Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17013 del 11/08/2016

Cassazione civile sez. II, 11/08/2016, (ud. 23/02/2016, dep. 11/08/2016), n.17013

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 18492/11) proposto da:

T.M., rappresentata e difesa, in forza di procura speciale

in calce al ricorso, dall’Avv.to Agostino Lombardo del foro di

Palermo ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv.to

Dario Martella in Roma, largo Torre Argentina n. 11;

– ricorrente –

contro

L.A. E L.M.C., in qualità di eredi di

T.G., rappresentati e difesi dall’Avv.to Marcello Damiata

del foro di Palermo, in virtù di procura speciale apposta a margine

del controricorso, ed elettivamente domiciliati presso lo studio

dell’Avv.to Mario Livi in Roma, via Timavo n. 3;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo n. 256

depositata il 28 febbraio 2011, nonchè avverso la sentenza della

medesima corte n. 521 del 2006;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 23

febbraio 2016 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

udito l’Avv.to Marcello Diamata, per parte resistente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del

primo motivo di ricorso, l’accoglimento del secondo, assorbito in

parte il terzo, rigettato nel resto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di appello di Palermo, con sentenza n. 521 del 2006, ha giudicato sul gravame proposto da T.M. avverso le impugnate sentenze del Tribunale di Palermo, Sezione distaccata di Partinico, che – dopo avere accertato la proprietà comune della sopraelevazione del seminterrato – dichiarava sciolta la comunione fra le parti ed attribuiva a T.M. la quota costituita dal piano rialzato e terreno pertinenziale, con obbligo di corrispondere alla sorella T.G. il conguaglio di Lire 33.000.000, e a quest’ultima la quota composta dai due magazzini di piano seminterrato. La Corte, previa riunione al giudizio di altro introdotto dalla medesima T.M. e da Lo.Gi., con il quale chiedevano accertarsi l’intervenuto acquisto per usucapione dell’immobile realizzato in sopraelevazione, ha rigettato entrambi i gravami con conferma della sentenza parziale del 15.4.1999, di quella definitiva del 9.11.2001, nonchè di quella emessa il 3.1.2002, rilevando che T.G. nel costituirsi nel giudizio di divisione aveva aderito alla domanda, ma aveva chiesto anche che avvenisse per l’intero asse (ereditario) e non per il solo seminterrato, con ciò rivendicando implicitamente la comproprietà anche del piano rialzato, con la conseguenza che il termine di un ventennio asseritamente decorso a partire dal 1971 era stato interrotto con la comparsa di costituzione di T.G. del 13 marzo 1990.

Avverso questa sentenza T.M. ha proposto ricorso per revocazione, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4. Ella ha lamentato il rigetto della domanda di usucapione per avere avuto la Corte erronea percezione dei fatti di causa, giacchè la sorella G. aveva aderito alla domanda di divisione “con i limiti e le precisazioni prospettate dall’attrice in citazione”.

Il predetto ricorso è stato dichiarato inammissibile dalla Corte d’appello di Palermo, con sentenza n. 256 del 2011, la quale ha ritenuto denunciato un errore di giudizio e non di fatto, riguardando l’attività valutativa ed interpretativa del giudice.

T.M. ricorre per cassazione avverso entrambe le predette sentenze della Corte di Palermo del 2006 e del 2011, formulando, complessivamente, tre motivi, cui si oppone T.G. con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Occorre preliminarmente rilevare che il ricorso avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo n. 521 del 2006 è tempestivo, avendo la ricorrente documentato di avere chiesto e ottenuto dalla medesima Corte, con provvedimento in data 22/28 dicembre 2006, la sospensione del termine per proporre il ricorso per cassazione, a norma dell’art. 398 c.p.c., comma 4, in attesa della definizione del giudizio di revocazione.

Ciò posto, con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione ed erronea applicazione dell’art. 395 c.p.c., n. 4, per avere la corte palermitana ritenuto che il fatto oggetto del denunciato errore revocatorio sia stato materia del dibattito processuale, avendo costituito un ‘punto controversò. Di converso l’attrice, odierna ricorrente, aveva chiesto lo scioglimento della comunione ereditaria, limitatamente al terreno e al seminterrato, beni sui quali non vi era stata opposizione della sorella, con la conseguenza che la pronuncia sarebbe stata ultra petita. Del resto con il primo motivo di appello la ricorrente aveva impugnato la sentenza non definitiva nella parte in cui aveva ritenuto non provato l’accordo fra le parti diretto a costituire un diritto di superficie a suo favore ed il giudice del gravame ha invece ritenuto di fare applicazione automatica del principio dell’accessione, una volta accertata la mancanza di prova di detto accordo. Nè può sostenersi che promosso un giudizio di scioglimento di comunione, l’oggetto della domanda si estenda, automaticamente, a tutti i beni in comunione.

Il mezzo è inammissibile non rientrando il rilievo formulato nel novero dell’errore di fatto revocatorio.

Per costante giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le tante, Cass. 24 novembre 1994 n. 9979; Cass. 15 maggio 2000 n. 6237; Cass. 11 aprile 2001 n. 5369 e Cass. 20 febbraio 2006 n. 3652), costituisce errore di fatto deducibile ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, come motivo di revocazione della sentenza, quello che si verifica in presenza non già di sviste di giudizio, ma della percezione, in contrasto con gli atti e le risultanze di causa, di una falsa realtà documentale, in conseguenza della quale il giudice si sia indotto ad affermare l’esistenza di un fatto o di una dichiarazione che, invece, incontrastabilmente non risulta dai documenti di causa. In altri termini, l’errore di fatto, che legittima l’impugnazione per revocazione ex art. 395 c.p.c., consiste in una falsa percezione della realtà, in un errore, cioè, obiettivamente e immediatamente rilevabile, tale da aver indotto il giudice ad affermare l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti o dai documenti di causa, ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo positivamente accertato in essi (sempre che tale fatto non abbia costituito un punto controverso sul quale sia intervenuta adeguata pronuncia). L’errore deve, pertanto, apparire di assoluta immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità, senza che la sua constatazione necessiti di argomentazioni induttive o di indagini ermeneutiche, e non può consistere, per converso, in un preteso, inesatto apprezzamento delle risultanze processuali (ovvero in una critica del ragionamento del giudice sul piano logico – giuridico), vedendosi, in tal caso, nella ipotesi dell’errore di giudizio, denunciabile con ricorso per cassazione, entro i limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (v., da ultimo, Cass. 3 aprile 2009 n. 8180).

Sulla scorta di tale premessa, si osserva che nella sentenza impugnata (n. 256 del 2011) risulta che, contrariamente a quanto dedotto nel ricorso, la corte territoriale ha espressamente considerato – nel disporre lo scioglimento della comunione – che era rimasto privo di riscontro probatorio l’assunto dell’appellante, odierna ricorrente, di una accordo, peraltro verbale, fra le condividenti secondo cui ognuna di loro era proprietaria esclusiva del bene realizzato in sopraelevazione. Infatti, nel caso di specie, dallo svolgimento dei fatti come precedentemente rappresentato, non poteva dirsi emergere alcuna falsa percezione della realtà, nè che il giudice di merito di secondo grado, allorquando ha emesso la sentenza n. 256 del 2006, fosse incorso in una svista oggettivamente e chiaramente rilevabile dagli atti, poichè, in ragione della linea difensiva adottata dalla stessa ricorrente che ha eccepito la proprietà esclusiva dell’immobile sopraelevato – senza dimostrare la circostanza dell’originaria costituzione dello stesso diritto di proprietà, nè quella in base al quale il fabbricato dalla medesima posseduto costituisse frutto di un accordo scaturiti in vista della divisione – l’impugnata sentenza si è fondata, ai fini della determinazione dei beni oggetto della comunione ereditaria, sulla rilevata infondatezza della specifica eccezione sollevata e sull’acquisita non dimostrazione dei fatti appena richiamati, i quali apparivano logicamente e giuridicamente presupposti dalle rispettive posizioni difensive adottate dalle parti in giudizio.

Così decidendo la Corte di appello di Palermo si è conformata alla specifica statuizione di questa Corte (cfr. Cass. 21 gennaio 1993 n. 705) intervenuta su questione simile, alla stregua della quale la pronunzia del giudice, che si assuma erronea, sull’esistenza di uno o più fatti ritenuti pacifici per difetto di contestazione, costituisce frutto non di un errore meramente percettivo, ma di un’attività valutativa, nel senso che il giudice stesso, postasi (come nella specie) la questione della contestazione in ordine alla esistenza di uno o più fatti determinati, l’ha risolta affermativamente all’esito di un giudizio di per sè incompatibile con l’errore di fatto e non idoneo, quindi, a costituire motivo di revocazione a norma dell’ad. 395 c.p.c., n. 4.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 934 c.c. per essere l’affermazione della corte di appello contraria alla giurisprudenza di legittimità più recente, secondo cui in materia di comunione, la comproprietà della nuova opera sorge a favore dei condomini costruttori solo se essa sia stata realizzata nel rispetto delle norme sui limiti del comproprietario all’uso delle cose comuni. A corollario del mezzo viene formulato il seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se, in caso di comproprietà da parte di due soggetti della quota ideale del 50% ciascuno di un lastrico solare, la costruzione eseguita su tale lastrico da parte di uno solo dei due comunisti s’intende appartenere al comunista che lo ha costruito, in deroga al principio dell’accessione di cui all’art. 934 c.c., che si riferisce solo alla costruzione su terreno altrui”.

La doglianza è infondata.

Pur vero in linea di principio che sulla proprietà comune opera il principio di cui all’art. 938 c.c., e non già quello dell’accessione, tuttavia la sentenza impugnata va confermata sia pure con correzione della relativa motivazione.

Occorre premettere che, come è principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte, la disciplina dell’accessione, contenuta nell’art. 934 c.c., si riferisce solo alle costruzioni su terreno altrui, essa, pertanto, non trova applicazione nelle ipotesi di costruzioni eseguite da uno dei comproprietari su suolo comune, cui si applica, invece, la normativa in materia di comunione, con la conseguenza che la comproprietà della nuova opera sorge a favore dei condomini non costruttori solo se essa sia stata realizzata in conformità di detta disciplina, cioè con il rispetto delle norme sui limiti all’uso da parte del comproprietario delle cose comuni.

Ciò posto è evidente che la tesi della ricorrente – secondo cui aveva acquisito la proprietà del fabbricato in questione in applicazione di accordo con la sorella germana – si pone in netto ed insanabile contrasto con il detto pacifico orientamento giurisprudenziale, per non avere la stessa offerto valida prova di avere costruito l’immobile in via autonoma ed esclusiva, nè che vi fosse un accordo con la sorella nel senso di riconoscere a lei la proprietà esclusiva. Ne consegue quindi che nella specie, al contrario di quanto sostenuto dalla ricorrente, la proprietà di detto bene va fatta rientrare nell’asse ereditario.

Così corretta la motivazione della impugnata sentenza, la stessa si sottrae alle proposte censure essendo il decisum conforme al diritto, posto che correttamente la corte di appello ha affermato la comproprietà dell’immobile, avendo fatto ineccepibilmente applicazione del regime della comunione.

Con il terzo ed ultimo motivo la ricorrente lamenta la violazione ed erronea applicazione dell’art. 112 c.p.c., nonchè travisamento del fatto, per avere la corte territoriale rigettato la domanda di usucapione sulla scorta di una supposta domanda di rivendicazione dell’appartamento al piano rialzato, mai formulata da T.G.. A conclusione del mezzo viene posto il seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione, se costituisce violazione dell’art. 112 c.p.c., ossia della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, il ritenere proposta, da parte del giudice, una domanda od eccezione non rilevabile d’ufficio che, in effetti, la parte non aveva ritualmente dedotto con specifica manifestazione di volontà e, quindi, con inammissibile ampliamento del petitum”.

Il motivo è fondato.

La Corte territoriale ha attribuito rilievo decisivo alla richiesta avanzata da T.G. di estensione della divisione anche all’immobile sopraelevato nel giudizio introduttivo dello scioglimento della comunione, ritenendolo atto giudiziale che ha comportato per il possessore la perdita del corpus. Tale convincimento non può essere condiviso.

Costituisce orientamento consolidato di questa corte il principio secondo cui in tema di possesso ad usucapione, con il rinvio fatto dall’art. 1165 c.c., all’art. 2943 c.c., la legge elenca tassativamente gli atti interruttivi, cosicchè non è consentito attribuire detta efficacia ad atti diversi da quelli stabiliti dalla norma da ultimo citata, per quanto con essi si sia inteso manifestare la volontà di conservare il diritto, giacchè la tipicità dei modi di interruzione della prescrizione non ammette equipollenti (v. Cass. 12 settembre 2000 n. 12024; Cass. 21 maggio 2001 n. 6910; Cass. 1 aprile 2003 n. 4892; Cass. 11 giugno 2009 n. 13625). In altri termini, per essere efficaci debbono essere rivolti direttamente nei confronti del possessore medesimo, in guisa da intervenire su detta situazione impedendola o contestandola; onde per conseguire tale risultato il proprietario, uscendo dallo stato d’inerzia, deve o privare il possessore della disponibilità materiale del bene, determinando un’interruzione naturale del possesso, ovvero compiere un atto d’esercizio del diritto proponendo nei confronti del possessore stesso ed esclusivamente di esso una domanda giudiziale intesa a recuperarlo (cfr., anche in motivazione, Cass. 11 luglio 2011 n. 15199; Cass. 19 giugno 2003 n. 9845; Cass. 23 novembre 2001 n. 14917; Cass. 14 novembre 2000 n. 14733; Cass. 15 maggio 1998 n. 4906; Cass. 25 marzo 1997 n. 2590; Cass. 21 giugno 1995 n. 7028; Cass. 13 gennaio 1995 n. 379; Cass. 13 dicembre 1994 n. 10652; Cass. 29 aprile 1994 n. 4156; Cass. 15 maggio 1992 n. 5801; Cass. 4 agosto 1988 n. 4837; Cass. 19 aprile 1983 n. 2707; Cass. 25 ottobre 1976 n. 3859).

La giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente sottolineato come la riserva contenuta nell’art. 1165 c.c., circa l’operatività, in tema di usucapione, delle disposizioni generali sulla prescrizione e di quelle relative alle cause di sospensione e d’interruzione – riserva determinata dall’esigenza di valutarne la compatibilità con le peculiari caratteristiche dell’istituto dell’usucapione, ravvisabili nella relazione di fatto tra il possessore ed il bene – comporti un’oggettiva limitazione dell’ambito d’incidenza di queste alle sole ipotesi degli atti giudiziali di cognizione o di conservazione od esecuzione diretti al recupero del bene stesso, con la conseguente esclusione della rilevanza e dell’efficacia di atti interruttivi quali la diffida o la stessa messa in mora – tra l’altro non configurabili per la mancanza di un soggetto qualificabile come debitore, tale non potendo essere considerato il possessore nei cui confronti il proprietario intenda svolgere attività recuperatoria – dacchè il possesso ben può continuare ad essere esercitato anche in aperto e dichiarato contrasto con la volontà contraria del titolare del diritto reale il quale, perchè detta sua volontà si realizzi, non può che agire negli specifici modi sopra indicati (Cass. 27 maggio 2010 n. 13002; Cass. 23 giugno 2006 n. 14654; Cass. 10 settembre 2004 n. 18207; Cass. 9 luglio 2004 n. 18004; Cass. 24 luglio 2000 n. 11089; Cass. 25 marzo 1997 n. 2590; Cass. 15 dicembre 1992 n. 13211; Cass. 4 maggio 1990 n. 3716; Cass. 11 settembre 1988 n. 9025; Cass. 13 febbraio 1980 n. 1016; Cass. 12 novembre 1979 n. 5835; Cass. 9 maggio 1974 n. 1315).

Se, dunque, è pacifico doversi ritenere che la messa in mora e la diffida – le quali, quanto meno, contengono una contestazione della legittimità del possesso del soggetto cui sono rivolte ed una richiesta di restituzione e sono intimate direttamente nei confronti di tale soggetto in quanto possessore – siano inidonee ad interrompere il decorso del tempo utile alla prescrizione acquisitiva, a maggior ragione sembra doversi ritenere che siano inidonei al medesimo fine gli atti con i quali venga introdotto un procedimento inteso non alla contestazione diretta ed immediata del possesso da parte della controparte, bensì solo alla mera definizione dei rapporti successori, finalizzato alla divisione del patrimonio ereditario; invero, tali atti ed il consequenziale procedimento non vengono ad incidere sulla continuità nella materiale disponibilità del bene da parte di T.M. con le modalità stabilite espressamente dalle norme sopra richiamate, id est mediante manifestazioni idonee a dimostrare il venire meno dell’inerzia della comproprietaria stessa, in riferimento non alla titolarità del diritto ma alla possibilità della sua materiale estrinsecazione sul bene, con la proposizione di azioni recuperatorie del possesso nei confronti del possessore o con il compimento di attività che, incidendo direttamente sulla situazione possessoria altrui, risultino tali da rendere equivoca o non pacifica la situazione medesima (in termini, v. Cass. 21 marzo 2014 n. 6785).

E’ da questa violazione di legge che discende infatti complessivamente la ricostruzione del fatto decisivo in causa.

In definiva, accolto il terzo motivo di ricorso, rigettati i primi due, la sentenza impugnata n. 521 del 2006 deve essere cassata in relazione al motivo accolto.

La causa deve essere rinviata, anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio, ad altra sezione della Corte di appello di Palermo, a cui va prescritto di riconsiderare il valore delle risultanze documentali e delle prove orali offerte quanto alla domanda di usucapione, alla luce del denegata efficacia di atto interruttivo dell’usucapione della dichiarazione resa dalla convenuta nell’atto di costituzione e risposta quanto all’immobile in sopraelevazione, sulla quale dovrà pronunciarsi prestando ossequio ai principi ricordati.

PQM

La Corte, rigetta i primi due motivi di ricorso, accoglie il terzo;

cassa la sentenza impugnata n. 521 del 2006 in relazione al motivo accolto e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Palermo, che provvederà anche sulla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 23 febbraio 2016, riconvocata il 13 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 11 agosto 2016

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