Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17051 del 21/07/2010

Cassazione civile sez. trib., 21/07/2010, (ud. 18/03/2010, dep. 21/07/2010), n.17051

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ALTIERI Enrico – Presidente –

Dott. D’ALONZO Michele – rel. Consigliere –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.S., residente in (OMISSIS), elettivamente domiciliato in Roma alla Via dei Tre

Orologi n. 20 presso l’avv. FICOZZA PAOLO insieme con gli avv. Giuseppe CACCIATO

e Giuseppe CASUSCELLI (del Foro di Milano) che lo rappresentano e difendono in

forza della procura speciale rilasciata a margine del ricorso (nel quale il nome

dell’avv. Piccozza risulta cancellato con freghi di penna); – ricorrente –

contro

l’AGENZIA delle ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore; – intimata –

Avverso la sentenza n, 66/41/05 depositata il 16 giugno 2005 dalla Commissione

Tributaria Regionale della Lombardia; Udita la relazione svolta nella pubblica

udienza del 18 marzo 2010 dal Cons. Dott. Michele D’ALONZO;

sentite le difese del ricorrente, perorate da.ll’avv. Giuseppe CACCIATO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio

Attilio, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso notificato il 15 settembre 2006 all’AGENZIA delle ENTRATE (depositato il 3 ottobre 2006), C.S. – premesso che nel mese di novembre 1998 gli era stato notificato un atto di contestazione “per violazione di norme tributarie” (L. n. 227 del 1990, art. 4, commi 2 e 1) “riferibili all’imposta sulle persone fisiche per l’anno 1992”, con irrogazione (quanto alla prima, “nel massimo edittale in considerazione della gravità del danno e della complessa natura delle operazioni tese a nascondere al fisco attività altrimenti imponibili”) delle sanzioni di cui al successivo art. 5, commi 5 e 4, -, in forza di SETTE motivi, chiedeva di cassare la sentenza n. 66/41/05 della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia (depositata il 16 giugno 2005) che aveva disatteso il suo appello avverso la decisione (130/35/00) della Commissione Tributaria Provinciale di Milano la quale – “preso atto” (giusta quanto si legge nella sentenza di appello) “dell’entrata in vigore del nuovo regime sanzionatorio, introdotto con laL. 18 dicembre 1997, n. 471” -, in parziale accoglimento del ricorso, aveva determinato le sanzioni in complessive L. 4.000.000 (“pari al massimo di quella prevista dall’art. 8 della predetta legge per le irregolarità formali della dichiarazione”).

L’Agenzia intimata non svolgeva attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con la sentenza impugnata la Commissione Tributaria Regionale – premesso aver il C. eccepito, in primo grado, “l’incompetenza dell’Ufficio accertatore” (“in via preliminare”) e “l’illegittimità o la nullità dell’atto impugnato sotto numerosi profili” (“nel merito”) e, in appello, riproposto “genericamente tutte le eccezioni e le argomentazioni svolte in primo grado”; ritenuto “pacifico” (“perchè la circostanza non è mai stata contestata”) che “il C. non abbia presentato la dichiarazione dei redditi relativi all’anno 1992, ed in particolare il… modello “W”, concernente la disponibilità di capitali all’estero” – ha respinto il gravame osservando:

– La “tesi dell’appellante” secondo la quale egli non era “tenuto alla presentazione della predetta dichiarazione” (in quanto non “effettivo proprietario o beneficiario delle somme” ma solo “fiduciario di terzi” nella “costituzione” e nella “movimentazione del deposito”) non può essere “condivisa” perchè vanifica la disposizione di legge atteso che, “in un caso del genere”, “nessuno sarebbe tenuto alla presentazione della dichiarazione”: “non il titolare apparente, perchè non effettivo beneficiario del deposito, non il vero proprietario…, destinato a rimanere nell’ombra”;

– “per tale violazione” (“come ha ritenuto la Commissione Provinciale”) “non sono applicabili… le sanzioni di cui allaL. n. 227 del 1990” perchè “abrogate dallaL. n. 471 del 1997”;

– la “violazione accertata” non costituisce “semplice irregolarità formale… ma un caso di omissione della dichiarazione” per cui è “irrilevante il richiamo del contribuente alle disposizioni dellaL. n. 212 del 2000, art. 10”.

Lo stesso giudice ha inoltre affermato di non poter che confermare “la sanzione stabilita in primo grado” attesa la “mancanza di specifica impugnazione sul punto”.

2. Il C. censura la decisione di appello con sette motivi.

A. Con il primo il ricorrente – riprodotti i “motivi dei ricorso (introduttivo, riproposti)”: (a) “incompetenza dell’Ufficio… delle II.DD. ad irrogare le sanzioni”; (b) “illegittimità dell’atto per intervenuta decadenza”; (c) “illegittimità costituzionale L. n. 270 del 1990, art. 5, comma 2”; (d) “illegittimità dell’atto… per falsa ed erronea valutazione dei presupposti in relazione alla natura illecita delle somme e dei valori considerati, quali risultano dagli atti processuali”; (e) “illegittimità per mancanza dell’autorizzazione dell’autorità giudiziaria”; (f) “nullità dell’atto impugnato per carenza di motivazione, perchè concretato per relationem a due PV della G.F. basati su prove testimoniali desunte da processi penali”; (g) “nullità dell’atto… per relationem nonchè per mancata specificazione dei criteri di commisurazione della sanzione irrogata”; (h) “nullità dell’atto per violazione del divieto di utilizzazione di presunzioni a catena”; (i) “erronea valutazione dei fatti materiali desunti dai procedimenti penali”; (l) “discordanza tra parte motiva e parte dispositiva dell’atto”; (m) “erronea motivazione circa la natura delle sanzioni”; (n) “nullità e/o annullabilità dell’atto per carenza dei presupposti” – denunzia “violazione degli artt.276e277 c.p.c.”, per “omessa pronunzia” su tutti detti motivi adducendo emergere “chiaramente dall’esposizione dei fatti di causa” che entrambe le decisioni hanno “omesso l’esame e la pronuncia su tutti i motivi e le questioni preliminari proposti, pregiudiziali e di merito, nessuno escluso”.

Lo stesso ricorrente – dichiarato voler (“intendendo cosi”) “evitare, per economia di giudizio, pronunzie su questioni per le quali si è formato un orientamento giurisprudenziale consolidato” – di poi, prospetta, “nel prosieguo” (ovverosia nei successivi motivi di ricorso), “solo taluni” di detti “motivi del ricorso (introduttivo, riproposti)”.

B. Con la seconda doglianza il C. denunzia “omesso esame del motivo di ricorso, riproposto in appello, sull’intervenuta decadenza” nonchè “violazione del testo originario delD.Lgs. n. 472 del 1997, art. 20, comma 1”, e deduce che “per le violazioni degli obblighi di monitoraggio nel D.L. non vi era… alcuna previsione”; secondo il ricorrente, “la natura essenzialmente finanziaria della legge conduceva… a ritenere… che la disciplina applicabile, attesa l’abrogazione espressa e pressochè totale dellaL. n. 4 del 1929, da parte delD.Lgs. n. 412 del 1991, art. 29, dovesse essere quella dettata da quest’ultima fonte” per cui, “in forza dei principi sulla successione delle leggi nel tempo”, “la norma applicabile al caso… era da individuarsi nel testo originario delD.Lgs. n. 472 del 1997, art. 20”, secondo il quale “L’atto di contestazione di cui all’art. 16, ovvero l’atto di irrorazione, devono essere notificati, a pena di decadenza, nel termine di cinque anni dalla commissione della violazione…”: “il termine per l’accertamento e l’irrogazione della sanzione”, pertanto, “era da individuarsi in quello quinquennale, spirato il 31 maggio 1998 (cinque anni decorrenti dalla data di scadenza del termine del 31 maggio 1993 per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta 1992)”.

Il ricorrente aggiunge che “l’allungamento del termine” operato con la “novella D.Lgs. 5 giugno 2003, n. 203 (recte: 1998)… non poteva trovare applicazione”;

(a) perchè detta “novella” è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 1 luglio 1998 e, quindi, al momento della sua entrata in vigore “il termine di decadenza era già maturato”, essendo “spirato il 31 maggio 1998”, e (b) perchè “la retroazione della novella al primo aprile 1998… non poteva far rivivere rapporti giuridici definiti”.

C. Nella terza censura il ricorrente – assunto aver la Guardia di Finanza affermato nel P.V.C., che “da una serie di atti del procedimento penale (… interrogatori di imputati di reati connessi nel corso delle indagini preliminari e del dibattimento) sarebbe emerso che esso C. aveva la titolarità o la piena disponibilità, diretta o indiretta, di conti esteri” – denunzia l'”omesso esame del motivo di ricorso (già proposto in primo grado) di nullità dell’atto di contestazione perchè concretato per relationem a processi verbali della Guardia di Finanza, basati su prove testimoniali desunte da processi penali”, con “conseguente illegittimità… per violazione delD.Lgs. n. 472 del 1997, art. 16, comma 2, e delD.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4”, esponendo che in ordine alla detta “titolarità e/o piena disponibilità, diretta o indiretta, di conti esteri” l’Ufficio non ha indicato gli “elementi probatori”, non ha “dato atto del valore probatorio attribuito agli atti del procedimento penale”, non ha esplicitato “l’iter logico che lo ha condotto ad ascrivere le violazioni” ad esso C. per cui “emerge… l’illegittimità dell’A.C.S. per violazione dell’obbligo della motivazione” in quanto “non riporta in modo autonomo gli elementi probatori tratti dal processo penale”, “in ogni caso” perchè (a) “il rinvio è stato fatto per relationem ai PVC che hanno recepito pedissequamente le dichiarazioni testimoniali di terzi,… senza vaglio critico” e (b) “le dichiarazioni dei testimoni, imputati di reati connessi, verosimilmente, sono state influenzate e condizionate da loro interesse personale ad attenuare le proprie posizioni e responsabilità”.

In definitiva, per il ricorrente, “la decisione di merito”, “recependo… le valutazioni della G.F.”, (2) “è stata fondata sulle prove testimoniali acquisite in sede penale” (mentre ilD.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, dispone che “nel processo tributario non è ammessa la prova per testi”) e 2) “non ha effettuato alcuna valutazione delle dichiarazioni testimoniali e delle dichiarazioni rese nel processo penale nè ha dato alcuna motivazione in relazione alla valenza probatoria nel processo tributario”.

D. Nella quarta doglianza il C. denunzia “omesso esame del motivo di (ricorso, riproposto) in appello di nullità dell’atto di contestazione per mancata specificazione dei crateri di commisurazione della sanzione irrogata”, con “conseguente illegittimità… per violazione delD.Lgs. n. 472 del 1997, art. 16, comma 2″, e sostiene che l'”atto” impugnato “doveva… essere annullato in forza del chiaro dettato normativo” perchè “non recava alcuna indicazione dei criteri seguiti per la determinazione delle sanzioni e della loro entità, tanto che sono stati lasciati in bianco i relativi spazi prestampati”.

E. Con il quinto motivo il ricorrente – esposto (a) che “è stato destinatario di analogo A.C.S. per… violazioni agli obblighi previsti dalD.L. n. 167 del 1990commesse nel’anno 1990, emerse nel corso del medesimo procedimento penale “Enimont” relative alle stesse disponibilità finanziarie costituite all’estero da G., gestite dai medesimi fiduciari e movimentate dai medesimi soggetti con poteri di firma” e (b) che in ordine a detto “A.C.S.” la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, con “sentenza n. 192/33/00… passata in giudicato” (di conferma della sentenza n. 565/01/97 della Commissione Tributaria Provinciale di Milano), ha affermato dover “dare atto che le sanzioni di cui trattasi derivanti dalD.L. n. 167 del 1990, art. 5, commi 4 e 5, convertito dallaL. n. 227 del 1990, sono state considerate abrogate dallo stesso Ministero…a seguito dell’entrata in vigore delD.Lgs. n. 471 del 1997, che ha riformato la disciplina delle sanzioni tributarie non penali. E evidente che tale orientamento risulta decisivo per la soluzione della vertenza… che riguarda le sanzioni considerate abrogate” – denunzia “contrasto con l’art. 2909 c.c., per essere intervenuta, su analoga lite tra le stesse parti, per il periodo d’imposta 1990, sentenza passata in giudicato che ha statuito l’insussistenza dell’obbligo di dichiarare le disponibilità all’estero derivanti dalla medesima attività illecita”.

Secondo il ricorrente “il giudicato si è formato sul principio che le sanzioni (le medesime di quelle per cui è ora causa) non erano più applicabili in forza dello ius superveniens, abrogativo delle norme sanzionatorie” e “gli effetti del giudicato di questa sentenza… devono estendersi alla presente controversia perchè… le due vicende processuali hanno in comune i medesimi fatti ed il giudicato si è formato sul principio che le sanzioni… non erano più applicabili in forza dello ius superveniens, abrogativo delle norme sanzionate”.

F. Con il sesto motivo il ricorrente denunzia “omessa motivazione” sul “fatto controverso e decisivo” che “fiduciaria di G. relativamente ai conti esteri e stata la società lussemburghese F.J.” e non esso C., che egli non era “intestatario di alcuno dei conti”, non li ha “gestiti”, non “aveva potere di firma” e non ha “tratto alcun profitto dalle somme che gli sono state attribuite”, con conseguente “violazione del divieto di presunzioni a catenaex art. 2121 c.c., comma 1”.

Secondo il C. “la sentenza impugnata… ha omesso ogni considerazione e motivazione sui fatti di segno contrario indicati nelle difese” (“fatti forniti di precisi ed univoci riscontri documentali agli atti di causa”) ed è “incorsa nel la violazione della regola praesumptum de praesumpto non datur, in violazione dell’art. 2121 c.c.”, perchè:

– “i P.V.C., davano atto che fiduciari di G. per i conti esteri ricondotti” ad esso C. “erano la società lussemburghese F.J. ed altri ( B. e Bi.)”, che egli “non era intestatario di alcuno dei conti, non li gestiva, non aveva poteri di firma,… non ha tratto alcun profitto dalle somme che sono state a lui ricondotte” (“egli si limitava a trasmettere disposizioni, in nome e per conto del fiduciante, ai fiduciari stessi o ai soggetti abilitati alla movimentazione dei conti”);

– “nei processo penale” è stato accertato che egli “ha svolto nella vicenda Enimont una mera attività di tramite per comunicare le disposizioni di G. relative alla distribuzione a terzi di somme tratte dalla provvista” (“agiva, dunque, nomine et jure alieno, nel nome e per conto del fiduciario…. trasmetteva come una sorta di nuncius istruzioni e volontà dell’effettivo titolare”;

– “la disponibilità e la titolarità di somme” in capo a lui “sono state… escluse dalla sentenza… del Tribunale di Milano…28 aprile 1994 n. 2047…: si può ritenere che C. non ha trattenuto a proprio profitto le somme contestate; è del tutto evidente che lo stesso non ha trattenuto le ingenti somme qui ricordate per interesse personale”.

G. Nel settimo (ultimo) motivo il C. denunzia “violazione delD.L. n. 167 del 1990, art. 4, comma 1, (convertito conD.L. n. 227 del 1990) anche in relazione al combinato disposto delD.P.R. n. 911 del 1986, art. 1, e delD.P.R. n. 600 del 1973, art. 31, comma 3”, assumendo che il giudice del merito – laddove ha “sostenuto” (recependo le “deduzioni della Polizia Tributaria”) che “egli è stato titolare apparente delle disponibilità estere e in quanto tale obbligato a presentare la dichiarazione (quadro N)” – ha dato al “termine detenzione” utilizzato dal legislatore nelD.L. n. 167 del 1990, art. 4, comma 1, “un’estensione tale da comprendere ogni sorta di concorso esterno nel comunicare le disposizioni dell’effettivo titolare in ordine alla movimentazione dei capitali”.

Secondo il ricorrente, infatti, “tale accezione, estranea alla nozione tecnico-giuridica di detenzione è da ritenere non conforme alla ratio complessiva delD.L. n. 167 del 1990, e… in contrasto con i principi in tema di configurazione dei presupposti d’imposta” in quanto:

– considerate “le finalità… eminentemente valutarie” del decreto legge (“monitorare ed individuare i soggetti residenti che muovono, trasferiscono e detengono capitali all’estero”) e tenuto conto della distinzione posta in diritto civile tra “detenzione qualificata” “possesso quale stato di fatto che determina il potere di esercitare atti sulla cosa (uti dominus) in sincronia con l’animus di tenere la cosa quale titolare di un diritto reale” e “detenzione nell’interesse altrui” “che presuppone l’intento di tenere la cosa in adempimento di un obbligo verso altri (jure et nomine alieno)”, “il soggetto tenuto agli adempimenti non può che essere il detentore qualificato”, ovverosia “il detentore… che sia il reale titolare del rapporto o… il detentore anche nell’interesse altrui, tale risultando in forza di formali intestazioni fiduciarie o di formali o attribuzioni del potere di firma che gli consentano di operare sui conti e di movimentare il via diretta la disponibilità”;

– “in tema di IRPEF, il criterio di collegamento del presupposto d’imposta con il soggetto passivo” è (“D.P.R. n. 917 del 1986, art. 1”) il “possesso di redditi”, laddove “il termine possesso… individua un criterio di riferimento del reddito alla sfera del soggetto che è qualcosa di più della mera detenzione”;

– “un diverso significato del termine possesso… condurrebbe alla palese violazione del principio costituzionale della capacità contributiva (art. 53 Cost.)” in quanto “produrrebbe l’effetto di far pagare le imposte ad un soggetto diverso da quello… titolare del reddito” che “dispone della capacità contributiva”.

“Nel… caso è incontrovertibile (perchè documentalmente provato in atti) che” esso C. “non era neppure detentore semplice delle disponibilità estere, essendo i conti riconduciti ad altri ( G.), intestati e gestiti da altri (i fiduciari F., B., Bi.) e materialmente movimentati da altri ( Cr., d.T.)”.

3. Il ricorso deve essere respinto perchè infondato.

In via preliminare va rilevata l’ininfluenza dei formulati quesitì di diritto (che, per tale ragione, non sono stati riprodotti) attesa l’inapplicabilità al ricorso del C. della norma che li prevede(va) (essendo stata abrogata dallaL. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d)), dettata dall’art. 366 bis c.p.c., in quanto con lo stesso si impugna una sentenza depositata prima del 2 marzo 2006, giorno di entrata in vigore di detta norma (inserita dalD.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, a far data dal 2 marzo 2006 detto).

A. L’omissione, sia dell'”esame” che della “pronuncia”, su “tutti i motivi e le questioni preliminari proposti” (“pregiudiziali e di merito”), lamentata con la prima doglianza, proprio perchè prospettata come attinente a “motivi” ed a “questioni” e non già (tenuto conto che per l’art. 277 c.p.c., comma 1, invocato dal ricorrente, “il collegio nel deliberare sul merito deve decidere tutte le domande proposte e le relative eccezioni, definendo il giudizio”) a “domande” e/o ad “eccezioni”, si rivela del tutto inconferente in forza del principio – da ribadire per carenza di convincente argomentazione contraria – secondo cui (Cass., 1^, 2 luglio 2004 n. 12121, che richiama “Cass. nn. 13359/1999,13342/1999,5537/1997,10703/1994”) quando “il giudice abbia indicato le ragioni del suo convincimento” non è necessaria una “confutazione esplicita” di “tutte le argomentazioni svolte dalle parti” perchè dette “ragioni” costituiscono implicito rigetto delle “prospettazioni con esse logicamente incompatibili” (secondoCass., 3^, 29 luglio 2004 n. 14486, peraltro, anche “la mancata espressa pronunzia sul’eccezione non può che considerarsi implicito rigetto della stessa, essendo incompatibile il suo accoglimento con la statuizione di accoglimento della pretesa del ricorrente”).

Nel caso lo stesso ricorrente riconosce, nella sostanza, che la sentenza impugnata – nella quale il giudice di appello espone che erano state eccepite, oltre (“in via preliminare”) all'”incompetenza dell’Ufficio accertatore”, “L’illegittimità o la nullità dell’atto impugnato sotto numerosi profili” (“nel merito”) – ha implicitamente (ma in maniera univoca, attesa la totale loro incompatibilità logica con la decisione adottata) rigettato quei “motivi” e quelle “questioni preliminari” (“pregiudiziali e di merito”): con gli ulteriori motivi di ricorso, infatti, il C. (ai sensi dell’art. 360 c.p.c.) ha censurato proprio l’implicito rigetto di “taluni” di detti motivi e/o questioni (espressamente dichiarando di rinunciare agli altri non riproposti).

Molti di quei motivi e questioni, peraltro, denunziano unicamente vizi sussumibili nella previsione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, (“violazione o falsa applicazione di norme di diritto”) : in tali casi, però, in ossequio al disposto dell’art. 384 c.p.c., comma 2(testo originario, anteriore a quello sostituito dalD.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 12) – per il quale “non sono soggette a cassazione le sentenze erroneamente motivate in diritto, quando il dispositivo sia conforme al diritto” -, questa Corte, una volta riscontrata la rispondenza “al diritto” del dispositivo adottato nella sentenza impugnata, non può procedere alla cassazione di questì ultima in quanto il positivo riscontro di detta conformità consente soltanto di correggere la “motivazione” della stessa.

Quei vizi, comunque, non potrebbero portare alla cassazione della decisione gravata che ne fosse affetta neppure in ipotesi di riscontrata non rispondenza del suo dispositivo “al diritto” atteso che l’ultimo inciso del comma 1 (testo originario) del medesimo art. 384 impone a questo giudice di legittimità di decidere “la causa nei merito” tutte le volte che “non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto”, “accertamenti”, di norma, non necessari quando la controversia involge esclusivamente questioni di diritto.

B. L’eccezione di “decadenza” dell’amministrazione dal potere di irrogare la sanzione per decorso del termine previsto dalD.Lgs. n. 472 del 1997, art. 20, comma 1- riproposta dal C. sul rilievo che la violazione sanzionata attiene a omessa dichiarazione fiscale da presentare entro il 31 maggio 1993 mentre la sanzione è stata irrogata con atto notificato “nel mese di novembre 1998” – è priva di fondamento.

IlD.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 20, comma 1, invocato dal ricorrente (per il cui testo originario “l’atto di contestazione di cui all’art. 16, ovvero l’atto di irrogazione, devono essere notificati, a pena di decadenza, nel termine di cinque anni dalla commissione della violazione o nel diverso termine previsto per l’accertamento dei singoli tributi”), come noto, è stato modificata dalD.Lgs. 5 giugno 1998, n. 203, art. 2, comma 1, lett. l, il quale ha sostituito le parole “nel termine di cinque anni dalla commissione della violazione o nel diverso termine previsto per l’accertamento dei singoli tributi” con le seguenti: “entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui avvenuta la violazione o nel maggior termine previsto per I’ accertamento dei singoli tributi”.

Per il medesimoD.Lgs. n. 203 del 1998, art. 5, “le disposizioni dello stesso… decreto del 1998 hanno effetto a decorrere dal 1 aprile 1998, salvo quelle che introducono i nuovi illeciti previsti nell’art. 1, comma 1, lett. c), e art. 4, comma 1, lett. d), ovvero modificano il trattamento sanzionatorio in senso più sfavorevole al contribuente”: in base a tale disposizioni, quindi, il testo novellato (in particolare l’inciso “entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui avvenuta la violazione”) ha “effetto a decorrere dal 1″ aprile 1998”, ovverosia dallo stesso giorno della originaria norma novellata.

Siffatta generale decorrenza, però, è stata espressamente esclusa (quindi vietata) per tutte le “disposizioni” variate se, comunque, abbiano apportato modifiche al “trattamento sanzionatorio in senso più sfavorevole al contribuente”.

Nel caso non è necessario stabilire se la previsione modificata (“entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui avvenuta la violazione”) integri un “trattamento sanzionatorio… più sfavorevole al contribuente” rispetto alla previsione originaria (“nel termine di cinque anni dalla commissione della violazione”) – per effetto della quale ultima la decadenza si sarebbe compiuta il 31 maggio 1998 – perchè alla specie non è applicabile tale termine decadenziale ma quello (rimasto invariato, quindi in vigore ex se sin dal primo aprile 1998) previsto dall’ultimo inciso della stessa norma, ovverosia quello che collega la decadenza per l’irrogazione delle sanzioni al “diverso termine previsto per l’accertamento dei singoli tributi”.

Per ilD.L. 28 giugno 1990, n. 167, art. 6, comma 1, (“tassazione presuntiva”) – nel testo applicabile alla specie ratione temporis modificato dallaL. 4 agosto 1990, n. 227, di conversione, anteriore a quello sostituito con ilD.Lgs. 21 novembre 1997, n. 461, art. 11, comma 1, lett. e), – “per i soggetti di cui all’art. 4, comma 1, le somme in denaro, titoli o valori mobiliari trasferiti o costituiti all’estero, senza che ne risultino dichiarati i redditi effettivi, si presumono, salvo prova contraria, fruttiferi in misura pari al tasso ufficiale medio di sconto vigente in Italia nel relativo periodo di imposta, a meno che nella dichiarazione non venga specificato che si tratta di redditi la cui percezione avviene in un successivo periodo d’imposta”.

La presunzione (legale, suscettibile, secondo dispone in prosieguo lo stesso art. 6, di “prova contraria”) di fruttuosità (nella “misura pari al tasso ufficiale medio di sconto vigente in Italia nel relativo periodo di imposta” fissata dalla norma) delle somme e degli altri “strumenti” finanziari “trasferiti o costituiti all’estero” e, quindi, di redditività fiscale degli stessi (univocamente desumibile dall’obbligo di dichiarare, comunque, i “redditi effettivi”) evidenzia l’indissolubile collegamento genetico e funzionale esistente tra la sanzione irrogata per (parole del giudice a quo) la “disponibilità di capitali all’estero” e l’imponibilità fiscale dei redditi presuntivamente tratti da quella “disponibilità”.

Nella specie va rilevato che (giusta quanto riferisce lo stesso C. nel proprio ricorso) “la prima sanzione” (ovverosia quella che interessa) è stata “irrogata nel massimo edittale in considerazione della gravitò del danno e della complessa natura delle operazioni tese a nascondere al Fisco attività altrimenti imponibili”: tanto conferma la sussistenza, nel caso, del collegamento detto e, quindi, la sussumibilità della fattispecie unicamente nell’inciso finale dell’art. 20, comma 1, (contenuto, come rilevato, nel testo normativo primigenio) che consente all’Ufficio di notificare l'”atto” di contestazione o di irrogazione di sanzione “ne/ maggior termine previsto per l’accertamento dei singoli tributi”, ove la sanzione sia a collegata (come accertato innanzi nella specie) a tale “accertamento”.

C. La complessiva censura svolta nel terzo motivo -(a) “illegittimità dell’A.C.S. per violazione dell’obbligo della motivazione” perchè “non riporta in modo autonomo gli elementi probatori tratti dal processo penale” ma “il rinvio è stato fatto per relationem ai PVC che hanno recepito pedissequamente le dichiarazioni testimoniali di terzi,… senza vaglio critico”; (b) “la decisione di merito… recependo… le valutazioni della G.F., è stata fondata sulle prove testimoniali acquisite in sede penale” mentre ilD.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, dispone che “nel processo tributario non è ammessa la prova per testi” – denunzia, nella sostanza, insussistenti violazioni di legge avendo questa sezione da tempo statuito che:

– l’avviso d’accertamento motivato per relationem, quand’anche con riferimento “acritico” ad atti o verbali formati dalla Guardia di Finanza (come da altri organi deputati alla fase investigativa), non può considerarsi illegittimo in quanto l’obbligo di motivazione deve ritenersi assolto ogni qual volta il contribuente sia stato messo in grado di conoscere l’an e il quantum della maggiore pretesa fiscale, a nulla rilevando ( Cass., trib., 21 maggio 2001 n. 6888) l’apprezzamento critico dell’ufficio accertatore rispetto agli atti e ai verbali presi a riferimento nell’avviso, avendoli comunque fatti propri nel momento in cui ha deciso di rinviare, per la esplicitazione dei motivi dell’imposizione, al contenuto degli stessi: il rinvio all’altro atto e/o documento conosciuto o conoscibile, infatti ( Cass., trib., 26 giugno 2003 n. 10205; id., trib., 1 aprile 2003 n. 4989; id., trib., 28 gennaio 2002 n. 1034), non costituisce indice di mancanza di autonoma valutazione critica degli elementi acquisiti dalla Guardia di Finanza ovvero da funzionati erariali ma significa unicamente che l’ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura, che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio; – la disposizione contenuta nell’art. 7, comma 4 (numerazione originaria), delD.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, – secondo cui nel processo tributario “non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale”, poi, ha valenza esclusivamente processuale nel senso che tale divieto – in quante limitativo unicamente dei “poteri” (che la norma regola) “delle commissioni tributarie” e non pure, quindi, dei “poteri” degli organi amministrativi di verifica, disciplinati da altre disposizioni – vale soltanto ( Cass., trib., 2 novembre 2005 n. 21268; id., 5 luglio 2001 n. 9100; id., trib., 15 novembre 2000 n. 14774) per la diretta assunzione, da parte del giudice tributario, nel contraddittorio delle parti, della narrazione di fatti della controversia compiuta da un terzo, ovverosia per quella narrazione che, in quanto richiedente la formulazione di specifici capitoli e la prestazione di un giuramento da parte del terzo assunto quale teste, acquista, conseguentemente, un particolare valore probatorio: le dichiarazioni dei terzi raccolte dai verificatori (quand’anche in seno a procedimento penale) e inserite nel processo verbale di constatazione, invece, hanno natura di mere informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative e sono, pertanto, pienamente utilizzabili quali elementi di prova ( Cass., trib.: 29 luglio 2009 n. +; 16 maggio 2007 n. 11202(nella quale si precisa che “l’osservanza dei principi del giusto processo e della parità delle parti di cui al nuovo testo dell’art. 111 Cast., inoltre (Corte Cost., 21 gennaio 2000 n. 10), impone di riconoscere anche alla parte privata la facoltà di introdurre, nel giudizio dinanzi alle commissioni tributarie, dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale”) 20 aprile 2007 n. 9402; 2 novembre 2005 n. 21268, ex multis).

Siffatti principi, ovviamente, per la generale loro valenza, regolano anche gli atti (quale quello impugnato) di contestazione di sanzioni, con l’unica precisazione (quanto a tale genere di atti) che l’assolvimento dell’obbligo (imposto all’Ufficio dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 772, art. 16, comma 2) di indicare nell'”atto di contestazione” gli “elementi probatori” (naturalmente, giusta La norma, “dei fatti attribuiti al trasgressore”), diversamente da quanto sostenuto dal C., non richiede affatto quello di dare anche “atto del valore probatorio attribuito agli atti del procedimento penale”, cioè di specificare le ragioni (ovverosia “l’iter logico che lo ha condotto ad ascrivere le violazioni”) per le quali detti “atti”, per esso Ufficio, costituiscano prova “dei fatti attribuiti”, ma deve ritenersi assolto (come voluto dalla norma) con la mera “indicazione” (la cui sussistenza nel caso non è stata contestata dal ricorrente) dell’elemento (quand’anche tratto dal processo penale) che l’Ufficio adduce (e, in ipotesi di avversa contestazione giudiziale, si propone di offrire alla valutazione del giudice) a prova sia della sussistenza del fatto sanzionabile attribuito al trasgressore sia, soprattutto, quanto alla ascrivibilità a questo di quel fatto.

D. La censura di “nullità dell’atto di contestazione per mancata specificazione dei criteri di commisurazione della sanzione irrogata” (quarto motivo di ricorso) si palesa inammissibile perchè la “sanzione irrogata” nell’atto di contestazione, unico oggetto della doglianza, è stata definitivamente (non avendo nessuna delle parti impugnato il punto) eliminata dal giudice di primo grado il quale, come espone lo stesso ricorrente, ha applicato, in vece di quella, la (diversa) “sanzione per irregolarità formali della dichiarazione dei redditi prevista dalD.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8”.

La denunzia di violazione delD.Lgs. n. 472 del 1997, art. 16, comma 2, – per il quale “l’ufficio o l’ente notifica atto di contestazione con indicazione, a pena di nullità, dei fatti attribuiti al trasgressore, degli elementi probatorì, delle norme applicate, dei criteri che ritiene di seguire per la determinazione delle sanzioni e della loro entità” nonchè (D.Lgs. 5 giugno 1998, n. 203, art. 2) “dei minimi edittali previsti dalla legge per le singole violazioni” -, peraltro, è del tutto carente (cfr.:Cass., 2^, 12 febbraio 2004 n. 2707;id., 2^, 26 gennaio 2004 n. 1317) quanto all’indicazione delle (anche implicite) affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che (motivatamente) il ricorrente assuma in contrasto con una qualche diversa interpretazione di detta norma fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla dottrina: il C., infatti, si è limitato a invocare il “chiaro dettato normativo”.

La prospettazione della doglianza (“sono stati lasciati in bianco i relativi spazi prestampati”: “cfr. a pag. 4 dell’A.C.S.”), comunque ed infine, viola l’art. 366 c.p.c., (principio di autosufficienza) in quanto la omessa riproduzione (nel ricorso per cassazione) del testo dello specifico “A.C.S.” impedisce a questa Corte – che non può prendere diretta cognizione dello stesso in quanto la doglianza investe (solo) un preteso error in iudicando – di formulare qualsiasi giudizio valutativo circa la sussistenza e la valenza del vizio denunziato.

Tale carenza, nella specie, assume significativo rilievo avendo lo stesso C. esposto nel suo ricorso che “la prima sanzione” è(ra) stata “irrogata nel massimo edittale in considerazione della gravità del danno e della complessa natura delle operazioni tese a nascondere al fisco attività altrimenti imponibili”: tanto, all’evidenza, sposta il giudizio relativo dall’esatta osservanza della norma propriamente all’esame (nel caso impossibile per la esposta carenza espositiva) del conferente dato testuale dell’atto impugnato atteso che l’obbligo (ex art. 16 detto), per l’Ufficio, di indicare i “criteri che ritiene di seguire per la determinazione delle sanzioni e della loro entità” richiama univocamente lo specifico disposto del precedente art. 7 (“criteri di determinazione della sanzione”) – il quale impone di considerare la “gravità della violazione” (desumibile “dalla condotta dell’agente” e dall'”opera da lui svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze”) nonchè la “personalità” (“desunta anche dai suoi precedenti fiscali”) e le “condizioni economiche e sociali” del trasgressore – e rende, quindi, necessario verificare la valenza effettiva della sintetica “considerazione” conclusiva esposta dall’Ufficio nel complessivo ambito fattuale (desumibile unicamente dalla lettura dell’atto di contestazione) cui la stessa inerisce.

E. Il “contrasto” della sentenza impugnata “con l’art. 2909 c.c.”, (“per essere intervenuta, su analoga lite tra le stesse parti, per il periodo d’imposta 1990, sentenza passata in giudicato”), denunziato con il quinto motivo di ricorso – a prescindere dalla ammissibilità (tenuto conto che con ordinanza n. 27896 del 30 dicembre 2009 questa sezione ha rimesso gli atti afferenti al Primo Presidente per valutare l’opportunità e/o la necessità di sottoporre all’esame delle sezioni unite una controversia avente ad oggetto identico caso) della deducibilità, per la prima volta in cassazione, del giudicato esterno formatosi prima della pronuncia impugnata e non dedotto nel giudizio innanzi al giudice che ha emesso la stessa -, non sussiste.

La “individuazione dei limiti aggettivi del giudicato”, infatti, come evidenziato da questa Corte ( Cass., trib. 20 giugno 2008 n. 16816e 5 febbraio 2007 n. 2438; cfr., altresì: 2 marzo 2007 n. 4904; 14 marzo 2007 n. 5943), “impone di identificare l’oggetto della statuizione coperta dal giudicato e, quindi, di raffrontare tale oggetto con quello specifico del processo sul quale quel giudicato dovrebbe fare stato” procedendo al (“fondamentale ed imprescindibile”) “riscontro dell’esistenza di una relazione giuridica tra i diritti dedotti nei due giudizi perchè… soltanto l’esistenza di detta relazione consente di ipotizzare la efficacia vincolante della sentenza passata in cosa giudicata sui processo in corso”: come affermato dalle sezioni unite (decisione n. 10933 del 7 novembre 1999), “il principio che estende l’efficacia del giudicato a beni della vita diversi da quelli su cui è già giudizialmente provveduto richiede che il secondo giudizio si riferisca al medesimo rapporto giuridico e che l’accertamento di cui si pretende l’incontestabilità riguardi punti di fatto o punti relativi a fatti – diritti, implicati, come indefettibili passaggi logici, dalla decisione della prima causa, e non soltanto la mera interpretazione dell’astratta volontà di legge che entra nelle premesse del sillogismo giudiziale con il quale si attribuisce (o si nega) il bene della vita oggetto del processo” (sulla necessaria identità del rapporto giuridico, di recente, ancheCass., lav., 30 gennaio 2006 n. 2027).

In ordine, poi, all’incidenza di un giudicato su di una controversia non inerente al medesimo rapporto fondamentale (nel caso lo stesso ricorrente riferisce che il giudicato sarebbe intervenuto su “lite” solo “analoga” alla presente), va ricordato che (Cass., lav., 9 aprile 2001 n. 5235) rimangono estranee all’area del giudicato sostanziale sia la statuizione incidentale relativa a rapporti pregiudiziali, sia, in particolare, la soluzione di singole questioni di fatto o di diritto: anche autorevole dottrina, dal suo canto, ha avvertito che “è del tutto estraneo al nostro sistema positivo il giudicato sul punto di fatto” per cui “è da escludersi qualsivoglia forma di efficacia vincolante, nei futuri processi, dell’accertamento dei fatti storici contenuto nella motivazione e compiuto dal giudice per pronunciare sulla situazione di vantaggio dedotta in giudizio”.

Questa sezione (sentenza 6 agosto 2009 n. 18041), peraltro ed inoltre, richiamato l'”art. 65 o. g., comma 1″ (ovverosia la norma secondo cui “la corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale…”), ha avvertito non essere “possibile che la Corte debba rinunciare a svolgere la propria funzione di nomofilachia per subire il vincolo di un giudicato di merito, dal quale si dovrebbe ricavare un principio di diritto”: poichè “i principi di diritto possono sempre essere soggetti a revisione”, “la Corte non può abdicare alla propria funzione di nomofilachia”.

Dai richiamati principi discende l’assoluta irrilevanza della sentenza (passata in cosa giudicata) invocata dal ricorrente non potendosi ritenere coperta da “giudicato”, vincolante (nel concorso delle altre condizioni) in questo diverso giudizio, il solo principio di diritto in quella affermata, secondo cui “le sanzioni non erano più applicabili in forza dello ius superveniens, abrogativo delle norme sanzionatorie”.

Questa affermazione (e tanto si rileva unicamente nell’esercizio della richiamata funzione di nomofilachia), peraltro, è errata.

IlD.L. 28 giugno 1990, n. 167, (convertito con modificazioni nellaL. 4 agosto 1990, n. 227) – avente a specifico oggetto la “rilevazione a fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l’estero di denaro, titoli e valori” -, invero, al suo art. 5, comma 5, punisce “la violazione dell’obbligo di dichiarazione previsto nell’art. 4, comma 2”, ovverosia la violazione dell’obbligo di indicare (“deve essere altresì indicato”), “nella dichiarazione dei redditi”, “l’ammontare dei trasferimenti da, verso e sull’estero che nel corso dell’anno hanno interessato gli investimenti all’estero e le attività estere di natura finanziaria” (con la precisazione che “tale obbligo sussiste anche nel caso in cui al termine del periodo di imposta i soggetti non detengono investimenti e attività finanziarie della specie”).

Questa Corte ( Cass., trib., 4 luglio 2003 n. 10607, da cui gli excerpta) ha già evidenziato (e ribadito con Cass., trib., 18 febbraio 2009 n. 3830) che “ilD.L. n. 167 del 1990, convertito con modificazioni conL. n. 227 del 1990, nasce nel quadro della liberalizzazione valutaria a seguito della Direttiva comunitaria n. 88-361-CEE del 24 giugno 1988, attuata mediante l’emanazione del Decreto interministeriale del 27 aprile 1990 entrato in vigore dal 14 maggio 1990”: “ritenendosi”, infatti, “che la liberalizzazione, se attuata senza un adeguato correttivo, avrebbe potuto consentire la sottrazione di cospicue entità patrimoniali al controllo del fisco o anche agevolare l’attività di riciclaggio di denaro sporco, fu approvata la disciplina di cui al ricordatoD.L. n. 167 del 1990, che è conosciuta sotto la denominazione sintetica di monitoraggio fiscale, in quanto motivata esclusivamente dalla necessità dell’Erario di monitor are i trasferimenti di valuta da e per l’estero, quali manifestazioni di capacità contributiva”.

Attesa, poi, la “la non corrispondenza delle finalità della disciplina di cui alD.L. n. 167 del 1997, alle finalità tipiche della normativa valutaria”, nella stessa decisione si è riconosciuto “al citato decreto la natura di normativa di carattere fiscale”.

L’indicata finalità (“monitorare i trasferimenti di valuta da e per l’estero, quali manifestazioni di capacità contributiva”) perseguita dalla norma evidenzia la non sussumibilità della relativa violazione nella generale nozione di omessa, ovvero di inesatta od incompleta indicazione di “dati rilevanti… per la determinazione del tributo” punite dalD.Lg. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 8, comma 1, e, di conseguenza, impongono di confermare il principio per il quale ( Cass., trib., 11 giugno 2003 n. 9320) “la specialità della previsione sanzionatoria de qua – contenuta in un testo di legge avente ad oggetto esclusivamente il c.d. monitoraggio fiscale ed integrato… da altro testo normativo (D.Lgs. 30 aprile 1997, n. 125) recante norme in materia di circolazione transfrontaliera di capitali, in attuazione della direttiva 91-308-CEE – rende palese la volontà dei legislatore di sanzionare in modo specifico ed autonomo le violazioni di cui al più volle menzionatoD.L. 167 del 1990, art. 4: con la conseguenza che la relativa disciplina deve ritenersi non essere stata tacitamente abrogata, per incompatibilità (contrasto) delle rispettive previsioni, dell’invocatoD.Lg. n. 471 del 1997, art. 16 comma 2”.

Siffatto principio non può dirsi contrastato dall’opinione espressa dal competente Ufficio ministeriale nella “Circolare… n. 98/E/200/107570 del 17 maggio 2000” perchè – a prescindere dal valore non precettivo della stessa – quella opinione:

(1) non affronta il problema delle violazioni punite dall’art. 5 detto commesse, come quella in esame, prima dell’entrata in vigore delD.Lgs. n. 471 del 1997, perchè la tesi (giusta la domanda cui la circolare risponde) si ricollega alla “scomparsa nelle istruzioni al quadro W di specifici riferimenti al regime sanzionatorio”, quindi ad una situazione diversa da (comunque successiva a) quella regolata dall’art. 4 e punita dall’art. 5 detti, inesistente al momento in cui l’illecito è stato commesso;

(2) non dichiara l’abrogazione sic et simpliciter della norma (con conseguente non punibilità della violazione) ma affronta, più propriamente, il diverso problema della applicabilità della sanzione di cui alD.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, (“sanzioni applicabili… debbano considerarsi abrogate in quanto diversamente disciplinate dalle sopravvenute disposizioni normative” ), cioè (cfr.Cass. n. 10607 del 2003, cit.) un problema di eventuale “successione di legge più favorevole”.

F. L’infondatezza, infine, degli ultimi due motivi di ricorso – da esaminare congiuntamente per la loro intima connessione – discende dal principio (affermato da questa sezione nellasentenza 11 giugno 2003 n. 9320e reiterato nella successiva 7 maggio 2007 n. 10332) – da ribadire per assoluta carenza di qualsivoglia argomentazione contraria, nel caso nemmeno adombrata non avendo il ricorrente neppure menzionato la prima decisione ben-che anteriore alla proposizione del suo ricorso per cassazione – per il quale (“avuto riguardo alla ratio legis”, cioè sempre al “c.d. monitoraggio fiscale” (“quale… espressamente enunciato nel preambolo del decreto legge”) dalla stessa perseguito – quindi- alla “straordinaria necessità ed urgenza di adottare disposizioni di natura fiscale atte a consentire la possibilità di controllo di talune operazioni finanziarie da e verso l’estero, anche in vista della predisposizione di meccanismi di cooperazione e di scambio di informazioni tra i paesi comunitari, nonchè di talune importazioni ed esportazioni al seguito di denaro, titoli o valori per contenere l’uso del contante”) – “anche i soggetti non beneficiari effettivi dei trasferimenti” debbono ritenersi destinatari dell’obbligo, previsto dalD.L. 28 giugno 1990, n. 167, art. 4, (convertito inL. 4 agosto 1990, n. 227), testo originario – e, di poi, delle sanzioni derivanti dalla violazioni dello stesso, comminate dal successivo art. 5 -, di indicare, “nella relativa” (cioè nella propria) “dichiarazione dei redditi”, gli “investimenti all’estero” e/o le “attività estere di natura finanziaria” detenuti (“che detengono”) “al termine del periodo d’imposta” tutte le volte che tali soggetti abbiano la “disponibilità” e/o, comunque, la “possibilità” di “movimentazione” di detti investimenti e/o attività perchè (“quale”) “soggetto avente la disponibilità di fatto di somme di danaro”, anche se “non proprie”, ma “con il compito” (assunto e/o adempiuto) di “trasferirle all’effettivo beneficiario”.

Il “controllo” delle “operazioni finanziarie da e verso l’estero” perseguito dal legislatore, invero, può essere efficacemente ottenuto sol dando (tenuto conto della “mancanza di disposizioni interne al provvedimento legislativo… che escludano dall’obbligo di dichiarazione ex art. 4… anche i soggetti non beneficiari effettivi dei trasferimenti”, già evidenziata nella citata decisione del 2003) alla nozione di “detenzione” un significato onnicomprensivo perchè anche la “detenzione nell’interesse altrui… (jure et nomine alieno)” (nel caso, ammessa dallo stesso C.) costituisce idoneo strumento (voluto pure dal detentore nell’interesse altrui) di occultamento (e, quindi, di sottrazione al “controllo”) degli “investimenti” e delle “attività…finanziarie” indicati nella norma.

Il rilievo impone, quindi, di confermare il principio detto, per effetto del quale si palesano, conseguentemente, del tutto irrilevanti (a prescindere dalla loro effettiva sussistenza) i fatti (“fiduciari dei conti esteri… erano” altri; “non era intestatario di alcuno dei conti…, non aveva poteri di firma”) addotti dal ricorrente essendo sufficiente ad integrare l’obbligo in esame anche il fatto, ammesso dallo stesso C., di aver trasmesso “istruzioni e volontà dell’effettivo titolare” perchè tale attività (tenuto conto della imprescindibile fiducia che egli doveva necessariamente godere in considerazione, almeno e comunque, della rilevante entità dei valori movimentati e della complessità delle operazioni effettuate) integra, comunque, un opera di vera e propria “movimentazione” degli investimenti e/o delle attività finanziarie dette rilevante ai fini della norma.

Il ricorrente – senza ulteriore e/o migliore specificazione, quindi in totale violazione dell’art. 366 c.p.c.- assume essere stato accertato “nel processo penale” che egli ha svolto “nella vicenda Enimont una mera attività di tramite” e richiama, in proposito, solo due semplici frasi della sentenza penale 28 aprile 1994 n. 2047 emessa a suo carico del Tribunale di Milano (“si può ritenere che C. non ha trattenuto a proprio profitto le somme contestate” ; “è del tutto evidente che lo stesso non ha trattenuto le ingenti somme qui ricordate per interesse personale”), che escludono il “profitto” ma suppongono di logica necessità un possesso (almeno) penalmente rilevante delle “ingenti somme” oggetto di quell’accertamento; il medesimo, inoltre, afferma ma non spiega il ruolo che sarebbe stato svolto nella “vicenda Enimont” da ” B. e Bi.” (indicati quali “fiduciari” del Ca.) o da ” Cr. e d.T.” (ai quali attribuisce la materiale movimentazione, omettendo qualsiasi indicazione in ordine ai diretti suoi rapporti con gli stessi); tace del tutto, di poi ed infine, sia sul concreto contenuto delle imputazioni penali ascrittegli -supponenti la movimentazione (giuridica e fattuale) di conti esteri da parte di esso C. -, sia sull’esito complessivo di quel giudizio penale, peraltro da tempo concluso con la sentenza depositata dalla quinta sezione penale di questa Corte il 31 gennaio 1998 (che riporta quelle imputazioni), contenenti concreti riferimenti anche alle notizie su detti rapporti “trascurate” dal ricorrente.

4. Nessun provvedimento deve essere adottato in ordine alle spese di questo giudizio di legittimità non avendo l’Agenzia intimata svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 18 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2010

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