Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17048 del 13/08/2020

Cassazione civile sez. trib., 13/08/2020, (ud. 28/02/2020, dep. 13/08/2020), n.17048

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19903/2013 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro-tempore,

rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato,

presso i cui uffici è domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, n.

12;

– ricorrente –

contro

B.M.A. S.r.l. in liquidazione;

– intimata –

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Campania n. 180/231/2012, pronunciata il 27.2.2012 e depositata il

18.6.2012;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

28 febbraio 2020 dal Consigliere Giuseppe Saieva.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Commissione tributaria regionale della Campania, con sentenza n. 180/231/2012, pronunciata il 27.2.2012 e depositata il 18.6.2012, accoglieva l’appello proposto dalla B.M.A. S.r.l. avverso la decisione della Commissione tributaria provinciale di Napoli, annullando gli avvisi di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate, Ufficio di Noia, aveva recuperato a tassazione ai fini IRES, IRAP ed IVA per l’anno 2004 imposte per Euro 41.472,00, derivanti da operazioni di acquisto di prodotti tessili di provenienza extra U.E., nonchè ricavi omessi per Euro 178.916,00 derivanti dall’applicazione del ricarico del 18% sul venduto. La C.T.R. aveva accolto le deduzioni della società secondo cui i recuperi erano stati contabilizzati per errore nell’anno di imposta 2004, anzichè 2003, senza tuttavia arrecare alcun danno all’Erario, mentre la determinazione del ricarico effettuata solo su dieci campioni del venduto risultava inattendibile.

2. Avverso tale decisione l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, cui la contribuente non ha contrapposto alcuna difesa.

3. Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 28.2.2020, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c. e dell’art. 380 bis 1 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo l’agenzia ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, 1 comma, lett. d), nonchè del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75 e art. 109, commi 1 e 2” in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, assumendo che la C.T.R., pur dando atto della “violazione del principio di competenza”, aveva ritenuto che tale irregolarità non “avrebbe” comportato alcuna alterazione del bilancio, nè alcun danno per l’Erario, in quanto se le fatture dei beni acquistati fossero state contabilizzate correttamente nel 2003, sarebbero confluite nelle rimanenze finali senza alcun riflesso nel reddito del 2003, mentre nell’anno 2004 queste sarebbero poi confluite nei componenti negativi di bilancio, come rimanenze iniziali.

1.2. La censura è fondata.

1.3. Come osservato da questa Corte in tema di determinazione del reddito d’impresa, le regole sull’imputazione temporale dei componenti del reddito, sono tassative ed inderogabili, non essendo consentito al contribuente di ascrivere a proprio piacimento un componente positivo o negativo del reddito ad un esercizio diverso da quello individuato dalla legge come “esercizio di competenza”(cfr. Cass. n. 26665 del 18/12/2009 e più recentemente Cass. n. 33041/19; Cass. n. 7121/19; Cass. n. 32958/18 e Cass. n. 20095/18).

1.4. L’art. 75, comma 1, TUIR (ora art. 109 TUIR) – prevede infatti che l’imputazione dei componenti positivi o negativi che concorrono a formare il reddito di impresa avvenga secondo il criterio della competenza ovvero, secondo una comune chiave di lettura che, pone questo criterio in contrapposizione a quello di cassa, avendo riguardo non già al momento in cui avviene l’incasso o il pagamento del corrispettivo, ma al momento in cui si perfeziona la fattispecie da cui i componenti positivi o negativi vengono a giuridica esistenza risultando acquisiti al patrimonio dell’impresa sotto forma di credito o debito, indipendentemente dalla loro soddisfazione. Più in particolare, il comma 2 alla lett. a) della norma citata, con diretto riferimento alla fattispecie in esame, prevede che “ai fini della determinazione dell’esercizio di competenza: a) i corrispettivi delle cessioni si considerano conseguiti e le spese di acquisizione dei beni si considerano sostenute alla data di consegna o spedizione peri beni mobili… “.

1.5. Pertanto, in base al principio contabile della correlazione tra costi e ricavi, secondo il quale l’imputazione dei costi deve essere effettuata nel periodo di bilancio in cui si registrano i ricavi – e più esattamente nel periodo in cui i fattori della produzione acquisiti, sostenendo un costo, contribuiscono alla produzione di una componente reddituale positiva, generando un ricavo – correttamente l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto di recuperare a tassazione, in quanto indebitamente dedotto nel conto economico del bilancio chiuso ai 31/12/2004, oneri per Euro 41.472,00 derivanti da operazioni d’acquisto di prodotti tessili di provenienza extra UE, per le quali erano state adottate le clausole contrattuali “CIF” e “CFR” ed era stato stabilito che il trasferimento della disponibilità giuridica della merce avvenisse quando i documenti predisposti dall’esportatore venivano poi affidati alla banca dell’importatore contro il pagamento dell’importo pattuito.

2. Con il secondo motivo l’Agenzia ricorrente deduce “violazione dell’art. 2697 c.c. e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39″, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, sostenendo la legittimità dell’operato dell’ufficio che – in contraddittorio con la contribuente ed in assenza di specifiche contestazioni – aveva proceduto ad una rideterminazione dei ricavi mediante l’utilizzo di una diversa percentuale di ricarico medio, applicando su una campionatura di dieci articoli tra i più significativi il 18% a fronte di quello dichiarato del 15%; rideterminazione che aveva comportato una differenza di Euro 178.916,00 di ricavi omessi.

2.1. Tale censura non appare viceversa meritevole di accoglimento.

2.2. A tal fine, giova rilevare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, neppure la presenza di scritture contabili formalmente corrette esclude la legittimità dell’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo della antieconomicità del comportamento del contribuente, essendo in tali casi consentito all’Ufficio di dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e di desumere, sulla base di presunzioni semplici – purchè gravi, precise e concordanti -, maggiori ricavi o minori costi, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente (cfr. Cass., n. 17273/19; n. 20745/19; n. 23714/19; n. 28684/19).

2.3. In particolare, secondo la citata giurisprudenza, l’accertamento dei maggiori ricavi d’impresa può essere affidato alla considerazione della difformità della percentuale di ricarico applicata dal contribuente rispetto a quella riscontrata qualora essa raggiunga livelli di irragionevolezza e di incongruenza tali da privare, appunto, la documentazione contabile di ogni attendibilità (v. tra le altre Cass. n. 9262/19 e n. 23149/2017),

2.4. Ai fini della determinazione della gravità delle incongruenze questa Corte ha peraltro ritenuto che solo gli scostamenti lievi non consentano la rettifica dei redditi, ritenendo, come tali, quelli non superiori al 10% con oscillazioni ora del 7% (v. Cass., 26.9.2014, n. 20414); ora del 4,23% (v. Cass., 14.7.2017, n. 17486); ora del 10% (Cass., 30.1.2019n. 2637); ora del 4,68% (v. Cass., 29.3.2019, n. 8854), precisando tuttavia che la nozione di ‘grave incongruenza” non può essere ricavata avendo riguardo in via assoluta a precise soglie quantitative fisse di scostamento, essendo, invece, la nozione di indici di natura relativa da adattare a plurimi fattori propri della singola situazione economica, del periodo di riferimento ed in generale della stessa storia commerciale del contribuente destinatario dell’accertamento, oltre che del mercato e del settore di operatività. Ha pertanto, ritenuto lecito – al fine di individuare divergenze significative tra i ricavi dichiarati e quelli risultanti dagli studi di settore – anche fare riferimento al D.P.R. 16 settembre 1996, n. 570, art. 2, comma 1, lett. a, (“regolamento per la determinazione dei criteri in base ai quali la contabilità ordinaria è considerata inattendibile, relativamente agli esercenti attività di impresa, arti e professioni”), il quale dispone: “ai medesimi fini indicati nel comma 1, le contraddizioni tra le scritture obbligatorie e i dati e gli elementi direttamente rilevati si considerano gravi e rendono altresì inattendibile la contabilità ordinaria degli esercenti attività di impresa, quando: a) i valori rilevati a seguito di ispezioni o verifiche, anche parziali… abbiano uno scostamento, rispetto a quelli indicati in contabilità, superiore al 10 per cento del valore complessivo delle voci interessate, a condizione che tale scostamento non sia riconducibile a errata applicazione dei criteri di valutazione ovvero di imputazione temporale”. Analogamente al D.P.R. n. 570 del 1996, art. 1, comma 2, lett. b), si prevede che “tali contraddizioni” si considerano “gravi” quando “non risultano indicati in alcuna delle scritture contabili o, in mancanza dell’obbligo di indicazione nelle stesse, in altra documentazione attendibile, uno o più beni strumentali…il cui valore complessivo sia superiore al 10 per cento di quello di tutti i beni strumentali utilizzati…”.

3.3. Nel caso di specie, lo scostamento tra l’importo dei ricavi dichiarati dalla società e quelli calcolati dall’Ufficio non risulta superiore al 3%, sicchè ritenendo di dover dare continuità all’indirizzo da ultimo affermato (v. Cass. Sez. V, 29.3.2019, n. 8854) e non potendosi dubitare della particolare modestia di tale scostamento anche in relazione all’ammontare dei ricavi dichiarati, può senz’altro ritenersi che nella specie non si sia verificata una divergenza significativa tale da giustificare la rideterminazione di cui all’avviso di accertamento.

3. Per tutto quanto sopra esposto, il primo motivo del ricorso va accolto ed il secondo rigettato. La sentenza impugnata va pertanto cassata con rinvio al giudice a quo in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio.

PQM

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso e rigetta il secondo motivo; cassa la sentenza impugnata nei limiti di cui in motivazione e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 28 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2020

 

 

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