Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1698 del 24/01/2018


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Cassazione civile, sez. trib., 24/01/2018, (ud. 21/11/2017, dep.24/01/2018),  n. 1698

Fatto

FATTI RILEVANTI E RAGIONI DELLA DECISIONE

p. 1. L’avv. T.F., in proprio, propone quattro motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n. 214/3/11 del 26 maggio 2011 con la quale la commissione tributaria regionale della Campania, a conferma della prima decisione, ha ritenuto legittimo l’avviso di accertamento e liquidazione notificatogli dall’agenzia delle entrate – ufficio di Pozzuoli – per imposta di registro, ipotecaria e catastale sulla scrittura privata 26 dicembre 1990, registrata il 16 aprile 2004; scrittura privata con la quale egli aveva acquistato da D.N.F. una porzione di particella catastale di terreno in (OMISSIS), già oggetto di legato nella successione ereditaria di P.L..

La commissione tributaria regionale, in particolare, ha rilevato che: – trattandosi nella specie di imposta di registro, ipotecaria e catastale, e non di Invim, inconferenti erano i motivi di opposizione basati sulla non imponibilità (ovvero sulla minor imponibilità) del terreno ai fini di quest’ultima imposta; – il maggior valore accertato dall’ufficio (85 milioni di Lire) rispetto a quello dichiarato in atto (23 milioni di Lire) non trovava smentita nell’accertamento di valore già disposto, sui beni caduti in successione, ai fini del condono ex L. n. 413 del 1991, dal momento che successione e compravendita costituivano titoli traslativi diversi ed intercorsi a distanza di tempo; parimenti, non poteva attribuirsi rilevanza al valore attribuito all’area dal decreto espropriativo prefettizio del 16 dicembre 1972, vista la sua risalenza rispetto al trasferimento dedotto in giudizio.

Resiste con controricorso l’agenzia delle entrate.

Il ricorrente ha depositato memoria con la quale ha, tra l’altro, eccepito la carenza di potere rappresentativo e difensivo dell’agenzia delle entrate da parte dell’avvocatura dello Stato, in quanto priva di procura alle liti.

Si premette l’infondatezza di quest’ultima eccezione, richiamandosi quanto sul punto stabilito da Cass. n. 22434/16, n. 14785/11 ed altre.

p. 2.1 Con il primo motivo di ricorso si lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – vizio di motivazione sotto il profilo della mancata indicazione, da parte del giudice di appello, delle ragioni per cui poteva, nella specie, ritenersi congrua una rettifica di valore così eclatante; nonostante il modesto lasso temporale intercorso tra l’apertura della successione nell’ottobre 1989 (al cui valore la scrittura privata dedotta in giudizio si uniformava), e la compravendita in oggetto (dicembre 1990).

p. 2.2 Il motivo è per più versi inammissibile.

In primo luogo esso non coglie la ratio decidendi insita nel fatto che il giudice di appello, nella concretezza della fattispecie, ha ritenuto preclusa per difetto di prova la possibilità di equiparare il valore del terreno ai fini dell’imposta di registro in esame a quello già stabilito ai fini Invim ed in sede di dichiarazione di successione. Ciò perchè (indipendentemente dal fatto che si trattasse di imposte diverse, applicate in momenti diversi) l’appello risultava del tutto generico in ordine alle valutazioni di riferimento, in quanto “la più volte richiamata sentenza della commissione tributaria provinciale di Napoli n. 18/17/2006 (…) non risulta se e quando sia passata in giudicato”; e che “il valore definito in tale sede con sentenza n. 372/12/2001 della commissione tributaria provinciale di Napoli, come si evince dalla relativa liquidazione allegata all’appello, non è stato documentato per poter confrontare con esso quello dichiarato con l’atto in oggetto (…)”. Dunque, al di là del principio – effettivamente affermato: Cass.19321/06; 1202/11 – di tendenziale unitarietà dei valori accertati con riguardo ad imposte diverse gravanti sul medesimo bene, sempre che i fatti economici siano i medesimi e le singole leggi d’imposta non stabiliscano differenti criteri di valutazione, è qui dirimente osservare come nel ragionamento della commissione tributaria regionale sia individuabile una diversa e logicamente prioritaria ragione decisoria, non specificamente censurata; appunto insita nel fatto che il valore assunto a riferimento ai fini Invim ed imposta di successione non era stato comunque provato in giudizio dal contribuente (che quella unitarietà di accertamento aveva invocato).

In secondo luogo, il motivo in esame è inammissibile anche là dove non si basa sull’affermata violazione, da parte del giudice di merito, di un parametro legale di stima del valore venale del terreno (D.P.R. n. 131 del 1986, artt. 51 – 52), ma esclusivamente su un vizio di natura motivazionale, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. A ben vedere, tuttavia, attraverso questa doglianza il ricorrente mira ad ottenere una riconsiderazione degli elementi fattuali ed estimativi della vicenda; il che è certamente inammissibile nella presente sede di legittimità. Ciò in presenza di una motivazione del tutto congrua, perchè volta ad evidenziare – da un lato – come i valori Invim e di successione non fossero utilizzabili a raffronto, in quanto non dimostrati e – dall’altro – come nemmeno fosse utilizzabile il parametro di cui al decreto prefettizio del 1972, perchè risalente di quasi vent’anni rispetto all’atto di trasferimento in giudizio (affermazione, quest’ultima, logicamente ineccepibile).

p. 3. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 102 c.p.c.. Per non avere la commissione tributaria regionale considerato la necessaria partecipazione al giudizio altresì della parte cedente D.N.F. (intervenuta soltanto in appello); avendo anche quest’ultima interesse alla uniforme regolamentazione della sua posizione giuridica tributaria.

Il motivo è infondato, dal momento che l’obbligazione per il pagamento dell’imposta di registro grava sulle parti contraenti con vincolo di solidarietà come stabilito dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 57, comma 1. Senonchè, sul piano processuale, il rapporto di solidarietà passiva si risolve in un litisconsorzio meramente facoltativo; con la conseguenza che il giudizio doveva ritenersi validamente instaurato (per scelta dello stesso T.) mediante evocazione in giudizio del solo ufficio impositore. Nè il T. – unico ricorrente per cassazione – potrebbe oggi far valere un interesse (quello alla unitaria definizione del rapporto tributario) asseritamente proprio di una parte (la cedente D.N., definita dal giudice di appello come non costituita in giudizio) diversa, da lui non rappresentata, ed acquiescente.

p. 4. Con il terzo motivo di ricorso si deduce violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 10 e 11. Per avere la commissione tributaria regionale omesso di considerare la mancata partecipazione al giudizio, nel grado di appello, degli organi di vertice dell’agenzia fiscale, risultando l’agenzia delle entrate costituita in giudizio unicamente per mezzo di propri funzionari non autorizzati.

Il motivo è infondato, dovendosi qui fare applicazione del principio generale più volte affermato (da ultimo, Cass. 14742/17) secondo cui: “il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 10 e 11, comma 2, riconoscono la qualità di parte processuale e conferiscono la capacità di stare in giudizio all’ufficio locale dell’agenzia delle entrate nei cui confronti è proposto il ricorso, organicamente rappresentato dal direttore o da altra persona preposta al reparto competente, da intendersi con ciò stesso delegata in via generale, sicchè è validamente apposta la sottoscrizione dell’appello dell’ufficio finanziario da parte del preposto al reparto competente, anche ove non sia esibita in giudizio una corrispondente specifica delega, salvo che non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque, l’usurpazione del potere d’impugnare la sentenza (cfr. Cass. n. 6691 del 21.3.2014; n. 20628 del 14.10.2015; 15470 del 26.7.2016)”.

p. 5. Con il quarto motivo di ricorso si deduce violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32. Per avere la commissione tributaria regionale erroneamente dichiarato inammissibili le memorie difensive depositate dalle parti per l’udienza del 29 settembre 2010, in realtà depositate (17 settembre 2010) nel rispetto di 10 giorni liberi prima di tale udienza.

Nemmeno questa doglianza può trovare accoglimento.

Essa risulta innanzitutto inammissibile nella parte in cui viene proposta dal T. nell’apparente interesse di una parte (la D.N.) diversa e – come già osservato – da lui non rappresentata.

In ogni caso, essa non si fa carico di individuare in che cosa sarebbe consistito il concreto pregiudizio derivante dalla pretermissione della memoria difensiva in oggetto; nè, di conseguenza, di specificare quale effetto decisorio deviato sia da tale pretermissione scaturito.

Va richiamato, anche in proposito, il più volte affermato indirizzo di legittimità (tra le altre, Cass. 26831/14) basato sulla natura servente e strumentale delle norme processuali rispetto al fine sostanziale ultimo costituito dall’individuazione ed affermazione del diritto dedotto in giudizio, sicchè: “la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione. Ne consegue che è inammissibile l’impugnazione con la quale si lamenti un mero vizio del processo, senza prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione di merito”.

PQM

LA CORTE

– rigetta il ricorso;

– condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 1.700,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione quinta civile, il 21 novembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2018

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