Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17031 del 13/08/2020

Cassazione civile sez. trib., 13/08/2020, (ud. 12/02/2020, dep. 13/08/2020), n.17031

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15495-2015 proposto da:

D.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI GRACCHI

130, presso lo studio dell’avvocato TERESA MACRI’, rappresentato e

difeso dall’avvocato ARNALDO AMATUCCI;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI (OMISSIS), in persona del Direttore

pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI

I2, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2459/2014 della COMM. TRIB. REG. di FIRENZE,

depositata il 16/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/02/2020 dal Consigliere Dott. GRAZIA CORRADINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

A seguito di un controllo effettuato dal Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di (OMISSIS) presso la sede della società Centro Metalli Srl, l’Agenzia delle Entrate rettificò, con atto di contestazione, la dichiarazione annuale IVA della detta società, di cui era legale rappresentante D.A., relativa all’anno d’imposta 1997 ed applicò le relative sanzioni, ritenendo esistente una associazione criminale dedita alla frode fiscale mediante introduzione di metallo prezioso nel territorio nazionale e utilizzo di fatture false a fronte di operazioni commerciali soggettivamente inesistenti allo scopo di evadere l’iva mediante utilizzo di società filtro e cartiere.

La società Centro Metalli Srl presentò ricorso avverso l’avviso di rettifica alla Commissione Tributaria provinciale di Arezzo la quale rigettò il ricorso.

Investita dall’appello proposto dal contribuente, la Commissione tributaria regionale della Toscana, con sentenza n. 32/13/06, depositata in data 18/9/2006, in riforma della sentenza di primo grado, annullò l’atto di contestazione per mancanza di prova in ordine al coinvolgimento della società nel circuito fraudolento.

Propose ricorso per cassazione l’Agenzia con quattro motivi, lamentando: con il primo ed il terzo motivo, violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 17, comma 1, e art. 19, comma 1, e dei principi indicati nelle sentenze della Corte di Giustizia 12/1/2006 e 6/7/2006 in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto la CTR aveva ritenuto che l’Ufficio non avesse provato che la società contribuente conoscesse la fittizietà delle società intermedie e le omissioni di IVA ad opera delle stesse e, in violazione delle norme sopra richiamate, aveva ritenuto detraibile l’imposta corrispondente ad un’operazione la cui fatturazione era stata effettuata da un soggetto diverso da quello che l’ha resa; con il secondo motivo, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 21, 54 e 63, e D.P.R. n. 600 del 1972, art. 33, art. 2729 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto la CTR aveva ritenuto illegittimo l’accertamento dell’Ufficio sebbene l’onere di dimostrare la correttezza del proprio operato ricadesse a carico del contribuente; ed, infine, con il quarto motivo, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto la CTR aveva ritenuto illegittimo l’accertamento dell’Agenzia delle Entrate perchè basato su indizi e presunzioni.

Questa Corte, con sentenza n. 14960 del 2013, depositata in data 14.6.2013, accolse il quarto motivo di ricorso, con assorbimento degli altri e rinviò ad altra sezione della CTR della Toscana anche per le spese del giudizio di legittimità. In proposito ritenne censurabile il ragionamento della CTR che aveva qualificato illegittimo l’accertamento senza valutare la presenza di elementi presuntivi sufficienti ed adeguati a ritenere provato lo scopo fraudolento, quali, ad esempio, il carattere fittizio delle operazioni commerciali effettuate (indipendentemente dalla loro effettiva realizzazione) destinate a concludere un piano illecito di sfruttamento di evasione IVA; la mancanza di una propria struttura commerciale e di una effettiva organizzazione aziendale delle società fornitrici formalmente gestite da soggetti prestanome con capitale sociale minimo; le anomale modalità dei rapporti di acquisto e di pagamento con assegni circolari intrattenuti con le società fornitrici dalla contribuente; la mancanza di idonea documentazione sui trasferimenti della merce; l’acquisto della merce a prezzi nettamente più bassi del mercato; tutti elementi che, in conformità alla giurisprudenza consolidata di questa Corte e di quella della Corte di Giustizia, facevano presumere la piena conoscenza della frode e consapevole partecipazione all’accordo simulatorio del beneficiario finale, con la conseguenza che, in applicazione del relativo principio sancito dalla Dir. 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, art. 17, l’IVA assolta dal medesimo beneficiario nelle operazioni commerciali con la società filtro non era detraibile ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19, anche se le predette operazioni fossero state effettivamente compiute e le relative fatture, al pari dell’intera documentazione contabile, sembrassero perfettamente regolari.

In sede di giudizio di rinvio, riassunto da D.A. che chiese l’accoglimento dell’originario ricorso, la Commissione Tributaria Regionale della Toscana, con sentenza n. 2459/1/2014, depositata in data 16.12.2014, rigettò l’appello del contribuente e condannò l’appellante alle spese. Il giudice del rinvio ritenne che, pur a fronte della apparente regolarità contabile delle registrazioni delle scritture riferibili alle operazioni commerciali poste in essere dal contribuente, esistesse in causa un complesso indiziario con carattere di gravità, precisione e concordanza, consistente negli accertamenti compendiati nel processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza, che aveva sviscerato, anche medianti intercettazioni telefoniche, perquisizioni ed accessi bancari ed altro, il meccanismo fraudolento attraverso il quale era rimasta accertata la esistenza di una struttura criminale operante all’estero e sul territorio nazionale, finalizzata allo scopo di realizzare sistematicamente frodi in materia di IVA, rispetto alla quale il coinvolgimento della società Centro Metalli e dei suoi amministratori emergeva chiaramente, come confermato dalla sentenza di patteggiamento del GIP del Tribunale di Firenze, emessa nei confronti degli amministratori, fra cui D.A., che aveva accertato trattarsi di partecipi all’associazione nella veste di “effettivi committenti delle partite di argento ed utilizzatori delle fatture soggettivamente inesistenti”. Ed, a fronte di tale compendio probatorio, rafforzato dalla accertata prova di rapporti con soggetti pregiudicati per reati di truffa, contrabbando e soggetti nullatenenti utilizzati quali prestanomi, nonchè il dato della immissione sul mercato del metallo a prezzi decisamente inferiori a quello di listino, la Centro Metalli, in persona del suo amministratore D., non aveva addotto alcuna prova di non avere avuto alcuna conoscenza della attività fraudolenta e tanto meno di adottato alcuna cautela per evitare il rischio di rimanervi coinvolta, tale non essendo la emissione di assegni bancari come mezzo di pagamento, costituendo questi il mezzo ordinario per la copertura di operazioni inesistenti.

Contro la sentenza emessa in sede di giudizio di rinvio ha presentato ricorso per cassazione D.A. con atto notificato il 12.6.2015 affidato a due motivi, cui resiste con controricorso la Agenzia delle Entrate.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione agli artt. 384,394,115 e 116 c.p.c., art. 2729 c.c., e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, per avere la sentenza impugnato violato il principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza di annullamento con rinvio, non avendo in particolare assolto alle dimostrazioni che la sentenza di annullamento aveva posto a carico dell’Ufficio con riguardo alla frode ed al coinvolgimento nella stessa del cessionario, poichè il giudice del rinvio aveva assunto fideisticamente come prova il contenuto del processo verbale di constatazione senza dimostrare la validità probatoria dei contenuti riguardanti il ricorrente onde desumere da essi la dimostrazione della frode fiscale rappresentata dai verbalizzanti.

2. Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 63, e all’art. 384 e 394 c.p.c., nonchè al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, e art. 156 c.p.c., poichè la sentenza impugnata aveva desunto la prova del coinvolgimento del ricorrente nella presunta frode fiscale sulla base di mere affermazioni prive di capacità dimostrativa, nonchè sulla sentenza di patteggiamento emessa nei confronti del D. che però era stata prodotta nel giudizio di rinvio in violazione del D.Lgs. n. 546, art. 32, e comunque poteva valere solo come documento attestante l’esistenza di prove da sottoporre da parte del giudice tributario ad una autonoma e propria valutazione, mentre invece il giudice del rinvio aveva invertito l’onere della prova pretendendo dal contribuente la dimostrazione di avere adottato ogni cautela per evitare il rischio di rimanere coinvolto nella frode.

3. I due motivi, che possono essere esaminato congiuntamente poichè attengono entrambi alla pretesa violazione del principio di diritto posto dalla sentenza di annullamento con rinvio, con riguardo alla prova in merito al coinvolgimento de contribuente nella frode, sono infondati.

4. La sentenza di annullamento, premesso che questa Corte si era già occupata di fattispecie analoghe a quella in esame e precisamente di situazioni in cui il fatturante era, quanto meno formalmente, il fornitore effettivo ma l’operazione si iscriveva – per quanto riguardava quel trasferimento o per quanto riguarda i passaggi precedenti – in una combinazione negoziale fraudolenta di cui l’acquirente era o partecipe o consapevole e che contemplava la consapevolezza in vario modo da parte dei cessionari successivi del non versamento dell’IVA da parte di un cedente, ha rilevato come in questa ipotesi l’iva che figura pagata al cedente in via di rivalsa non è detraibile dato che ad essa – con la consapevolezza o la partecipazione del cessionario – non solo non corrisponde un versamento all’erario ma non corrisponde un’attività economica effettiva ed il trasferimento all’intermediario formale ha il solo scopo abusivo di avvantaggiarsi della detrazione. In tale ipotesi è peraltro il fisco ad avere l’onere di provare – anche mediante presunzioni – gli elementi di fatto che concretizzano la frode e la partecipazione ad essa o la consapevolezza di essa da parte del contribuente e tale prova può essere data anche mediante presunzioni, dotate di gravità, precisione e concordanza, consistenti in elementi tali da porre sull’avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto (Cass. 5 sezione n. 15741 21/2/2012). Sul tema la sentenza di annullamento con rinvio ha richiamato anche la sentenza di questa Corte n. 867 del 20 ottobre 2010 secondo cui “nelle c.d. frodi carosello fondate sul mancato versamento dell’imposta incassata da società cartiere a seguito di acquisti intracomunitari, o altrimenti esenti, e successive rivendite anche attraverso l’interposizione di una o più società filtro – il meccanismo dell’operazione e gli scopi che la stessa si propone (acquisizione di materiali a prezzi più contenuti al fine di praticare prezzi di vendita più bassi, con alterazione a proprio favore del libero mercato), fanno presumere la piena conoscenza della frode e consapevole partecipazione all’accordo simulatorio del beneficiario finale, con la conseguenza che, in applicazione del relativo principio sancito dalla Dir. 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, art. 17, l’IVA assolta dal medesimo beneficiario nelle operazioni commerciali con la società filtro non è detraibile ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19, anche se le predette operazioni siano state effettivamente compiute e le relative fatture, al pari dell’intera documentazione contabile, sembrino perfettamente regolari”.

Infine, la sentenza di annullamento con rinvio, ha anche citato la giurisprudenza comunitaria, in particolare Corte di Giustizia sent. C439/04 par. 59 Axel Kittel, secondo la quale deve essere negata la detraibilità se l’operatore “sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare con il proprio acquisto ad un’operazione che si iscriveva in una frode all’IVA” ed ha quindi annullato con rinvio la sentenza di appello, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale sopra riportato in ordine alla prova che deve essere fornita dall’ufficio, confermato dalle numerose altre sentenze anche recenti in materia e di fattispecie analoghe a quella in esame (Cass. 5, sez. n. 8722 del 27/2/2013), rimettendo al giudice del merito il nuovo esame della questione e delle circostanze addotte dall’Ufficio al fine di dimostrare la consapevole partecipazione della società al meccanismo fraudolento posto in essere con operazioni commerciali esclusivamente preordinate, anche se vere, ad eludere l’imposizione fiscale, sulla base di elementi presuntivi sufficienti ed adeguati a ritenere provato lo scopo fraudolento, quali, ad esempio, il carattere fittizio delle operazioni commerciali effettuate (indipendentemente dalla loro effettiva realizzazione) destinate a concludere un piano illecito di sfruttamento di evasione IVA, la mancanza di una propria struttura commerciale e di una effettiva organizzazione aziendale delle società fornitrici formalmente gestite da soggetti prestanome con capitale sociale minimo e le anomale modalità dei rapporti di acquisto e di pagamento con assegni circolari intrattenuti con le società fornitrici dalla contribuente, la mancanza di idonea documentazione sui trasferimenti della merce ed infine l’acquisto della merce a prezzi nettamente più bassi del mercato.

5. Orbene, a tali principi si è attenuta la sentenza impugnata, la quale ha ritenuto che la prova della consapevole partecipazione della società in persona del legale rappresentante alle operazioni fraudolenti la dovesse offrire la Amministrazione Finanziaria, ma che peraltro tale prova fosse stata data attraverso gli elementi convergenti (documentali, intercettazioni telefoniche, perquisizioni, accessi bancari e altro) raccolti dalle polizia tributaria che dimostravano inconfutabilmente come fosse stata realizzata una complessa e fittizia rete di vendite che originavano dal venditore estero cui il commerciante nazionale si rivolgeva, attraverso operazioni puramente cartolari realizzate da aziende cd. cartiere e aziende cd. filtro che ponevano in essere fittizi passaggi intermedi fra il fornitore estero del metallo ed il commerciante nazionale “Centro Metalli” il quale beneficiava di esenzioni e rimborsi indebiti e correlati ad operazioni inesistenti con conseguente risparmio di imposta. Di fatto quindi il metallo veniva posto a disposizione dal fornitore estero inglese alla Centro Metalli, attraverso ditte di trasporto cui venivano creati conto di deposito, anche se cartolarmente figurava quale prima cessionaria altra ditta di Lugano, che, in accordo con varie società, fra cui la Centro Metalli, dava vita ad una organizzazione di società carosello finalizzate a porre in essere la frode fiscale, in relazione alla quale la partecipazione della Centro Metalli emergeva con assoluta chiarezza non solo dalle convergenti plurime prove raccolte, tenuto anche conto dei rapporti con soggetti criminali pluripregiudicati per reati di frode e contrabbando e soggetti nullatenenti utilizzati come prestanome, nonchè del dato della immissione sul mercato del metallo a prezzi decisamente inferiori a quelli di listino e della sentenza di patteggiamento emessa nei confronti del Durante che era stato specificamente riconosciuto come partecipe della associazione criminale nella veste di effettivo committente delle partite di argento ed utilizzatore delle fatture soggettivamente inesistenti.

6. Di fronte a tale compendio probatorio il ricorrente sostiene che la CTR si sarebbe limitata ad elencare gli elementi emersi attraverso il pvc che però non sarebbero decisivi spettando al giudice dimostrare la validità probatoria del contenuto del pvc, peraltro una tale deduzione, che attiene alla valutazione della prova, esula dalla competenza del giudice di legittimità.

7. Il ricorrente trascura infatti l’articolata motivazione resa sul punto dal giudice di rinvio – non cogliendone, apparentemente, la portata complessiva – e comunque, sotto la veste formale di una censura di violazione di legge, contesta in realtà la valutazione dei fatti e del materiale probatorio da parte del giudice di rinvio, in contrasto con il granitico orientamento di questa Corte per cui il ricorso per cassazione non può costituire uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio, essendo perciò inammissibile il ricorso che tenda a sollecitare una nuova valutazione di risultanze di fatto.

8. Il ricorrente si duole ancora del fatto che l’onere della prova spettava all’Ufficio, ma è appunto questo che è stato sostenuto dal giudice di rinvio, il quale ha poi autonomamente esaminato, a pagine 4 e 5 della sentenza, il materiale probatorio versato in atti dalla Agenzia delle Entrate e proveniente anche dalle indagini della Guardia di Finanza e dagli atti penali, per desumerne, con giudizio critico, che era stata raggiunta la piena prova del coinvolgimento del ricorrente nella frode fiscale quale artefice della stessa, attraverso i plurimi, gravi e convergenti elementi anche già indicati nella sentenza di primo grado e riproposti nelle pagine precedenti della motivazione della sentenza in sede di rinvio, per cui il D., quale amministratore della Centro Metalli, non solo era pienamente consapevole della frode fiscale, ma ne era uno dei principali artefici quale utilizzatore delle partite di argento ed utilizzatore delle fatture soggettivamente inesistenti emesse per immettere nel mercato il metallo a prezzi decisamente inferiori a quelli di listino al fine di evadere l’IVA.

9. In proposito il ricorrente richiama una considerazione finale della sentenza impugnata, che ha rilevato come il D. non avesse dimostrato di non avere avuto conoscenza della attività fraudolenta e di avere adottato ogni cautela per evitare il rischio di rimanervi coinvolto, per desumerne che la sentenza impugnata avrebbe operato una non consentita inversione dell’onere della prova, però non è così poichè anche tale osservazione si inquadra nell’ambito di un corretto principio giuridico per cui “ove l’Amministrazione assolva al proprio onere istruttorio, grava poi sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, nè la regolarità della contabilità e dei pagamenti, nè la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi”, in quanto “spetta al contribuente-cessionario fornire la prova contraria della buona fede con cui ha svolto le trattative ed acquistato la merce, ritenendo incolpevolmente che essa fosse realmente fornita dalla persona interposta” (v. per tutte, Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 27566 del 30/10/2018 Rv. 651269 – 01; Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 10120 del 21/04/2017 Rv. 644043 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 17818 del 09/09/2016 Rv. 640767 – 01).

10. Quanto infine alla deduzione del ricorrente in merito alla inammissibilità della produzione della sentenza di patteggiamento soltanto nel giudizio di rinvio, la Agenzia controricorrente ha trascritto, per la parte che interessa, e prodotto in giudizio, in allegato al controricorso, la sentenza di primo grado con cui si dava atto della produzione fin dal primo grado della sentenza di patteggiamento emessa a carico dei signori D. e N., sentenza solo “ridepositata” in sede di giudizio di rinvio, ma già esistente agli atti del giudizio di primo grado. Si deve quindi escludere la dedotta inammissibilità della produzione, mentre, quanto al valore probatorio della sentenza di patteggiamento prodotta nel giudizio tributario, al contrario di quanto sostenuto dal ricorrente, si deve richiamare la giurisprudenza consolidata di questa Corte, cui si ritiene di dare continuità in questa sede, secondo cui “La sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. (cd. “patteggiamento”) costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale vi abbia prestato fede. Detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova dal giudice tributario nel giudizio di legittimità dell’accertamento” (v. Sez. 5 -, Ordinanza n. 13034 del 24/05/2017 Rv. 644241 – 01; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 24587 del 03/12/2010 Rv. 615119 – 01).

11. Il ricorso deve essere pertanto rigettato.

Le spese seguono la soccombenza del ricorrente anche nel presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte:

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio in favore della Agenzia delle Entrate che liquida in Euro 30.000,00(trentamila) per compensi oltre le spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2020

 

 

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