Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17037 del 11/08/2016


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Cassazione civile sez. I, 11/08/2016, (ud. 28/04/2016, dep. 11/08/2016), n.17037

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALVAGO Salvatore – Presidente –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Fabrizio – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5368-2010 proposto da:

P.L., (c. f. (OMISSIS)) R.M. c.f. (OMISSIS)),

R.A. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA PAOLO EMILIO 34, presso l’avvocato QUIRINO D’ANGELO,

rappresentati e difesi dall’avvocato FABRIZIO DI CARLO, giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

C.M., (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA CIPRO 77, presso l’avvocato CRISTINA SPERANZA, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato CESARE BORGIA, giusta

procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

contro

F.R. (c.f. (OMISSIS)), FARCAN S.A.S. (c.f. (OMISSIS));

– intimati –

avverso la sentenza n. 5/2009 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 13/01/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/04/2016 dal Consigliere Dott. MAURO DI MARZIO;

udito, per i ricorrenti, l’Avvocato FABRIZIO DI CARLO che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito, per il controricorrente, l’Avvocato CESARE BORGIA che ha

chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Rosario che ha concluso per l’accoglimento del quarto motivo,

rigetto del resto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – Nel febbraio del 1984 R.L. stipulò con Farcan S.a.s. un contratto di appalto volto alla ristrutturazione, da completarsi entro il settembre dello stesso anno, di un vecchio fabbricato situato nella via (OMISSIS), dietro il corrispettivo di 120 milioni di lire.

Nel febbraio del 1994 P.L., coniuge di R.L., medio tempore deceduto, unitamente ai loro due figli R.M. e R.A., convennero in giudizio dinanzi al Tribunale di Pescara F.R. e C.M., in proprio e quali rappresentanti di Farcan S.a.s., dolendosi che l’appaltatrice avesse abbandonato il cantiere senza eseguire alcuna opera e chiedendo per l’effetto dichiararsi risolto il contratto di appalto per inadempimento della stessa appaltatrice, con condanna della parte convenuta alla restituzione dell’importo di 85 milioni di lire corrisposto a titolo di acconto sul corrispettivo, nonchè al risarcimento del danno.

F.R. e C.M., in proprio e quali rappresentanti di Farcan S.a.s., resistettero alla domanda e spiegarono domanda riconvenzionale, sostenendo, per un verso, che il committente era receduto dal contratto a causa di ostacoli amministrativi e giudiziari all’esecuzione dell’opera, e, per altro verso, che essi convenuti, oltre ad una parte dei lavori appaltati, avevano eseguito lavori di ristrutturazione di un diverso immobile nella via (OMISSIS) del medesimo Comune di (OMISSIS), maturando il diritto ad un corrispettivo, mai versato, di 50 milioni di lire.

2. – Con sentenza del 31 gennaio 2006 il Tribunale di Pescara dichiarò da un lato risolto il contratto di appalto per inadempimento di Farcan S.a.s. e condannò gli originari convenuti alla restituzione, in favore della P. e dei R., della complessiva somma di Euro 36.151,98, con rivalutazione ed interessi, nonchè al risarcimento dei danni per l’importo di Euro 10.000,00, e, dall’altro lato, accolse la domanda riconvenzionale, limitatamente all’importo di 15 milioni di lire corrispondente ai lavori da essi convenuti effettivamente eseguiti per la demolizione del rudere del fabbricato.

3. – Contro tale sentenza F.R. e C.M. hanno proposto appello, che la Corte d’appello dell’Aquila ha ritenuto essere stato proposto da essi in proprio e quali rappresentanti di Farcan S.a.s..

Nel contraddittorio della P. e di R.M., ritenuto contumace R.A., con sentenza del 13 gennaio 2009, la Corte d’appello dell’Aquila, disattesa l’eccezione di inammissibilità dell’impugnazione per difetto del requisito di specificità dei motivi, ha accolto l’appello, in breve ritenendo, per quanto ancora rileva;

-) che il Tribunale avesse errato nel ritenere che gli originari convenuti non avessero comprovato la richiesta di sospensione dei lavori da parte del committente, e che gli ostacoli di natura amministrativa e giudiziaria allegati dagli stessi convenuti fossero successivi allo spirare del termine per l’esecuzione dei lavori inizialmente appaltati;

-) che, infatti, era stata depositata agli atti una domanda di proroga della concessione edilizia proveniente dal R. del 20 gennaio 1986 dalla quale si desumeva che lo stesso committente aveva assunto l’iniziativa di sospendere i lavori;

-) che, conseguentemente, il ritardo nella consegna dell’opera non era imputabile all’impresa e, pertanto, mancavano i presupposti della pronuncia di risoluzione per inadempimento, con le conseguenti condanne pronunciate dal Tribunale;

-) che, quanto alle restituzioni, esse non potevano essere disposte, in mancanza della pronuncia di risoluzione per inadempimento, perchè respinta, nonchè di quella di risoluzione del contratto di appalto per mutuo consenso, perchè non proposta.

Su tali considerazioni la Corte d’appello ha infine respinto la domanda della P. e dei R. volta alla dichiarazione di risoluzione del contratto, alla restituzione dell’anticipo pagato ed al risarcimento dei danni, confermando per il resto la sentenza impugnata e regolando le spese di lite.

4. – P.L., R.M. e R.A. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.

C.M. ha resistito con controricorso.

F.R. e Farcan S.a.s. non hanno spiegato difese.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

5. – Il ricorso contiene quattro motivi.

5.1. – Il primo motivo è svolto sotto il titolo: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 342 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Sostengono i ricorrenti che la Corte d’appello avrebbe errato nel disattendere l’eccezione di inammissibilità dell’impugnazione per la genericità dei motivi, dal momento che la stessa sentenza impugnata aveva dato atto che tali motivi non fossero stati formalmente esplicitati.

5.2. – Il secondo motivo è svolto sotto il titolo: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 323, 324, 325 e 326 Omessa motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5”.

Con il motivo i ricorrenti denunciano l’errore commesso dal tribunale nel non avvedersi che l’impugnazione era stata proposta soltanto dalle persone fisiche di F. e C., sicchè la sentenza impugnata era passata in giudicato nei confronti di Earcan S.a.s..

5.3. – Il terzo motivo è svolto sotto il titolo: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 75, 300, 322, 323, 324, 326 e 330 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3. Sostengono i ricorrenti, d’altro canto, che la sentenza di primo grado era altresì passata in giudicato nei confronti di R.A., dal momento che gli appellanti avevano notificato l’atto di impugnazione presso il difensore esclusivamente alla F.L., in proprio, ed a R.M., mentre l’atto era stato notificato personalmente a R.A.. Nè poteva condividersi l’assunto della Corte d’appello che aveva dichiarato contumace il medesimo perchè “personalmente citato in quanto nel frattempo divenuto maggiorenne”, giacchè, non essendo stato dichiarato tale evento, la notificazione doveva essere effettuata, come di regola, presso il difensore domiciliatario nel giudizio di primo grado.

5.4. – Il quarto motivo è svolto sotto titolo: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1453 e 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Secondo i ricorrenti la Corte d’appello aveva errato nel ritenere giustificata la mancata esecuzione dell’opera in ragione dell’esistenza di un interruzione non riferibile all’impresa, nonostante l’assenza di provvedimenti che avessero impedito la prosecuzione dei lavori, tanto più che l’istanza valorizzata dalla sentenza impugnata manifestava l’intenzione dei R. di riprendere subito i lavori.

6. – Il ricorso va accolto.

6.1. – Il primo motivo è fondato.

Anche nel testo antecedente alla novella di cui alla L. 26 novembre 1990, n. 353, in questo caso applicabile ratione temporis, l’art. 342 c.p.c. stabiliva che l’atto d’appello dovesse contenere i motivi specifici dell’impugnazione.

Ponendo l’accento sul requisito della specificità dei motivi di impugnazione, questa Corte ha da tempo precisato che l’appello non rappresenta più, nella configurazione datagli dal codice di rito, il mezzo per passare da uno all’altro esame della causa, secondo il modello del novum iudicium, ma consiste in una revisio fondata sulla denunzia di specifici vizi di ingiustizia o nullità della sentenza impugnata, sicchè l’appellante è tenuto a fornire la dimostrazione della fondatezza delle singole censure mosse alle singole statuizioni offerte dalla sentenza impugnata, il cui riesame è chiesto per ottenere la riforma del capo decisorio appellato.

E’ stato in proposito chiarito che l’appello “deve contenere, “i motivi specifici dell’impugnazione”. Il che sta ad indicare che l’atto d’appello non può limitarsi ad individuare le “statuizioni” concretamente impugnate e cosi i capi di sentenza non ancora destinati a passare in giudicato ex art. 329 cpv., ma deve contenere anche le argomentazioni dirette a confutare la validità delle ragioni poste dal primo giudice a fondamento della soluzione delle singole questioni su cui si regge la decisione… e, quindi, non può non indicare le singole “questioni” sulle quali il giudice ad quem e chiamato a decidere -, sostituendo o meno per ciascuna di esse soluzioni diverse da quelle adottate in prime cure” (C SU 28498/2005). L’appello, in altre parole, “è dato alla parte contro l’ingiustizia della sentenza di primo grado ed è rimessa alla stessa parte, per il principio dispositivo, la determinazione dei fatti nei quali l’ingiustizia si concreta, con la conseguenza della esigenza assoluta conseguenza che, in difetto di tale motivazione del vizio denunciato, il giudice del gravame non può procedere alla revisio prioris instantiae” (C SU 16/2000).

In tale ottica, è divenuto ius receptum, nella giurisprudenza della SC, il principio secondo cui il requisito della specificità dei motivi di cui all’art. 342 postula che alle argomentazioni della sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, finalizzate ad inficiare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza scindibili dalle argomentazioni che la sorreggono.

L’appello deve cioè necessariamente contenere una parte argomentativa idonea a contrastare la motivazione delle sentenza impugnata.

L’atto d’appello, è stato allora ripetuto, deve rivolgere alla sentenza impugnata “censure puntuali e precise”, ovvero deve contenere la specificazione “sia pure in forma succinta, degli errores attribuiti alla sentenza di primo grado” (ex multis Cass. 22 gennaio 2001, n. 875; Cass. 5 agosto 2002, n. 11710; Cass. 16 dicembre 2005, n. 27727; Cass. 23 gennaio 2009, n. 1707). Val quanto dire che la formulazione dell’atto d’appello deve consentire di individuare con chiarezza le statuizioni investite dall’impugnazione, onde consentire all’appellato e al giudice di valutare esattamente la portata della medesima. I motivi dell’impugnazione devono quindi non solo indicare il quantum appellatum, ma anche il quia: il motivo d’appello deve individuare le parti di cui l’appellante chiede la riforma e gli errori, in iudicando o in procedendo, da cui esse sono affette. In breve, mutuando una schematizzazione operata dalla dottrina, si può dire che il motivo di appello è specifico quando, in base ad un giudizio ex ante, l’eventuale fondatezza dell’argomentazione priverebbe di base logica la sentenza impugnata. Insomma, è motivo specifico quello idoneo, almeno in astratto, a far cadere l’impalcatura che sorregge la motivazione della sentenza impugnata.

In tale prospettiva si colloca la pronuncia in cui si afferma che il giudizio di appello è “finalizzato alla riforma di una decisione, quella del primo giudice, che nel vigente sistema è da tempo assistita da una vera e propria presunzione di legittimità (la cui più significativa espressione è costituita dalla disposizione dell’art. 337 c.p.c., come sostituito dalla “novella” L. n. 353 del 1990, prevedente la regola, salve poche eccezioni, dell’esecutorietà della sentenza, pur in pendenza del gravame)” (Cass., Sez. Un., 8 febbraio 2013, n. 3033 la quale ha ribadito il dictum di Cass., sez. un., 23 dicembre 2013, 2005, n. 28498, secondo cui il riparto degli oneri probatori, in sede di impugnazione, non ricalca quello derivante dall’applicazione, in primo grado, delle regole stabilite dal primo e dal comma 2 dell’articolo l’appellante, una esattamente l’errore giudice, deve dare fondatezza del motivo).

In tale contesto, intangibile da parte appello, ciò che non delimitazione dell’impugnazione ad alcune parti soltanto della sentenza, ossia l’acquiescenza parziale, è naturalmente rilevabile d’ufficio, atteso che il giudice deve accertare anche quali siano i limiti d’ufficio oggettivi dell’impugnazione: P. es. Cass. 14 febbraio 2013, n. 3664; Cass. 19 giugno 2002, n. 8940), salvo quanto ancora rilevabile d’ufficio e – allo stato della giurisprudenza e senza considerare la riformulazione dell’art. 342 c.p.c. nel testo attuale – quanto strettamente connesso al profilo colpito dall’impugnazione: il che viene desunto dall’art. 329 c.p.c., comma 2, contenuto nella parte generale sulle impugnazioni, secondo il quale:

“L’impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnata”, in collegamento con l’art. 336 c.p.c., comma 1, (“La riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata”).

Il significato dell’art. 329 c.p.c., comma 2, e la nozione di “parte di sentenza”, è in dottrina ampiamente controverso. In breve, si discute se per “parte di sentenza” debba intendersi la decisione su una “domanda” o la decisione su una “questione”.

D’altronde, alla stessa nozione di “questione” è attribuita, a seconda delle opinioni, una latitudine maggiore o minore. Ora, la soluzione al quesito possiede importanti ricadute pratiche: quanto più si dilata la nozione di “parte di sentenza”, tanto più si amplia, proporzionalmente, l’ambito di ciò che, attraverso l’appello, è devoluto alla cognizione del giudice dell’impugnazione; quanto più, invece, si restringe la stessa nozione, tanto più si alleggerisce il compito del giudice d’appello. Il concreto atteggiarsi del principio tantum devolutum quantum appellatum, insomma, si modifica radicalmente a seconda del significato attribuito alla locuzione “parte di sentenza”.

Secondo alcuni la “parte di sentenza”, cui si riferisce la norma, si individua in correlazione con la domanda dedotta in giudizio, e così con il diritto controverso: “parte di sentenza” è allora quella che decide su un capo di domanda, sicchè l’art. 329 c.p.c., comma 2, concerne essenzialmente il caso del cumulo oggettivo.

Altri intendono la nozione di “parte di sentenza” come soluzione data ad ogni singola questione affrontata e risolta dal giudice al fine di pervenire alla statuizione sulla domanda proposta. Posto che per “parte di sentenza” deve intendersi “decisione di questione”, si precisa altresì e tale è la soluzione da preferire, in adesione al modello ormai accolto dal legislatore, che si fonda sul progressivo affinamento della decisione che per “questione” deve intendersi ogni punto controverso: a) sull’esistenza o inesistenza di un fatto; b) sull’individuazione e applicazione di una norma di diritto sostanziale; c) sull’individuazione e sull’applicazione (cioè sull’effetto) di una norma di diritto processuale; parte di sentenza sarà allora la statuizione su ciascuno dei punti controversi, così definiti, che sorgono all’interno di un giudizio.

Orbene, occorre anzitutto dire che i ricorrenti sono incorsi in un evidente errore nell’inquadrare la doglianza spiegata entro l’ambito della violazione di legge, concernendo viceversa essa un franco error in procedendo, riconducibile alla previsione del numero 4 (e non certo del numero 3, che si riferisce alle norme sostanziali) dell’art. 360 c.p.c.: ma questa Corte ha avuto modo di chiarire che il semplice errore nell’indicazione del riferimento numerico non determina inammissibilità del ricorso per cassazione, quando la doglianza – come in questo caso sia chiaramente inquadrabile in una delle previsioni normative dettate dal citato art. 360 (Cass., Sez. Un., 24 luglio 2013, n. 17931).

Ciò detto, nel caso in esame è stata la stessa sentenza impugnata a riconoscere che l’atto d’appello non conteneva motivi formalmente esplicitati: e tuttavia la Corte d’appello ha ritenuto di poter desumere dall’atto che gli appellanti Intendessero dolersi di errori concernenti la valutazione del materiale probatorio. Dalla lettura dell’atto d’appello, che la Corte può effettuare essendo giudice del fatto processuale, dal momento che, come si diceva, si versa in ipotesi di error in procedendo, risulta in effetti che tale atto mancava di motivi specifici, e, cioè, non manifestava specifiche censure rivolte contro i singoli passaggi motivazionali della sentenza impugnata, in particolare quello che aveva giudicato irrilevanti le vicende successive allo spirare del termine per il completamento dei lavori appaltati (l’istanza rivolta all’amministrazione per la proroga della concessione era di gran lunga successiva allo spirare del termine per il completamento dell’opera), ma sollecitava genericamente un complessivo riesame del materiale probatorio acquisito agli atti.

L’atto d’appello, in altre parole, conteneva il solo elemento volitivo, ossia la richiesta di modificazione della decisione impugnata, ma non quello critico, giacchè gli appellanti non avevano fatto altro che ricostruire secondo il proprio punto di vista la vicenda oggetto di lite (così come si suole fare, per intendersi, in una comparsa conclusionale), ma non avevano sottoposto a specifica critica le rationes decidendi poste a sostegno della decisione impugnata, limitandosi a prospettare la propria lettura dei termini della controversia come alternativa a quella data dal Tribunale.

L’inammissibilità dell’appello fondato su un atto così conformato è resa palese dall’applicazione del criterio poc’anzi indicato, e cioè dal fatto che, in base ad un giudizio ex ante, lo scrutinio dell’atto d’appello non privava affatto di base logica la sentenza impugnata, la quale è stata invece riformata in dipendenza del complessivo riesame degli elementi istruttori disponibili compiuto dalla Corte d’appello, la quale ha a tal fine selezionato gli argomenti giudicati significativi per il capovolgimento della decisione impugnata. In particolare, l’atto d’appello si limitava a menzionare tra i molti altri documenti prodotti anche l’istanza di proroga della concessione del 20 gennaio 1986, ma non conteneva alcuna considerazione, tantomeno specifica, che la riguardasse e che sottolineasse il suo rilievo per i fini del rigetto della domanda di risoluzione per inadempimento originariamente introdotta. Ciò nondimeno, la Corte territoriale ha sostituito la motivazione addotta dal Tribunale con una ritenuta più corretta, omettendo in tal modo di scrutinare l’impugnazione, come essa avrebbe dovuto fare, osservandola attraverso la lente dei motivi di doglianza.

Così facendo, la Corte d’appello si è in definitiva sostituita agli appellanti, procedendo all’individuazione degli errores, pur non specificamente denunciati, contenuti in sentenza.

Per l’effetto la sentenza impugnata va cassata decidendo nel merito, l’appello va dichiarato inammissibile.

6.2. – Gli altri motivi sono assorbiti.

7. – Le spese seguono la soccombenza.

PQM

accoglie il primo motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata e, assorbiti gli altri, e, decidendo nel merito, dichiara inammissibile l’appello proposto contro la sentenza del 31 gennaio 2006 del Tribunale di Pescara resa tra le parti, condannando F.R., C.M. e Farcan S.a.s. al rimborso, in favore dei ricorrenti, delle spese del giudizio di appello, liquidate in complessivi Euro 5000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, nonchè del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 5400,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, il tutto oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 28 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 11 agosto 2016

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