo penale e non ne compie una valutazione circa la rilevanza e valenza probatoria nel procedimento di accertamento del tributo”, anche “per quanto attiene la parte sanzionatoria” (“D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 16, comma 2”), e, “in ogni caso” perchè “il rinvio è stato fatto per relationem ai PVC che hanno recepito pedissequamente le dichiarazioni testimoniali di terzi, … senza vaglio critico”;

– sulla “quantificazione della redditività (interessi)” lo stesso Ufficio, “senza effettuare indagini integrative”, “ha presunto sia il periodo di permanenza sia … la quantificazione reddituale, senza indicare sulla base di quali elementi e con quali criteri” mentre la G.d.F. ha dichiarato che “non è possibile … stabilire il periodo di permanenza degli investimenti sui conti correnti in questione” e quindi “quantificare la redditività effettiva prodotta dagli investimenti degli importi ricevuti all’estero”.

Il ricorrente, di poi, assunto che “le dichiarazioni dei testimoni nel processo “Enimont”, imputati di reati connessi, verosimilmente, sono state influenzate e condizionate da loro interesse personale ad attenuare le proprie posizioni e responsabilità”, aggiunge:

– “la decisione di merito …, recependo … le valutazioni della G.F., è stata fondata sulle prove testimoniali acquisite in sede penale” mentre il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7 dispone che “nel processo tributario non è ammessa la prova per testi”;

– “la sentenza gravata, peraltro, non ha effettuato alcuna valutazione delle dichiarazioni, testimoniali e delle dichiarazioni rese nel processo penale nè ha dato alcuna motivazione in relazione alla valenza probatoria nel processo tributario”.

C. Con il terzo motivo il ricorrente denunzia “omessa motivazione” sul “fatto controverso e decisivo” che “fiduciaria di G., relativamente ai conti esteri per cui è causa, fosse la società lussemburghese F.J.” e non esso C., che non era “intestatario di alcuno dei conti”, non li aveva “gestiti”, non aveva “potere di firma” e non aveva “tratto alcun profitto dalle somme attribuitegli”, con conseguente “violazione del divieto di presunzioni a catena ex art. 2727 c.c.”.

Secondo il C. “la sentenza impugnata … ha omesso ogni considerazione e motivazione sui fatti di segno contrario indicati nelle difese” (“fatti forniti di precisi ed univoci, riscontri documentali agli atti di causa”) ed è “incorsa nel(la) violazione della regola praesumptum de praesumpto non datur, in violazione dell’art. 2727 c.c.” perchè:

“i P.V.C, davano atto che fiduciari di G. per i conti esteri ricondotti” ad esso C. “erano la società lussemburghese F.J. ed altri ( B. e Bi.)”, che egli “non era intestatario di alcuno dei conti, non li gestiva, non aveva poteri di firma, … non ha tratto alcun profitto dalle somme che sono state a lui ricondotte” (“egli si limitava a trasmettere disposizioni, in nome e per conto del fiduciante, ai fiduciari stessi o ai soggetti abilitati alla movimentazione dei conti”);

– “nel processo penale” è stato accertato che egli “ha svolto nella vicenda Enimont una mera attività di tramite; per comunicare le disposizioni di G. relative alla distribuzione a terzi di somme tratte dalla “provvista” (“agiva, dunque, nomine et jure alieno, nel nome e per conto del fiduciario. … trasmetteva come una sorta di nuncius istruzioni e volontà dell’effettivo titolare”);

– “la disponibilità e la titolarità di somme” in capo a lui “sono state … escluse dalla sentenza … del Tribunale di Milano … 28 aprile 1994 n. 2047 “si può ritenere che C. non ha trattenuto a proprio profitto le somme contestate”; “è del tutto evidente che lo stesso non ha trattenuto le ingenti somme qui ricordate per interesse personale”.

Per il ricorrente, quindi, “l’accertamento” è “frutto di un metodo deduttivo fondato su presunzioni in serie ed a cascata … così articolato: … C. ha concorso a formare e “convogliare” la … provvista ” Bo.” con il compito di riferire a fiduciari e intestatari dei conti le volontà del fiduciante; da ciò si è presunto che avesse la disponibilità degli investimenti; movendo da questa presunzione si è desunto … che il tempo di permanenza degli investimenti sui conti fosse dell’intero anno solare 1993; su entrambe le presunzioni è fondata la presunzione di fruttuosità dei depositi e del quantum imponibile”.

D. Con il quarto motivo il C. – esposto (a) che “è stato destinatario di analogo A.d.A. per … omessa dichiarazione di redditi di capitali per il periodo d’imposta 1992 derivanti da disponibilità estere, emerse nel corso del medesimo procedimento penale “Enimont” …, frutto delle stesse disponibilità finanziarie costituite all’estero da G., gestite dai medesimi fiduciari e movimentate dai medesimi soggetti con poteri di firma” e (b) che in ordine a detto “A.d.A.” la Commissione Tributaria Provinciale di Milano, con “sentenza n. 344/25/99 … passata in giudicato”, ha accolto il suo ricorso (relativo a detta annualità) “anche nel merito” – denunzia “contrasto con l’art. 2909 c.c. per essere intervenuta, su analoga lite tra le stesse parti, per il periodo d’imposta 1992, sentenza passata in giudicato che ha statuito l’insussistenza del presupposto d’imposta in fatto ed in diritto”: secondo il ricorrente gli “effetti” del “giudicato” – formatosi (a) “in fatto”, “sull’insussistenza del presupposto d’imposta” e (b) “in diritto”, “sulla non tassabilità di quei proventi di attività illecita” – debbono “estendersi alla presente controversia perchè … le due vicende processuali hanno in comune le parti ed i fatti” (“presunzione di redditi derivanti dal possesso dei medesimi capitali esteri, presunta intestazione fiduciaria, etc.”).

E. Con il quinto motivo il ricorrente denunzia “violazione del combinato disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 1 e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, e del D.L. n. n. 167 del 1990, art. 6” assumendo che il giudice del merito – laddove ha “sostenuto” (recependo le “deduzioni della Polizia Tributaria”) che “egli è stato “titolare apparente” delle disponibilità estere e in quanto tale obbligato a presentare la dichiarazione (quadro W)” – ha dato al termine “detenzione” utilizzato dal legislatore nel D.L. n. 167 del 1990, art. 4, comma 1, “un’estensione talmente ampia da comprendere ogni sorta di condotta riferibile a quei conti, ivi compreso il “concorso esterno” in falso in bilancio per la gestione dei fondi neri Enimont (reati per i quali esso C. è stato … condannato) ravvisato nel comunicare a soggetti terzi (fiduciari e gestori) le disposizioni di G. titolare in ordine alla movimentazione di quella provvista”.

Secondo il C. “questa accezione snatura il significato tecnico-giuridico di detenzione e non è conforme alla ratio complessiva del D.L. n. 167 del 1990 e contrasta con i principi di diritto in tema di configurazione dei presupposti d’imposta” – per i quali, “quanto agli obblighi dichiarativi del quadro W”, “il soggetto tenuto agli adempimenti non può che essere il detentore qualificato”, ovverosia “il detentore … che sia il reale titolare del rapporto o … il detentore anche nell’interesse altrui, che risulti tale in forza di formali intestazioni fiduciarie o di formali attribuzioni del potere di firma idonee a consentirgli di operare sui conti e di movimentare il via diretta la disponibilità” – in quanto:

– considerato lo “scopo del decreto legge” (“monitorare ed individuare i soggetti residenti che muovono, trasferiscono e detengono capitali all’estero”) e tenuto conto della distinzione posta in diritto civile tra “detenzione qualificata” “possesso quale stato di fatto che determina il potere di esercitare atti sulla cosa (uti dominus) in sincronia con l’animus di tenere la cosa quale titolare di un diritto reale” e “detenzione nell’interesse altrui” (“che presuppone l’intento di tenere la cosa in adempimento di un obbligo verso altri (jure et nomine alieno)”), “il soggetto tenuto agli a-empimenti non può che essere il detentore qualificato”, ovverosia “il detentore … che sia il reale titolare del rapporto o … il detentore anche nell’interesse altrui, tale risultando in forza di formali intestazioni fiduciarie o di formali attribuzioni del potere di firma che gli consentano di operare sui conti e di movimentare il via diretta la disponibilità”;

– “in tema di IRPEF, il criterio di collegamento del presupposto d’imposta col soggetto passivo” è (D.P.R. n. 917 del 1986, art. 1”) il “possesso di redditi”, laddove il “termine “possesso” … individua un criterio di riferimento del reddito alla sfera del soggetto che è qualcosa di più della mera detenzione”;

– “un diverso significato del termine “possesso” … condurrebbe alla palese violazione del principio costituzionale della capacità contributiva (art. 53 Cost.)” in quanto “produrrebbe l’effetto di far pagare le imposte ad un soggetto diverso da quello … titolare del reddito” che “dispone della capacità contributiva”.

Nel caso, per il ricorrente, “è incontrovertibile (perchè documentalmente provato in atti) come” egli “non fosse neppure detentore semplice delle disponibilità estere, essendo i conti riconducibili ad altri ( G. per Montedison), intestati e gestiti da altri (i fiduciari F., Be., Bi. e Cr.) e materialmente movimentati da altri ( Cr., d.T.)”.

F. Con il sesto motivo il C. – assunto che “nel marzo 1994” aveva “fatto pervenire tutte le somme che residuavano sui conti esteri … al Tribunale Penale di Milano, che ne disponeva il sequestro penale quale corpo di reato (ord. Trib. Milano … 30 marzo 1994 e 15 aprile 1994)” – denunzia “omessa pronuncia sul motivo di illegittimità dell’accertamento … perchè i proventi accertati sono stati sottoposti a sequestro” (“fatto impeditivo o estintivo dell’obbligazione tributaria”), con “conseguente … violazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4”, adducendo non potersi “ritenere fondata” la “tesi secondo la quale, al fine predetto, occorre che il provvedimento ablatorio sia intervenuto entro lo stesso periodo di imposta cui il provento si riferisce” perchè:

(1) “una conclusione siffatta … pone forti dubbi di legittimità costituzionale in riferimento al principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. … e violerebbe il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.)”;

(2) “nel nostro ordinamento vige il principio di ripetizione dell’indebito” (“D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38”) che consente di proporre “domanda di rimborso … nel caso di … inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento” di tal che, potendo “l’inesistenza dell’obbligazione .., scaturire anche da vicende successive al periodo di imposta”, le “vicende” che “consentono la ripetizione dei tributi indebiti spontaneamente versati, a fortiori, devono rilevare in sede di accertamento … inibendo all’Amministrazione finanziaria l’emissione dell’atto; o, addirittura, fintanto che non si è formato il giudicato, “travolgendo l’atto impositivo per caducazione del titolo giustificativo” (“così Cass. … 19 aprile 1995 n. 4381 e 16 aprile 1997 n. 3259”): “nel caso dei proventi illeciti è il legislatore che prevede la fattispecie (provvedimento ablativo di sequestro o di confisca) di “caducazione del titolo giustificativo”.

G. Nel settimo motivo il ricorrente denunzia “omessa pronuncia su questioni di fatto prospettate nella parte C, motivo 7, del ricorso in appello” (questioni sintetizzabili nell’assunto “i saldi finali al 31 dicembre 1992 sono grandemente diversi dai saldi iniziali al 31 gennaio 1993 perchè erronei”) e “conseguente … violazione degli artt. 276 e 277 c.p.c.2, nonchè “omessa o insufficiente motivazione”, adducendo balzare (“balza”) “dal motivo di appello” (riprodotto alle pagg. 44-48 del ricorso) “all’evidenza che non vi è un quadro probatorio che consenta di sostenere la sussistenza dell’obbligazione tributaria ed il quantum determinato nella sentenza di primo grado con quell’atto gravata” avendo i “redattori del PVC … dato atto … che sulla base degli elementi acquisiti vi era l’impossibilità di determinare gli interessi maturati”.

H. Con l’ottavo (ultimo) motivo il C. – esposto aver in primo grado ed in appello sostenuto (richiamando “Cass., … 1^, 19 aprile 1995 n. 4381 e 16 aprile 1997 n. 3259”) che “le sanzioni non si sarebbero dovute applicare” in forza del “principio generale che nessuno è tenuto ad autodenunziarsi” – contesta una “omessa pronuncia sulla domanda di dichiarare non dovute le sanzioni pecuniarie” (e la “conseguente … violazione degli artt. 276 e 277 c.p.c.”), oltre che “omessa o insufficiente motivazione”, esponendo che sul punto la “sentenza qui gravata” ha replicato l’afferente “omissione di pronuncia” del giudice di. primo grado.

3. Il ricorso deve essere respinto perchè infondato.

In via preliminare va rilevata l’ininfluenza dei formulati quesiti di diritto (che, per tale ragione, non sono stati riprodotti) attesa l’inapplicabilità al ricorso del C. della norma che li prevede(va) (essendo stata abrogata dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d), dettata dall’art. 366 bis c.p.c., in quanto con lo stesso si impugna una sentenza depositata prima del 2 marzo 2006, giorno di entrata in vigore di detta norma (inserita dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, a far data dal 2 marzo 2006 detto).

A. L’omissione, sia dell’”esame” che della “pronuncia”, su “tutti i motivi e le questioni preliminari proposti” (“pregiudiziali e di merito”), lamentata con la prima doglianza, proprio perchè prospettata come attinente a “motivi” ed a “questioni” e non già (tenuto conto che per l’art. 277 c.p.c., comma 1 invocato dal ricorrente, “il collegio nel deliberare sul merito deve decidere tutte le domande proposte e le relative eccezioni, definendo il giudizio”) a “domande” e/o ad “eccezioni”, si rivela del tutto inconferente in forza del principio – da ribadire per carenza di convincente argomentazione contraria – secondo cui (Cass., 1^, 2 luglio 2004 n. 12121, che richiama “Cass. nn. 13359/1999, 13342/1999, 5537/1997, 10703/1994”) quando “il giudice abbia indicalo le ragioni del suo convincimento” non è necessaria una “confutazione esplicita” di “tutte le argomentazioni svolte dalle parti” perchè dette “ragioni” costituiscono implicito rigetto delle “prospettazioni con esse logicamente incompatibili” (secondo Cass., 3^, 29 luglio 2004 n. 14486, peraltro, anche “la mancata espressa pronunzia sull’eccezione non può che considerarsi implicito rigetto della stessa, essendo incompatibile il suo accoglimento con la statuizione di accoglimento della pretesa del ricorrente”).

Nel caso lo stesso ricorrente riconosce, nella sostanza, che la sentenza impugnata – nella quale il giudice di appello (come riportato innanzi con larga esposizione testuale per rappresentare appieno il percorso logico giuridico seguito dallo stesso) espone compiutamente i motivi del ricorso di primo grado, le ragioni addotte dalla Commissione Provinciale a fondamento della decisione adottata, i motivi di gravame proposti dal contribuente e le osservazioni dell’Ufficio in appello ha implicitamente (ma in maniera univoca, attesa la totale loro incompatibilità logica con la decisione adottata) rigettato quei “motivi” e quelle “questioni preliminari” (“pregiudiziali e di merito”): con gli ulteriori motivi di ricorso, infatti, il C. (ai sensi dell’art. 360 c.p.c.) ha censurato proprio l’implicito rigetto di “taluni” di detti motivi e/o questioni (espressamente dichiarando di rinunciare agli altri non riproposti).

Molti di quei motivi e questioni, peraltro, denunziano unicamente vizi sussumibili nella previsione dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (“violazione o falsa applicazione di norme di diritto”): in tali casi, però, in ossequio al disposto dell’art. 384 c.p.c., comma 2 (testo originario, anteriore a quello sostituito dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 12) – per il quale “non sono soggette a cassazione le sentenze erroneamente motivate in diritto, quando il dispositivo sia conforme al diritto” -, questa Corte, una volta riscontrata la rispondenza “al diritto” del dispositivo adottato nella sentenza impugnata, non può procedere alla cassazione di quest’ultima in quanto il positivo riscontro di detta conformità consente soltanto di correggere la “motivazione” della stessa.

Quei vizi, comunque, non potrebbero portare alla cassazione della decisione gravata che ne fosse affetta neppure in ipotesi di riscontrata non rispondenza del suo dispositivo “al diritto” atteso che il medesimo art. 384, comma 1, ultimo inciso (testo originario) impone a questo giudice di legittimità di decidere “la causa nel merito” tutte le volte che “non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto”, “accertamenti”, di norma, non necessari quando la controversia involge esclusivamente questioni di diritto.

B. La complessiva censura svolta nel secondo motivo – (a) “violazione dell’obbligo della motivazione” perchè l’Ufficio (a1) “non riporta in modo autonomo gli elementi probatori tratti dal processo penale e non ne compie una valutazione circa la rilevanza e valenza probatoria nel procedimento di accertamento del tributo” (ma ha fatto un “rinvio … per relationem ai PVC che hanno recepito pedissequamente le dichiarazioni testimoniali di terzi, … senza vaglio critico”) e (a2) “ha presunto sia il periodo di permanenza sia … la quantificazione reddituale, senza indicare sulla base di quali elementi e con quali criteri” mentre la G.d.F. ha dichiarato che “non è possibile … stabilire il periodo di permanenza degli investimenti sui conti correnti in questione” e quindi “quantificare la redditività effettiva prodotta dagli investimenti degli importi ricevuti all’estero”; (b) “la decisione di merito …, recependo … le valutazioni della G.F., è stata fondata sulle prove testimoniali acquisite in sede penale” mentre il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7 dispone che “nel processo tributario non è ammessa la prova per testi” – denunzia, nella sostanza, insussistenti violazioni di legge avendo questa sezione da tempo statuito che:

– l’avviso d’accertamento motivato per relationem, quand’anche con riferimento “acritico” ad atti o verbali formati dalla Guardia di Finanza (come da altri organi deputati alla fase investigativa), non può considerarsi illegittimo in quanto l’obbligo di motivazione deve ritenersi assolto ogni qual volta il contribuente sia stato messo in grado di conoscere l’an e il quantum della maggiore pretesa fiscale, a nulla rilevando (Cass., trib., 21 maggio 2001 n. 6888) l’apprezzamento critico dell’ufficio accertatore rispetto agli atti e ai verbali presi a riferimento nell’avviso, avendoli comunque fatti propri nel momento in cui ha deciso di rinviare, per la esplicitazione dei motivi dell’imposizione, al contenuto degli stessi: il rinvio all’altro atto e/o documento conosciuto o conoscibile, infatti (Cass., trib., 26 giugno 2003 n. 10205; id., trib., 1^ aprile 2003 n. 4989; id., trib., 28 gennaio 2002 n. 1034), non costituisce indice di mancanza di autonoma valutazione critica degli elementi acquisiti dalla Guardia di Finanza ovvero da funzionati erariali ma significa unicamente che l’ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura, che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio; – la disposizione contenuta nel D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 4 (numerazione originaria), – secondo cui nel processo tributario “non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale”, poi, ha valenza esclusivamente processuale nel senso che tale divieto – in quanto limitativo unicamente dei “poteri” (che la norma regola) “delle commissioni tributarie” e non pure, quindi, dei “poteri” degli organi amministrativi di verifica, disciplinati da altre disposizioni – vale soltanto (Cass., trib., 2 novembre 2005 n. 21268; id., 5 luglio 2001 n. 9100; id., trib., 15 novembre 2000 n. 14774) per la diretta assunzione, da parte del giudice tributario, nel contraddittorio delle parti, della narrazione di fatti della controversia compiuta da un terzo, ovverosia per quella narrazione che, in quanto richiedente la formulazione di specifici capitoli e la prestazione di un giuramento da parte del terzo assunto quale teste, acquista, conseguentemente, un particolare valore probatorio: le dichiarazioni dei terzi raccolte dai verificatori (quand’anche in seno a procedimento penale) e inserite nel processo verbale di constatazione, invece, hanno natura di mere informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative e sono, pertanto, pienamente utilizzatali quali elementi di prova (Cass., trib.: 29 luglio 2009 n. 17574; 16 maggio 2007 n. 11202 nella quale si precisa che “l’osservanza dei principi del giusto processo e della parità delle parti di cui al nuovo testo dell’art. 111 Cost., inoltre (Corte Cost., 21 gennaio 2000 n. 10), impone di riconoscere anche alla parte privata la facoltà di introdurre, nel giudizio dinanzi alle commissioni tributarie, dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale”; 20 aprile 2007 n. 9402; 2 novembre 2005 n. 21268, ex multis).

La prospettazione della censura relativa alla “quantificazione della redditività”, infine, si rivela priva di autosufficienza (art. 366 c.p.c.) perchè evidenzia unicamente un problema inerente al merito (quantificazione) dell’accertamento tributario ma non espone vizi motivazionali propri dello specifico atto impositivo (del quale, in dispregio alla norma testè richiamata, non viene neppure riprodotto il contenuto nel ricorso per cassazione).

C. L’infondatezza del terzo e del quinto motivo di ricorso – da esaminare congiuntamente per la loro intima connessione – discende dal principio (affermato da questa sezione nella sentenza 11 giugno 2003 n. 9320 e reiterato nella successiva 7 maggio 2007 n. 10332) – da ribadire per assoluta carenza di qualsivoglia argomentazione contraria, nel caso nemmeno adombrata non avendo il ricorrente neppure menzionato la prima decisione benchè anteriore alla proposizione del suo ricorso per cassazione – per il quale (“avuto riguardo alla ratio legis”, cioè sempre al “c.d. monitoraggio fiscale” (“quale… espressamente enuncialo nel preambolo del decreto legge”) dalla stessa perseguito – quindi alla “straordinaria necessità ed urgenza di adottare disposizioni di natura fiscale atte a consentire la possibilità di controllo di talune operazioni finanziarie da e verso l’estero, anche in vista della predisposizione di meccanismi di cooperazione e di scambio di informazioni tra i paesi comunitari, nonchè di talune importazioni ed esportazioni al seguito di denaro, titoli o valori per contenere l’uso del contante”) – “anche i soggetti non beneficiari effettivi dei trasferimenti” debbono ritenersi destinatari dell’obbligo, previsto dal D.L. 28 giugno 1990, n. 167, art. 4 (convertito in L. 4 agosto 1990, n. 227), testo originario, di indicare, “nella relativa” (cioè nella propria) “dichiarazione dei redditi”, gli “investimenti all’estero” e/o le “attività estere di natura finanziaria” detenuti (“che detengono”) “al termine del periodo d’imposta” tutte le volte che tali soggetti abbiano la “disponibilità” e/o, comunque, la “possibilità” di “movimentazione” di detti investimenti e/o attività perchè (“quale”) “soggetto avente la disponibilità di fatto di somme di danaro”, anche se “non proprie”, ma “con il compito” (assunto e/o adempiuto) di “trasferirle all’effettivo beneficiario”.

Il “controllo” delle “operazioni finanziarie da e verso l’estero” perseguito dal legislatore, invero, può essere efficacemente ottenuto sol dando (tenuto conto della “mancanza di disposizioni interne al provvedimento legislativo … che escludano dall’obbligo di dichiarazione ex art. 4 … anche i soggetti non beneficiari effettivi dei trasferimenti”, già evidenziata nella citata decisione del 2003) alla nozione di “detenzione” un significato onnicomprensivo perchè anche la “detenzione nell’interesse altrui … (jure et nomine alieno)” (nel caso, ammessa dallo stesso C.) costituisce idoneo strumento (voluto pure dal detentore nell’interesse altrui) di occultamento (e, quindi, di sottrazione al “controllo”) degli “investimenti” e delle “attività …finanziarie” indicati nella norma.

Il rilievo impone, quindi, di confermare il principio detto, per effetto del quale si palesano, conseguentemente, del tutto irrilevanti (a prescindere dalla loro effettiva sussistenza) i fatti (“fiduciari dei conti esteri … erano” altri; “non era intestatario di alcuno dei conti …, non aveva poteri di firma”) addotti dal ricorrente essendo sufficiente ad integrare l’obbligo in esame anche il fatto, ammesso dallo stesso C., di aver trasmesso “istruzioni e volontà dell’effettivo titolare” perchè tale attività (tenuto conto della imprescindibile fiducia che egli doveva necessariamente godere in considerazione, almeno e comunque, della rilevante entità dei valori movimentati e della complessità delle operazioni effettuate) integra, comunque, un opera di vera e propria “movimentazione” degli investimenti e/o delle attività finanziarie dette rilevante ai fini della norma.

Il ricorrente – senza ulteriore e/o migliore specificazione, quindi in totale violazione dell’art. 366 c.p.c. – assume essere stato accertato “nel processo penale” che egli ha svolto “nella vicenda Enimont una mera attività di tramite” e richiama, in proposito, solo due semplici frasi della sentenza penale 28 aprile 1994 n. 2047 emessa a suo carico del Tribunale di Milano (“si può ritenere che C. non ha trattenuto a proprio profitto le somme contestate”;

“è del tutto evidente che lo stesso non ha trattenuto le ingenti somme qui ricordate per interesse personale”), che escludono il “profitto” ma suppongono di logica necessità, un possesso (almeno) penalmente rilevante delle “ingenti somme” oggetto di quell’accertamento; il medesimo, inoltre, afferma ma non spiega il ruolo che sarebbe stato svolto nella “vicenda Enimont” da “ Be. e Bi.” (indicati quali “fidudari” del G.) o da “ Cr. e d.T.” (ai quali attribuisce la materiale movimentazione, omettendo qualsiasi indicazione in ordine ai diretti suoi rapporti con gli stessi); tace del tutto, di poi ed infine, sia sul concreto contenuto delle imputazioni penali ascrittegli -supponenti la movimentazione (giuridica e fattuale) di conti esteri da parte di esso C. -, sia sull’esito complessivo di quel giudizio penale, peraltro da tempo concluso con la sentenza depositata dalla quinta sezione penale di questa Corte il 31 gennaio 1998 (che riporta quelle imputazioni), contenenti concreti riferimenti anche alle notizie su detti rapporti “tralasciate” dal ricorrente.

D. Il “contrasto” della sentenza impugnata “con l’art. 2909 c.c.” (“per essere intervenuta, su analoga lite tra le stesse parti, per il periodo d’imposta 1992, sentenza passata in giudicato”), denunziato con il quarto motivo di ricorso – a prescindere dalla ammissibilità (tenuto conto che con ordinanza n. 27896 del 30 dicembre 2009 questa sezione ha rimesso gli atti afferenti al Primo Presidente per valutare l’opportunità e/o la necessità di sottoporre all’esame delle sezioni unite quella controversia, avente ad oggetto identico caso) della deducibilità, per la prima volta in cassazione, del giudicato esterno formatosi prima della pronuncia impugnata e non dedotto nel giudizio innanzi al giudice che ha emesso la stessa -, non sussiste.

La “individuazione dei limiti oggettivi del giudicato”, infatti, come evidenziato da questa Corte (Cass., trib. 20 giugno 2008 n. 16816 e 5 febbraio 2007 n. 2438; cfr., altresì: 2 marzo 2007 n. 4904; 14 marzo 2007 n. 5943), “impone di identificare l’oggetto della statuizione coperta dal giudicato e, quindi, di raffrontare tale oggetto con quello specifico del processo sul quale quel giudicato dovrebbe fare stato” procedendo al (“fondamentale ed imprescindibile”) “riscontro dell’esistenza di una relazione giuridica tra i diritti dedotti nei due giudizi perchè … soltanto l’esistenza di detta relazione consente di ipotizzare la efficacia vincolante della sentenza passata in cosa giudicata sui processi in corso”: come affermato dalle sezioni unite (decisione n. 10933 del 7 novembre 1999), “il principio che estende l’efficacia del giudicato a beni della vita diversi da quelli su cui è già giudizialmente provveduto richiede che il secondo giudizio si riferisca al medesimo rapporto giuridico e che l’accertamento di cui si pretende l’incontestabilità riguardi punti di fatto o punti relativi a fatti-diritti, implicati, come indefettibili passaggi logici, dalla decisione della prima causa, e non soltanto la mera interpretazione dell’astratta volontà di legge che entra nelle premesse del sillogismo giudiziale con il quale si attribuisce (o si nega) il bene della vita oggetto del processo” (sulla necessaria identità del rapporto giuridico, di recente, anche Cass., lav., 30 gennaio 2006 n. 2027).

In ordine, poi, all’incidenza di un giudicato su di una controversia non inerente al medesimo rapporto fondamentale (nel caso lo stesso ricorrente riferisce che il giudicato sarebbe intervenuto su “lite” solo “analoga” alla presente), va ricordato che (Cass., lav., 9 aprile 2001 n. 5235) rimangono estranee all’area del giudicato sostanziale sia la statuizione incidentale relativa a rapporti pregiudiziali, sia, in particolare, la soluzione di singole questioni di fatto o di diritto: anche autorevole dottrina, dal suo canto, ha avvertito che “è del tutto estraneo al nostro sistema positivo il giudicato sul punto di fatto” per cui “è da escludersi qualsivoglia forma di efficacia vincolante, nei futuri processi, dell’accertamento dei fatti storici contenuto nella motivazione e compiuto dal giudice per pronunciare sulla situazione di vantaggio dedotta in giudizio”.

Questa sezione (sentenza 6 agosto 2009 n. 18041), peraltro ed inoltre, richiamato l'”art. 65 o.g., comma 1″ (ovverosia la norma secondo cui “la corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale …”), ha avvertito non essere “possibile che la Corte debba rinunciare a svolgere la propria funzione di nomofilachia per subire il vincolo di un giudicato di merito, dal quale si dovrebbe ricavare un principio di diritto”: poichè “iprincipi di diritto possono sempre essere soggetti a revisione”, “la Corte non può abdicare alla propria funzione di nomofilachia”.

Dai richiamati principi discende l’assoluta irrilevanza della sentenza (passata in cosa giudicata) invocata dal ricorrente non potendosi ritenere coperta da “giudicato”, vincolante (nel concorso delle altre condizioni) in questo diverso giudizio, il solo accoglimento nei merito di un ricorso avente ad oggetto un periodo d’imposta diverso (cioè un rapporto giudico differente per oggetto) e, quindi, il complessivo comportamento tenuto dal C. in detto periodo.

E. La “violazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4” – per il quale “nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale.

I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria” (che, giusta il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 36, comma 34 bis, convertito in L. 4 agosto 2006, n. 248, deve essere interpretato nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati come redditi diversi) -, lamentata nel sesto motivo, è insussistente.

Questa sezione (sentenza 13 maggio 2003 n. 7337), infatti, ha in proposito affermato (e, di poi, ribadito: Cass., trib., 29 settembre 2005 n. 19078; 26 marzo 2008 n. 8041; 7 agosto 2009 n. 18111) il principio – da confermare per totale carenza di argomentazioni contrarie – per il quale – tenuto conto delle “opzioni” segnalate dalla dottrina “al riguardo” del “tempo” nel quale (considerato l'”avverbio già, impiegato dalla disposizione”) “deve collocarsi… il termine ad quem del provvedimento ablatorio” (“che individua il requisito negativo dell’imponibilità”): (1) “spirare del periodo di imposta”; (2) “momento della dichiarazione” e (3) “quello dell’accertamento” – siffatto termine va individuato nello “spirare del periodo” detto perchè “l’obbligazione tributaria, riproducendosi come “autonoma” in ogni periodo di imposta (art. 7 t.u.i.r.), presenta una ineliminabile connotazione d’ordine temporale, poichè, oltrepassato quel periodo, la fattispecie rinasce come diversa”: di conseguenza, “come il presupposto dell’imposta consiste nel “possesso di redditi” (art. 1 t.u.i.r.) nel periodo considerato, così eventuali vicende di quel possesso, oltre lo stesso arco temporale, saranno per risultare irrilevanti sulla fattispecie tributaria” in quanto “secondo il sistema dell’imposizione diretta la perdita del reddito, verificatasi successivamente al periodo considerato, non viene ad incidere sulla obbligazione tributaria ormai perfetta”.

Nella stessa decisione del 2003 si è, altresì, condivisibilmente precisato che:

– “diversamente opinando, si additerebbe un’interpretazione di dubbia costituzionalità, che, in contrasto con la stessa ratio legis, finirebbe per privilegiare i percettori di proventi illeciti, rispetto ai possessori di redditi lecitamente prodotti, i quali ultimi, per definizione con riguardo al sistema, sono esclusi da imposizione solo se perduti nello stesso periodo di imposta”: “secondo il sistema dell’imposizione diretta”, infatti, “la perdita del reddito, verificatasi successivamente al periodo considerato, non viene ad incidere sulla obbligazione tributaria ormai perfetta”: “le ipotesi (tassative) di segno contrario riguardano infatti la deducibilità delle sopravvenienze passive nei redditi di impresa (art. 66 dei t.u.i.r.), e … quella delle “somme restituite a soggetto erogatore, se hanno concorso a formare il reddito in anni precedenti”, che attiene all’area del lavoro dipendente (art. 10, comma 1, lett. d-bis, del t.u.i.r., previsione introdotta, a decorrere dal 1^ gennaio 1998, dal D.Lgs. n. 314 del 1997, art. 5, comma 1)”;

– “la soluzione stessa” (1) “riceve conferma dalla mancata inclusione, nel requisito negativo, delle azioni restitutorie e risarcitorie (cfr. Cass. 7511-2000 cit.), essendo richiesta l’ablazione dell’intero imponibile da parte dello stesso soggetto attivo dell’obbligazione tributaria (onde, come anche si è avvertito in dottrina, non si giustificherebbe la mancata previsione della confisca amministrativa)” e (2) “non appare esplicitamente smentita da alcuni spunti, che pure è dato cogliere nei precedenti richiamati (primo fra tutti quello di Cass. 4381-1995, espressamente in tal senso invocato dal contribuente …), secondo cui, in caso di ablazione successiva all’imposizione, sarebbe dato al contribuente chiedere il rimborso di quanto già eventualmente versato” in quanto (precisato che “nessuno dei casi in precedenza esaminati da questa Corte si riferisce a sequestro o confisca penale “già intervenuti”) “la necessaria relazione col periodo di imposta non perde alcuna delle giustificazioni addotte, con possibilità di rimborso nella pratica riferibili – tanto più con riguardo ad un provento classificato ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. d), del t.u.i.r. – ad ipotesi di autotassazione”;

– “la conclusione non rivela sospetti d’illegittimità costituzionale” (come, anche qui, “dedotto dal contribuente”) perchè (2) “il principio della capacità contributiva, enunciato nell’art. 53 Cost.”, “anche inteso nella maniera più restrittiva possibile”, “non risulta violato, nell’arco temporale in cui è chiamata ad operare, e dal quale non è dato prescindere, per l’attuazione medesima del concorrente criterio di progressività, tipico dell’I.R.Pe.F. “e (2) “assume precisa consonanza con l’art. 3 Cost.” proprio “là dove elimina ogni possibilità di discriminazione dei proventi illeciti rispetto a quelli leciti”.

Nel caso lo stesso C. espone che di aver “fatto pervenire tutte le somme che residuavano sui conti esteri”, poi sottoposte a “sequestro penale quale corpo di reato (ord. Trib. Milano … 30 marzo 1994 e 15 aprile 1994)”, “nel marzo 1994”, quindi oltre il termine del periodo d’imposta (anno 1993) considerato nell’atto impositivo oggetto della presente controversia.

F. La doglianza formulata nel settimo motivo non ha fondamento.

Il ricorrente, invero, riferito, in ricorso, che la Commissione Tributaria Provinciale ha “rivisto” (determinandone il totale in L. 956.552.021) il “calcolo degli interessi” effettuato dall’Ufficio – essendo emerso, “dalla documentazione prodotta”, che “nell’anno accertato alcuni conti risultano chiusi” -, sostiene (a) che “i saldi finali al 31 dicembre 1992 sono grandemente diversi dai saldi iniziali al 31 gennaio 1993” (assumendo che la “somma algebrica dei movimenti dalla data di apertura a tutto il 1992” porta, in taluni casi, ad un “saldo negativo” e, in altri, ad un “ridotto saldo”), (b) che nè lui nè l’Ufficio avevano richiesto il ricalcolo effettuato dal giudice di primo grado e (e) che “ai fogli 15, 18 e 20 …” del “PVC n. 48872 … può leggersi “… non è stato possibile, allo stato degli atti, stabilire il periodo di permanenza degli investimenti sui conti in questione … questo comando è impossibilitato a quantificare la redditività effettiva prodotta dagli investimenti degli importi ricevuti all’estero”.

Il primo punto (a prescindere da altre manchevolezze espositive) si rivela del tutto apodittico siccome, comunque, non supportato (art. 366 c.p.c.) da concreti elementi fattuali, in particolare dai “prospetti contabili riportati nel PV n. 48872” contenenti i “movimenti” contabili la cui “somma algebrica” dovrebbe condurre all’asserito diverso (minore) risultato: elementi, cioè, indispensabili per consentire il necessario giudizio prognostico sul fondamento della censura.

La seconda osservazione non ha pregio perchè – come reiteratamente affermato da questa sezione (sentenza n. 25376 depositata il 17 ottobre 2008, tra le recenti, che ricorda le anteriori conformi: 16 maggio 2007 n. 11212; 13 gennaio 2006 n. 614; 19 febbraio 2004 n. 3309; 23 marzo 2001 n. 4280) – “il processo tributario non è annoverabile tra quelli di impugnazione-annullamento, bensì tra quelli di impugnazione-merito, in quanto non è diretto alla mera eliminazione dell’atto impugnato ma alla pronunzia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente sia dell’accertamento dell’ufficio” per cui “il giudice che ravvisi l’infondatezza parziale della pretesa dell’amministrazione finanziaria … non deve (nè può) limitarsi ad annullare l’atto impositivo ma deve quantificare la pretesa tributaria entro i limiti posti dal petitum delle parti”; “alla riconosciuta parziale fondatezza dei rilievi del contribuente”, perciò (Cass., trib., 3 agosto 2007 n. 17127), “non deve seguire la pronuncia di illegittimità (e quindi di annullamento) dell’atto impugnato, ma un giudizio di merito …, richiedendosi la pronuncia costitutiva di annullamento solo nei casi di vizi formali dell’atto impugnato o di altri atti su cui esso si fondi (v. in tal senso Cass. n. 7791 del 2001)”: “il giudice che ravvisi l’infondatezza soltanto parziale della pretesa dell’amministrazione (o al quale sia stata denunciata una infondatezza soltanto parziale della suddetta pretesa)”, pertanto (Cass., trib., 16 maggio 2007 n. 11216) “deve, scendendo nel merito, quantificare la pretesa tributaria entro i limiti posti dal petitum delle parti”.

L’impossibilità di “stabilire il periodo di permanenza degli in vestimenti sui conti”, come la conseguente di “quantificare la redditività effettiva” degli stessi, (che si dice) esposta dagli organi “verificatori”, infine, non rivela perchè si deve avere riguardo al contenuto (neppure questo riprodotto in ricorso per la parte che afferisce propriamente la doglianza) dell’atto impositivo.

G. La censura di “omessa pronuncia” sulla richiesta di non debenza delle sanzioni (oggetto dell’ultimo motivo di gravame), infine, va disattesa perchè carente anch’essa della necessaria (ex art. 366 c.p.c.) esposizione fattuale rinvenendosi in proposito, nel ricorso per cassazione, esclusivamente queste due proposizioni:

(1) “comunque dichiarare non dovute le sanzioni pecuniarie perchè il contribuente non era tenuto ad autodenunziarsi” (riferita come contenuta nel ricorso di primo grado) e (2) “ribadiva” (atto di appello) “la non applicabilità delle sanzioni perchè il contribuente non era tenuto ad autodenunciarsi” atteso che (“parte C del ricorso, n. 8”) (a) “la giurisprudenza di legittimità …, alla luce del rilievo della “non configurabililà di un dovere del contribuente, in sede di dichiarazione annuale dei redditi, di denunciare se stesso quale autore di reato” aveva escluso che si configurino “gli estremi della dichiarazione omessa o infedele nella parte in cui non si dia notizia dei proventi di attività criminosa”: circostanza che “potrebbe portare ad elidere le conseguenze che la normativa tributaria collega tale omissione o infedeltà” (cfr. Cass. 1^, 19 aprile 1995 n. 4381 e 16 aprile 1997 n. 3259)” e (b) “comunque la Commissione Tributaria Provinciale di Milano … con sentenza n. 565/1/97 del 25 febbraio 1997, passata in giudicato, … accolto il principio del nemo tenetur se detegere in considerazione della natura delle somme esistenti all’estero, da considerarsi provento da reato”.

In ordine alla irrilevanza, nel caso, della “giurisprudenza di legittimità” richiamata è sufficiente evidenziare la natura eminentemente ipotetica dell’afferente affermazione di principio:

nella decisione del 1995, infatti, questa Corte formula l’osservazione in ordine alla “non configurabilità di un dovere del contribuente, in sede di dichiarazione annuale dei redditi, di denunciare se stesso quale autore di reato” come mera possibilità (“il rilievo, in tesi, potrebbe portare ad escludere gli estremi della dichiarazione omessa od infedele”), ben evidenziando, soprattutto, che detta “non configurabilità” costituiva ivi una “problematica esorbitante” da quel “dibattito”, avente, peraltro, ad oggetto “maggiore imponibile … ai fini dell’IRPEF e dell’ILOR, in dipendenza di quanto ricevuto per la partecipazione ad attività criminosa consistente nell’emissione di false fatture per operazioni commerciali inesistenti”, ovverosia la sottoposizione a tassazione proprio del pretium sceleris “quanto ricevuto per la partecipazione ad attività criminosa”).

Sul “principio … nemo tenetur se detegere” va, in particolare, ricordato che:

– per la Corte delle leggi (ordinanze 28 giugno 2004 n. 202 e 26 novembre 2002 n. 485) costituiscono, “scelte discrezionali” (costituzionalmente incensurabili ove “non irragionevolmente esercitate”) tutte le “situazioni” individuate dal legislatore “in ossequio al principio nemo tenetur se detegere” nelle quali “il diritto al silenzio” (“inteso nella sua dimensione di corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesà”) “va garantito malgrado dal suo esercizio possa conseguire” (come nei casi ivi esaminati) “l’impossibilità di formazione della prova testimoniale”;

– “costituisce … principio fondamentale della civiltà giuridica quello secondo cui la persona che possa essere incolpata sulla base di una sua dichiarazione ha diritto alla protezione delle norme, che regolano gli atti del procedimento, anche quando si tratti di atti anteriori all’inizio dello stesso”: “poichè tra le regole principali dei procedimenti sanzionatori vi è quella secondo cui nemo tenetur edere contra sè ovvero nemo tenetur se detegere (codificata in sede penale dall’art. 384 c.p.), eguale protezione va accordata al soggetto che, per effetto della sua dichiarazione può trovarsi esposto ad un successivo procedimento sanzionatorio, con la conseguenza che egli non è tenuto a rendere la dichiarazione indiziante contro se stesso, per quanto in tal senso richiesto”; “in questo senso sussiste quindi un’ipotesi di inesigibilità della condotta” (Cass., 3^, 18 giugno 2004 n. 11412);

– come precisato dalle sezioni penali di questa Corte (sez. 5^, 5 giugno 2007 n. 34928, depositata il 17 settembre 2007, nonchè “in termini Cass., Sez. 5^, 5 dicembre 1995 n. 742”), “la facoltà di non assoggettarsi ad atti tendenti a provocare una autoincriminazione non comporta anche la possibilità di violare regole di comportamento poste a tutela di interessi non legali alla pretesa punitiva”;

conseguentemente (sez. 5^, 31 ottobre 2007 n. 3557, depositata il 23 gennaio 2008, la quale ricorda “Cass., Sez. 5^ penale, 15 ottobre 2004 – 16 giugno 2005”) deve “escludersi che la rilevanza penale del fatto” (ivi: “falsità ideologica”) “possa venir meno in applicazione” di detto principio perchè “la finalità dell’atto pubblico, da individuarsi nella veridicità erga omnes di quanto attestato dal pubblico ufficiale, non può essere sacrificata all’interesse del singolo di sottrarsi ai rigori della legge penale”.

Nel caso, tenuto conto delle specifiche (uniche) ragioni dell’atto di accertamento fiscale (“redditi di capitali derivanti dagli investimenti intrattenuti all’estero”), nella complessiva esposizione fattuale contenuta in ricorso non si rinviene nessun (pur necessario) elemento dal quale trarre la certezza che la dichiarazione omessa – per il contenuto necessario (ex lege) del “quadro W/740” (se diverso dalla mera, ordinaria, comune dichiarazione del possesso di redditi di detta specie) -, esponesse, almeno con rilevante probabilità, il ricorrente a conseguenze (peraltro mai indicate) penali e/o sanzionatorie diverse da quelle (uniche considerate dai giudici del merito) proprie dell’omissione di qualunque dichiarazione fiscale in sè: in particolare, il ricorrente non indica quale sia il fatto, altrimenti dannoso (sotto il profilo penale e/o sanzionatorio), che lui avrebbe necessariamente denunziato esponendo nella propria dichiarazione fiscale il possesso dei “redditi di capitale” detti per cui non viene proprio enunciata “un’ipotesi di inesigibilità della condotta” giustificatrice del richiamo al (e, quindi, dell’applicabilità del) principio invocato.

La non influenza, poi, dell’eventuale accoglimento del principio “nemo tenetur se detegere” da parte del giudice tributario in altra decisione discende dai principi richiamati innanzi (sub D.) esaminando il quarto motivo di ricorso.

4. Per la sua totale soccombenza il ricorrente, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., deve essere condannato a rifondere all’Agenzia le spese di questo giudizio di legittimità, liquidate (nella misura indicata in dispositivo) in base alle vigenti tariffe professionali, tenuto conto del valore della controversia e dell’attività difensiva svolta dalla parte vittoriosa.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il C. a rifondere all’Agenzia le spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 7.200,00 (settemila duecento/00), di cui Euro 7.000,00 (settemila/00) per onorario, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 18 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2010

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