Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1703 del 20/01/2022

Cassazione civile sez. trib., 20/01/2022, (ud. 09/11/2021, dep. 20/01/2022), n.1703

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. PERRINO Angel – Maria –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso iscritto al numero 1330 del ruolo generale dell’anno

2013, proposto da:

s.r.l. VM Metalli, in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentato e difeso, giusta procura speciale a margine del

ricorso, dall’avv. Giancarlo Torra, col quale elettivamente si

domicilia in Roma, alla via Balduina, n. 7, presso lo studio

dell’avv. Concetta M. Rita Trovato;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

gli uffici della quale in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12,

elettivamente si domicilia;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale del Piemonte, depositata in data 23 maggio 2012, n.

39/34/12;

sentita la relazione svolta dal consigliere Angelina-Maria Perrino

nella pubblica udienza del 9 novembre 2021, tenutasi con le

modalità previste dal D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis,

conv., con mod., con L. n. 176 del 2020;

letta la memoria del sostituto procuratore generale Alberto Cardino,

che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Emerge dalla sentenza impugnata che, per il profilo ancora d’interesse, l’Agenzia delle entrate irrogò alla società sanzioni per omessa regolarizzazione di acquisti di rottami ferrosi, commisurate al 100% dell’imposta non assolta, perché i settecento acquisti compiuti dalla contribuente, esercente attività di commercio all’ingrosso di quei rottami, soltanto apparentemente erano avvenuti con soggetti privati, i quali erano risultati inesistenti; sicché, sostenne l’Agenzia, non essendo credibile che così ingenti quantitativi fossero stati acquistati da privati, si doveva ritenere che i fornitori fossero soggetti passivi iva, di modo che l’iva su quegli acquisti andava assolta mediante inversione contabile o reverse charge. La società impugnò il relativo avviso, senza successo in primo grado e la Commissione tributaria regionale del Piemonte ne ha rigettato il successivo appello. A sostegno della decisione il giudice del gravame ha anzitutto rimarcato che la condotta processuale della contribuente, la quale nulla ha replicato in ordine all’inesistenza degli apparenti fornitori, ha confermato la soggettiva inesistenza delle operazioni.

Operazioni che, ha aggiunto la Commissione, erano imponibili ai fini iva, laddove la società non ha assolto l’imposta, poiché non ha proceduto ad alcuno degli adempimenti richiesti per l’attuazione del meccanismo del reverse charge, in quei casi applicabile; di modo che, ha sottolineato il giudice d’appello, legittima è l’irrogazione della sanzione in misura pari al 100% dell’imposta. A fronte della condotta omissiva tenuta dalla contribuente, è poi da ritenere irrilevante, ha soggiunto la Commissione, che l’iva sia stata assolta dal successivo cessionario. Infine, ha concluso, la natura delle violazioni non consente l’applicabilità del cumulo previsto dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 12.

Contro questa sentenza propone ricorso la società per ottenerne la cassazione, che affida a due motivi, cui l’Agenzia replica con controricorso. Fissato in adunanza camerale, il giudizio è stato poi rifissato in pubblica udienza e, successivamente, all’odierna udienza tematica, in esito alla relazione dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo, che questa Corte ha richiesto, ai fini dell’approfondimento delle questioni coinvolte.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Col primo motivo di ricorso la società lamenta la violazione ed errata applicazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 6, comma 9-bis nel testo vigente all’epoca dell’irrogazione della sanzione, e il correlato vizio della motivazione, là dove il giudice d’appello non ha ritenuto applicabile la sanzione inferiore, pari al 3% dell’imposta.

La disciplina nazionale per il commercio dei rottami, qui in rilievo, prevede che la fattura sia emessa dal cedente senza addebito d’imposta, con l’osservanza delle disposizioni stabilite dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 21 e seg. e con l’indicazione, prevista dall’art. 74, comma 8 del medesimo decreto, che si tratta di operazione con iva non addebitata in via di rivalsa; la fattura è quindi integrata, con la specificazione dell’aliquota e dell’imposta, dal cessionario, soggetto passivo dell’imposta, che la registra nel proprio registro delle vendite, in tal modo assolvendo l’obbligo di pagamento del tributo, detratto con la parallela annotazione nel registro degli acquisti.

Sul piano sanzionatorio, il D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 9-bis, nel testo applicato dal giudice d’appello, prevede l’irrogazione di una sanzione fra il 100 e il 200 per cento dell’imposta, con un minimo di 258 Euro, al cessionario o al committente che, nell’esercizio d’imprese” arti o professioni, non assolve l’iva relativa agli acquisti di beni o servizi mediante il descritto meccanismo d’inversione contabile; e’, invece, prevista la minore sanzione pari al 3% dell’imposta, qualora questa sia assolta, sebbene irregolarmente.

1.1.- Ad avviso della contribuente, dunque, nel caso in esame sussiste il presupposto dell’irregolare assolvimento dell’iva, nonostante l’omissione di tutti gli adempimenti concernenti il regime dell’inversione contabile, perché l’imposta è stata assolta dal terzo acquirente della merce.

2.- In fatto, la ricorrente non contesta che le operazioni in questione fossero soggettivamente inesistenti, né che sussistessero i presupposti per l’assolvimento dell’iva ad esse relativa mediante inversione contabile, né di aver omesso tutti gli adempimenti al riguardo previsti; inoltre, non allega di ignorare che gli apparenti fornitori fossero, in realtà, inesistenti.

2.1.- In diritto, allora, la questione posta parrebbe risolta dalla giurisprudenza unionale, nel senso dell’infondatezza.

La Corte di giustizia, difatti, ha ribadito che, nell’ambito di applicazione del regime d’inversione contabile o reverse charge, in linea di principio nessun pagamento è dovuto all’erario; ma ha aggiunto che, per stabilire se l’iva sia stata regolarmente assolta, e, in particolare, se sussista il diritto di detrarla, che compensa l’obbligo di versarla (e’ questa compensazione che esclude il pagamento), è irrilevante accertare se Viva dovuta sulle operazioni di vendita precedenti o successive relative ai beni interessati sia stata, o no, versata all’erario, perché l’imposta si applica a ciascuna operazione di produzione o di distribuzione (Corte giust., causa C-610/19, Vikingo Fovallalkozo, punto 42). E giustappunto con riguardo a operazioni soggettivamente inesistenti soggette al regime d’inversione contabile, ha sottolineato l’ininfluenza della sussistenza di un rischio di perdita di entrate fiscali (Corte giust., causa C-281/20, Ferimet SL, punto 56).

2.2.- Coerentemente, nella giurisprudenza di questa Corte si evidenzia che il principio di neutràlità si traduce in quello di parità di trattamento, di modo che, al cospetto del debito d’imposta di uno dei soggetti passivi della catena di operazioni, nessuna rilevanza ha la circostanza che il soggetto che abbia realizzato l’operazione corrispondente all’anello successivo della catena abbia assolto l’iva (in termini, tra le ultime, Cass. n. 22092/21 e n. 26342/21). Ne’, in tal caso, la richiesta di assolvimento dell’iva rivolta al soggetto che abbia realizzato l’operazione precedente configura una doppia imposizione, che sussiste qualora sia reiteratamente applicata la medesima imposta in base allo stesso presupposto (Cass. n. 19479/21), non già quando la pretesa si basi su diversi titoli e nei confronti di soggetti diversi (Cass. n. 27625/18). E allora, anche qualora il cessionario versi l’imposta sebbene l’operazione sia soggetta al regime ordinario, il fisco può indirizzare comunque la propria pretesa impositiva al cedente, che è il soggetto passivo (Cass. n. 12146/21).

2.3.- Parrebbe quindi che si possa escludere che, nel caso in esame, l’omissione di tutti gli adempimenti inerenti al regime possa

configurare l’irregolare assolvimento dell’imposta per il solo fatto,

tra l’altro soltanto allegato e non documentato, che l’imposta è stata assolta dall’acquirente successivo. Per conseguenza,

sembrerebbe corretta la statuizione del giudice di merito che ha escluso la sussistenza del presupposto dell’irregolare assolvimento dell’imposta, ai fini dell’applicazione della sanzione inferiore invocata, invece, dalla ricorrente.

3.- Emerge, tuttavia, l’opportunità d’interpellare comunque le sezioni unite. Si pone difatti il problema dell’incidenza sul regime delle sanzioni del ius superveniens costituito dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, che ha novellato il D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6.

Il tema è stato sollevato dalla Procura generale, ad avviso della quale. nel caso in esame si applicherebbe. il comma 9-bis.3. della norma, secondo cui “Se il cessionario o committente applica l’inversione contabile per operazioni esenti, non imponibili o comunque non soggette a imposta, in sede di accertamento devono essere espunti sia il debito computato da tale soggetto nelle liquidazioni dell’imposta che la detrazione operata nelle liquidazioni anzidette, fermo restando il diritto del medesimo soggetto a recuperare l’imposta eventualmente non detratta ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 26, comma 3, e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 21, comma 2. La disposizione si applica anche nei casi di operazioni inesistenti, ma trova in tal caso applicazione la sanzione amministrativa compresa tra il cinque e il dieci per cento dell’imponibile, con un minimo di 1.000 Euro”.

Al riguardo si registra un contrasto, per quanto inconsapevole, nella giurisprudenza di questa sezione.

3.1.- In base all’orientamento minoritario e meno recente, espresso da Cass. n. 16679/16, la norma riguarda le sole ipotesi di operazioni inesistenti, regolate dal cessionario con l’inversione contabile interna, che siano anche esenti, non imponibili o comunque non soggette a imposta, con esclusione di quelle inesistenti e imponibili; e ciò perché in questa seconda categoria di ipotesi non è configurabile alcuna posta detraibile, di modo che il trattamento sanzionatorio resta regolato dalla combinazione del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 5, comma 4, e art. 6, commi 1 e 3, (nel testo applicabile all’epoca dei fatti di quella causa), sulla quale il diritto sopravvenuto non riuscirebbe a produrre alcun impatto.

3.2.- In base all’orientamento più consistente e recente, invece, espresso da tre pronunce coeve del 2019 (Cass. nn. 32552, 32553 e 32554 del 2019), seguite da Cass. n. 16367/20, il trattamento sanzionatorio più favorevole è applicabile a tutte le operazioni inesistenti, senza alcuna distinzione. E ciò perché, ad avviso della Corte, la norma, nella prima parte, disporrebbe in linea generale che in sede di accertamento debbano essere espunti sia il debito sia il credito computati nelle liquidazioni dell’imposta (eliminando così gli effetti dell’operazione contabilizzata), e nella seconda parte conterrebbe una disposizione eccezionale per le operazioni inesistenti.

Altrimenti, si sottolinea, si finirebbe col far derivare da violazioni di obblighi formali l’esclusione del diritto di detrazione con la conseguente violazione del principio di neutralità dell’imposta.

4.- A sostegno della tesi con la quale si assume che la disciplina apprestata dall’art. 6, comma 9-bis.3 si applichi a tutte le operazioni inesistenti si adducono, in dottrina, ulteriori argomenti.

Sul piano letterale e teleologico, si fa leva sul tenore della norma, là dove si stabilisce che “tale disposizione”, ossia quella concernente le operazioni esenti, non imponibili o comunque non soggette a iva, “si applica anche nei casi di operazioni inesistenti”, nonché sulla ratio dell’attenuazione sanzionatoria in caso di “effetti sostanzialmente neutri”, che ricorrerebbero appunto nell’ipotesi di reverse charge per operazioni inesistenti.

4.1.- Si aggiungono argomenti logici, dati dalla combinazione dell’introduzione dell’art. 6, comma 9-bis.3 con la modifica del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7, che impone il pagamento dell’intero ammontare dell’imposta indicata nella fattura emessa per operazioni inesistenti, attribuendo soggettivamente tale obbligo al solo “cedente” o “prestatore”, in luogo dell’originario “chiunque”. In particolare, si sostiene, questa modifica non riguarderebbe “le ipotesi di operazioni soggette a reverse charge”, secondo quanto evidenziato nei lavori preparatori, di modo che l’obbligo di corrispondere l’iva per l’intero ammontare indicato in fattura andrebbe circoscrittò ai soli casi di operazioni inesistenti soggette al regime ordinario. Ma poiché per le operazioni inesistenti il fatto generatore d’imposta è appunto quello previsto dall’art. 21, comma 7, che lo ancora al contenuto della fattura, per quelle soggette a reverse charge l’imposta non sarebbe più dovuta e, se indebitamente fatturata, andrebbe rettificata, con esclusione di qualsiasi danno per l’erario. Inoltre, si rimarca, reputare fuori conto l’iva indicata in fattura in base al principio di cartolarità espresso dall’art. 21, comma 7, si tradurrebbe nell’irrogazione di una sanzione aggiuntiva a quelle già contemplate dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6; il che si porrebbe in contrasto col principio di proporzionalità fissato dal diritto unionale.

5.- La recente giurisprudenza della Corte di giustizia già richiamata (con specifico riguardo alla sentenza pronunciata nella causa C-281/20) sembrerebbe fornire indicazioni idonee a orientare la soluzione del problema, benché quella Corte abbia precisato che la decisione non riguarda la sanzionabilità della condotta e la proporzionalità della sanzione (punto 25). E ciò perché per la prima volta si è ricostruita la fisionomia delle operazioni inesistenti soggette al regime dell’inversione contabile, in base alla quale è possibile qualificare la natura delle violazioni ad esse relative, ai fini dell’identificazione del regime sanzionatorio applicabile.

Al cospetto, difatti, di operazioni soggettivamente inesistenti a cui si applica il regime dell’inversione contabile, e in cui non emerga in alcun modo la buona fede del cessionario, l’applicazione di questa giurisprudenza condurrebbe a denegare il diritto di detrazione; sicché, eliso il diritto di detrazione, rimarrebbe dovuta la sola imposta a debito, derivante dal compimento dell’operazione, che, quindi, non avrebbe affatto effetti neutri, ma, anzi, produrrebbe danno per l’erario.

5.1.- La Corte di giustizia ha in effetti stabilito che la direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006 (direttiva iva), letta in combinazione con il principio di neutralità fiscale, dev’essere interpretata nel senso che a un soggetto passivo va negato l’esercizio del diritto a detrazione dell’imposta sul valore aggiunto relativa all’acquisto di beni che gli sono stati ceduti, qualora tale soggetto passivo abbia consapevolmente indicato un fornitore fittizio sulla fattura che egli stesso ha emesso per tale operazione nell’ambito dell’applicazione del regime dell’inversione contabile, se, tenuto conto delle circostanze di fatto e degli elementi forniti da tale soggetto passivo, mancano i dati necessari per verificare che il vero fornitore aveva la qualità di soggetto passivo o se è sufficientemente dimostrato che tale soggetto passivo ha commesso un’evasione dell’iva o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione s’iscriveva in una simile evasione. Inoltre, ha aggiunto quella Corte, sebbene non sia in contrasto con il diritto dell’Unione esigere che un operatore agisca in buona fede, non è necessario dimostrarne la malafede per negargli il beneficio del diritto a detrazione (punto 58 della sentenza in causa C-281/20, cit.; conf., Corte giust., causa C-108/20, Finanzamt Wilmersdorf, punti 30 e 31).

Anzi: il fatto che il soggetto passivo che ha emesso la fattura vi abbia consapevolmente menzionato un fornitore fittizio “e’ un elemento rilevante tale da indicare che il soggetto passivo in questione era cosciente di partecipare a una cessione di beni che si iscriveva in un’evasione dell’iva” (punto 53 di Corte giust. in causa C-281/20, cit.). D’altronde, sul piano generale, l’esercizio del diritto a detrazione dell’iva va negato se mancano i dati necessari per verificare che il fornitore del soggetto che lo invoca avesse la qualità di soggetto passivo (Corte giust., causa C-154/20, Kernwater Pro Chemie s.r.o., punto 41).

5.2.- Coerentemente, giustappunto in relazione alla compravendita di rottami ferrosi, per consolidato orientamento di questa Corte l’iva non è detraibile, ancorché risulti l’apparente osservanza dei requisiti formali, ove manchi la corrispondenza dell’operazione fatturata con quella in concreto realizzata (Cass. n. 16679/16, cit.; n. 2862/19; n. 3599/20; n. 14853/20; n. 16367/20, cit.; n. 21677/20; n. 9394/21).

Il che a maggior ragione sembra valere nel caso in esame, in cui, come emerge dalla sentenza impugnata, la contribuente non ha emesso fatture, ma si è limitata a compilare ricevute riferite a fornitori soggetti privati, dei quali è condannata l’inesistenza.

La prospettata elisione del diritto di detrazione sembra, quindi, comportare l’esclusione della neutralità degli effetti dell’operazione; di modo che le violazioni ascritte alla contribuente parrebbero avere rilevanza sostanziale (nell’accezione chiarita, tra le ultime, da Cass. n. 28938/20 e da Cass. n. 16450/21).

6.- Neppure pare significativo l’argomento incentrato sulla novella del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7.

Anzitutto, della novella va data lettura che sia compatibile col diritto unionale, e, in particolare, con l’art. 203 della direttiva iva, secondo il quale “L’IVA è dovuta da chiunque indichi tale imposta in una fattura”.

Inoltre, il pagamento dovuto perché indicato in fattura non ha carattere di sanzione (Corte giust., causa C-642/11, Stroy Trans, punto 34; conf., Corte giust., causa C-643/11, LVK-56 EOOD): sicché non solo l’art. 21, comma 7, non pare prestarsi, mancando di natura sanzionatoria, a provocare l’appesantimento sproporzionato dell’apparato sanzionatorio paventato, ma, prima ancora, le modifiche che lo hanno riguardato, avendo natura sostanziale, sembrerebbero applicabili solo per il futuro e per conseguenza non ai fatti di causa, antecedenti all’entrata in vigore della novella.

6.1.- Ad ogni modo, la norma in questione non viene in considerazione nel caso in esame, in cui nessuna fattura è stata emessa, nonostante il compimento di operazioni imponibili, per quanto soggettivamente inesistenti, pacificamente assoggettabili al regime d’inversione contabile domestica. Il compimento di quelle operazioni è pur sempre il presupposto impositivo dell’iva a debito, che non pare neutralizzata, per le ragioni indicate, da quella a credito.

7.- Emergono altresì argomenti tratti dai principi di effettività, proporzionalità e certezza propri del trattamento sanzionatorio, i quali hanno ispirato la L. 11 marzo 2014, n. 23, art. 8, comma 1, contenente la delega al Governo per la revisione “del regime della dichiarazione infedele e del sistema sanzionatorio amministrativo al fine di meglio correlare, nel rispetto del principio di proporzionalità, le sanzioni all’effettiva gravità dei comportamenti”.

Quanto al profilo della certezza, si deve tener conto dello scopo della sanzione, che è quello d’indurre i soggetti passivi a regolarizzare il più rapidamente possibile i casi di pagamento insufficiente dell’imposta e, pertanto, di raggiungere l’obiettivo di assicurarne l’esatta riscossione (Corte giust., causa C-935/19, Grupa Warzywna Sp. z o.o., punto 31); risponde, poi, al canone di effettività una sanzione d’importo elevato, perché volta a evitare che lo Stato membro d’imposizione sia privato della possibilità di controllare efficacemente le condizioni di applicazione dell’imposta (Corte giust., grande sezione, causa C-482/18, Google).

Il legislatore ha poi tenuto conto del principio di proporzionalità commisurando la gravità del trattamento sanzionatorio all’effettivo pregiudizio subito dall’erario e alla pericolosità della condotta tenuta in relazione all’esercizio di un’efficace azione di controllo.

7.1.- La rilevanza dei canoni della pericolosità e della dannosità emerge dalla previsione di sanzioni in misura fissa per le violazioni meno gravi, perché consistenti nella mera inosservanza degli adempimenti prescritti, e sanzioni proporzionali per le fattispecie più gravi, perché concernenti operazioni non documentate o contabilizzate neppure ai fini delle imposte sui redditi e dunque occultate, sino al trattamento più severo nei casi di comportamenti fraudolenti e indirizzati all’evasione fiscale e in quelli in cui l’imposta non si sarebbe potuta detrarre.

8.- Le singole fattispecie contemplate nell’art. 6, commi 9-bis, 9-bis.1, 9-bis.2 e 9-bis.3 sembrano quindi rispondere a criteri di progressività:

a.- il comma 9-bis disciplina la mancata applicazione del reverse charge da parte del cessionario (nell’acquisto di beni) o committente (nell’acquisto di servizi) che agisce nell’esercizio di imprese, arti o professioni, e distingue tra 1) sanzioni in misura fissa (primo periodo), riguardanti i casi di irregolare adempimento delle operazioni di reverse charge; 2) sanzioni in misura proporzionale (secondo periodo), riguardanti i casi di omessa annotazione nei registri contabili ai fini delle imposte sui redditi; 3) sanzioni, anch’esse proporzionali, derivanti dall’indebita detrazione e dichiarazione infedele (terzo periodo), riguardanti i casi in cui l’iva non risulti detraibile e scaturenti dall’applicazione, che resta ferma, dell’art. 5, comma 4, e dal comma 6, con riferimento all’imposta che non avrebbe potuto essere detratta dal cessionario o dal committente; le disposizioni si applicano anche in caso di omessa autofatturazione e omessa regolarizzazione della fattura ricevuta dal cedente;

b.- i commi 9-bis.1 e 9-bis.2 regolano le due speculari fattispecie di “concorde errore” dovuto alle difficoltà di qualificare l’operazione ai fini della sottoposizione alla disciplina corretta, consistenti in errori di scelta del regime applicabile, e concernono, quindi, il caso in cui l’iva sia assolta dal cedente benché l’operazione fosse sottoposta al regime del reverse charge, nonché, viceversa, quello in cui l’iva sia assolta dal cessionario mediante inversione contabile sebbene l’operazione fosse sottoposta al regime ordinario: si tratta, in entrambi i casi, di fattispecie in cui l’acquirente/committente gode del diritto di detrazione.

La sanzione è quindi stabilita in misura fissa: d’altronde, la giurisprudenza unionale (Corte giust., causa C-935/19) ha stabilito che va distinta la situazione in cui l’irregolarità risulti da un errore di valutazione commesso dalle parti quanto alla natura imponibile dell’operazione, non vi siano indizi di frode, né perdite di gettito fiscale per l’erario, da quella in cui non sussistano circostanze particolari di tal genere;

c.- il comma 9-bis.3 esclude la sanzionabilità in caso di applicazione dell’inversione contabile a operazioni esenti, non imponibili o comunque non soggette ad imposta, in considerazione della mancanza, in sé, di danno per l’erario, e dispone l’espunzione sia del debito computato nella liquidazione dell’imposta, sia della corrispondente detrazione. L’insidiosità insita nelle operazioni inesistenti, idonee a ostacolare, con valutazione da condurre ex ante, l’azione di controllo del fisco (si veda, al riguardo, Cass. n. 28938/20, cit.), comporta che in questi casi la sanzione è irrogata, nella misura compresa tra il cinque e il dieci per cento dell’imponibile, con un minimo di 1000,00 Euro.

9.- In questo contesto, particolarmente significativa, e coerente con i canoni d’insidiosità e di dannosità della condotta tenuta, è la rilevanza assegnata all’intento evasivo o comunque fraudolento, che nel caso in esame è accertato dal giudice d’appello. Quest’intento parrebbe fungere da limite all’applicazione della disciplina più favorevole apprestata e comportare, invece, l’applicazione della disciplina generale, e più severa, data dalla combinazione del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 5, comma 4, e art. 6, comma 1, come emerge dal comma 9-bis e finanche dal comma 9-bis.2, relativo ai casi di errore concorde.

9.1.- Al cospetto d’intento evasivo o fraudolento, difatti, nessuna posta detraibile può essere vantata, di modo che non si riuscirebbe a neutralizzare il debito d’imposta e, per conseguenza, non sembrerebbe possibile procedere all’espunzione del debito e della correlativa detrazione che il comma 9-bis.3 prevede.

E al cospetto di tale debito d’imposta, che resta fermo, il danno all’erario pare ineluttabile.

10.- Parrebbe quindi che nel caso in esame sia proprio la disciplina generale e più severa a dover essere applicata.

Anche della sanzione prevista dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 1, (di contenuto corrispondente all’art. 6, comma 9-bis, prima fattispecie, applicato dal giudice d’appello), peraltro, va vagliata la proporzionalità, alla luce del diritto unionale.

Giova quindi evidenziare che è con riguardo a casi in cui, rispettivamente, il venditore aveva comunque integralmente versato l’iva all’erario, nonostante l’omessa applicazione del regime domestico d’inversione contabile (Corte giust. in causa C-547/15, Farkas, cit.), l’emittente della fattura per operazione oggettivamente inesistente aveva comunque integralmente assolto l’iva (Corte giust. 8 maggio 2019, causa C-712/17, Soc. EN. SA), e l’acquirente di un immobile, dopo aver qualificato erroneamente un’operazione esente da iva come operazione soggetta a tale imposta, aveva rettificato la propria dichiarazione fiscale, indicando un’eccedenza detraibile nettamente inferiore, tenendo conto delle irregolarità constatate dall’autorità tributaria (Corte giust., causa C935/19, cit., punto 14), che la Corte di giustizia ha ravvisato la sproporzione della sanzione, affermando la necessità di modularne l’entità, ragguagliata, rispettivamente, al 50% dell’iva dovuta, all’importo della detrazione operata, e al 20% dell’importo della sopravvalutazione dell’importo del rimborso dell’iva indebitamente reclamato, in applicazione del principio di proporzionalità.

Laddove, nel caso in esame, la prospettata elisione del diritto di detrazione non parrebbe escludere la perdita di gettito per l’erario.

10.1.- Si potrebbe comunque prospettare un profilo di frizione con questo principio, già evidenziato da Cass. n. 14767/15, cit. (conf., sul punto, Cass. 23 gennaio 2019, n. 1830 e, sul piano dei principi, Corte Cost. 23 settembre 2021, n. 185), in relazione alla fissità della percentuale minima della forbice di commisurazione della misura. Il legislatore vi ha posto rimedio novellando, col D.Lgs. n. 158 del 2015, il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 7, comma 4, il quale nel nuovo testo stabilisce che, “qualora concorrano circostanze – non più eccezionali – che rendono manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione, questa può essere ridotta fino alla metà del minimo”.

Circostanze che, peraltro, la contribuente non ha allegato.

11.- Il riconoscimento del carattere sostanziale delle violazioni comporterebbe altresì il rigetto del secondo motivo di ricorso, col quale, sul presupposto contrario della natura formale di esse, la società invoca l’applicabilità del cumulo contemplato dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12.

11.1.- Questa Corte ha difatti già stabilito (Cass. n. 28938/20, cit.) che, in tema di sanzioni amministrative tributarie, il cumulo giuridico di cui il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, comma 1, opera anche nelle ipotesi di c.d. “concorso materiale omogeneo”, ossia quando, con più azioni od omissioni, si commettono diverse violazioni della stessa disposizione, purché si tratti di violazioni formali e non sostanziali, perché non incidenti sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo, ma tali da arrecare pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo.

12.- La questione posta dalla Procura generale è dunque, anche in considerazione dell’impatto del diritto sopravvenuto su un rilevante numero di giudizi, da ritenere questione di massima di particolare importanza, in ordine alla quale si è anche Prodotto nella giurisprudenza di questa Corte il contrasto dinanzi indicato.

12.1.- Si dispone quindi la trasmissione del ricorso al Primo Presidente, affinché valuti l’opportunità di devolvere alle sezioni unite la soluzione della questione volta a verificare se, e in quali limiti, alle operazioni inesistenti soggette al regime d’inversione contabile si applichi la normativa sanzionatoria sopravvenuta introdotta dal D.Lgs. n. 15 del 2015, che ha novellato il D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6 introducendo i commi 9-bis, 9-bis.1, 9-bis.2 e 9-bis.3, oppure se in questi casi séguiti ad applicarsi il comma 1 del medesimo articolo, unitamente, ricorrendone i presupposti, all’art. 5, comma 4, dello stesso decreto.

P.Q.M.

dispone la rimessione degli atti al Primo Presidente ai fini dell’eventuale assegnazione alle sezioni unite.

Così deciso in Roma, il 9 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2022

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