Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16968 del 12/08/2020

Cassazione civile sez. I, 12/08/2020, (ud. 01/07/2020, dep. 12/08/2020), n.16968

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 36729/2018 R.G. proposto da:

K.B. (alias K.A.), rappresentato e

difeso dall’Avv. Loredana Liso, con domicilio in Roma, piazza

Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO – COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL

RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI BARI;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di Bari depositato il 20 novembre

2018.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 1 luglio 2020

dal Consigliere Guido Mercolino.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto del 20 novembre 2018, il Tribunale di Bari ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta da K.B. (o K.A.), cittadino del Mali, revocando l’ammissione del ricorrente al patrocinio a spese dello Stato.

A fondamento della decisione, il Tribunale ha innanzitutto escluso la necessità dell’audizione personale del ricorrente, dando atto della produzione in giudizio del verbale del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, recante dichiarazioni sufficientemente ampie ed adeguatamente illustrative dei motivi dell’istanza. Rilevato inoltre che il ricorrente, di religione islamica, aveva riferito di essere espatriato per paura di essere ucciso dagli abitanti del suo villaggio, aderenti ad un rito diverso da quello professato dalla sua famiglia, ha ritenuto che da tali dichiarazioni non emergessero atti di persecuzione riconducibili al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 7, nè circostanze idonee a giustificare il timore di un danno grave, nel senso previsto dall’art. 14, lett. a) e b) del medesimo decreto, evidenziando le incongruenze del predetto racconto, non circostanziato e privo di riscontri esteriori, ed osservando che l’istante aveva riferito di non avere richiesto protezione all’autorità di polizia dello Stato di provenienza. Pur dando atto dell’esistenza di una situazione allarmante nel Mali, a causa della diffusione del terrorismo di matrice islamica, ha rilevato che la regione di provenienza del ricorrente risultava relativamente sicura, essendosi registrati solo pochi episodi di violenza, non riconducibili alla fattispecie di cui alla lett. c) dell’art. 14 cit. Ha ritenuto infine insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, rilevando che il ricorrente non aveva fatto valere una lesione di diritti fondamentali o una specifica situazione di vulnerabilità personale, essendosi limitato ad allegare la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato, insufficienti ai fini del raggiungimento dell’integrazione socio-economica, e non avendo fornito elementi di valutazione in ordine alla situazione oggettiva e soggettiva in cui si trovava nel Paese di origine.

2. Avverso il predetto decreto il K. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi. Il Ministero dell’interno non ha svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), nonchè l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando il decreto impugnato per aver escluso che la vicenda personale da lui allegata fosse riconducibile alla predetta disposizione ed all’art. 7 del D.Lgs. n. 251 cit., senza tener conto della persecuzione personale e diretta da lui subita per motivi religiosi, della situazione di emergenza esistente in Mali e dell’incapacità delle autorità statali di fornire adeguata protezione contro gli atti di persecuzione posti in essere da soggetti privati. Aggiunge che il Tribunale ha omesso di adempiere il proprio dovere di cooperazione, non avendo valutato se egli avesse compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda ed avesse prodotto tutti gli elementi pertinenti in suo possesso, e non avendo esercitato i propri poteri ufficiosi per l’accertamento dei fatti rilevanti.

1.1. Il motivo è infondato.

Benvero, non può condividersi il decreto impugnato, nella parte in cui ha escluso la possibilità di ravvisare nella vicenda personale allegata a sostegno della domanda atti di persecuzione riconducibili all’art. 7 o quanto meno al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), avendo il ricorrente riferito di essere stato costretto ad allontanarsi dal suo Paese di origine a causa delle pressioni e delle violenze, giunte al punto da provocare la morte del fratello, cui gli abitanti del suo villaggio avevano sottoposto lui e la sua famiglia, per indurli ad aderire ad un diverso rito della religione islamica: l’art. 7, comma 2, lett. a), del D.Lgs. n. 251 cit. qualifica come atti di persecuzione le violenze fisiche o psichiche, le quali possono giustificare il riconoscimento dello status di rifugiato, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. b), del medesimo decreto, ove siano riconducibili a motivi religiosi, tra i quali sono previsti quelli riferibili ad atti religiosi, mentre l’art. 14, lett. b) annovera tra le ipotesi di danno grave idonee a legittimare l’applicazione della protezione sussidiaria la sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti, categoria questa assai ampia, nella quale possono comprendersi anche le vessazioni dovute a motivi religiosi, quali comportamenti volti ad infliggere sofferenze fisiche o psicologiche alla vittima o comunque lesivi della dignità umana della stessa. Ai sensi dell’art. 5 del D.Lgs. n. 251, non è poi necessario che tali atti siano posti in essere dallo Stato o da partiti o organizzazioni che lo controllano in tutto o in parte, potendo trattarsi anche di atti ascrivibili a soggetti privati, ove le autorità statuali non possano o non vogliano fornire protezione: non può quindi ritenersi sufficiente, ai fini della esclusione della configurabilità delle predette fattispecie, l’astratta considerazione contenuta nel decreto impugnato, secondo cui la Costituzione del Mali assicura la libertà di religione e proibisce qualsiasi forma di discriminazione religiosa o di intolleranza da parte del Governo o di singole persone, dovendosi verificare in concreto, anche sulla base d’informazioni fornite da fonti internazionali aggiornate ed accreditate, l’operatività di tali garanzie, ed in particolare la volontà e la capacità dello Stato d’imporne il rispetto ai propri organi ed a tutti i cittadini.

Nel rigettare le domande di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, il Tribunale non si è tuttavia limitato ad escludere la configurabilità di atti persecutori o di trattamenti inumani o degradanti, ma ha proceduto anche all’esame delle dichiarazioni rese dal ricorrente, escludendone la credibilità, in virtù delle incongruenze della narrazione e dell’impossibilità di acquisire, sulla base della stessa, elementi di riscontro, anche mediante l’esercizio di poteri istruttori ufficiosi. Tale apprezzamento, sindacabile in sede di legittimità esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, per omesso esame di un fatto decisivo che abbia costituito oggetto del dibattito processuale, ovvero ai sensi dell’art. 132, comma 2, c.p.c., per difetto assoluto, mera apparenza, perplessità o incomprensibilità della motivazione (cfr. Cass., Sez. I, 7/08/2019, n. 21142; 5/02/2019, n. 3340), non risulta validamente censurato, essendosi il ricorrente limitato a lamentare l’inosservanza dei criteri di valutazione previsti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, senza neppure precisare il modo in cui il Tribunale se ne sarebbe discostato, nonchè l’omesso esercizio dei poteri istruttori riconosciuti al giudice in subiecta materia, senza considerare che l’intrinseca inattendibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente, alla stregua degl’indicatori di genuinità soggettiva previsti dall’art. 3, comma 5, cit., preclude il compimento di approfondimenti istruttori officiosi, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (cfr. Cass., Sez. VI, 19/12/ 2019, n. 338858; 12/11/2018, n. 28862; 27/06/2018, n. 16925).

2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, dell’art. 10 Cost., del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 7, 14 e 17, degli artt. 8 e D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 32, comma 3, e del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, nonchè l’apparenza della motivazione, censurando il decreto impugnato per non aver valutato compiutamente la documentazione prodotta e per aver omesso di acquisire informazioni aggiornate in ordine alla situazione esistente nel Mali, ai fini della prova del rischio di persecuzione per motivi religiosi. Aggiunge che il diniego della protezione umanitaria è stato automaticamente ricollegato a quello delle altre forme di protezione, avendo il Tribunale omesso di verificare la sussistenza dei presupposti specifici della predetta misura, ed essendosi limitato ad evidenziare l’avvenuta stipulazione di contratti a tempo determinato, senza tener conto della difficoltà di ottenere un contratto a tempo indeterminato e della sua volontà di integrarsi, anche attraverso lo svolgimento di piccoli lavori. Lamenta infine l’ingiustificata revoca del beneficio dell’ammissione al patrocinio a stese dello Stato, nonostante la fondatezza della domanda.

2.1. Il motivo è infondato.

Rinviando a quanto si è detto in precedenza con riferimento all’omessa acquisizione d’informazioni in ordine al rispetto della libertà di religione nel Mali, si osserva, relativamente alla protezione umanitaria, che il decreto impugnato non ne ha affatto ricollegato il diniego al mero rigetto delle domande di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, ma si è correttamente attenuto al principio, più volte ribadito da questa Corte, secondo cui l’applicazione di tale misura, avente carattere atipico e residuale, richiede una valutazione comparativa da condursi caso per caso, attraverso il raffronto tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e la situazione soggettiva ed oggettiva in cui si trovava nel Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale (cfr. Cass., Sez. Un. 13/11/2019, n. 29459; Cass., Sez. I, 30/03/2020, n. 7599; 23/02/2018, n. 4455). Il Tribunale ha infatti attribuito opportunamente rilievo a circostanze oggettive, anzichè alle mere aspirazioni del richiedente, evidenziando l’assenza di elementi sufficienti a comprovare da un lato il raggiungimento di una stabile integrazione sociale e lavorativa del ricorrente in Italia e dall’altro la precarietà del regime di vita da lui condotto in patria, e pervenendo in tal modo all’esclusione della configurabilità della situazione di vulnerabilità richiesta per l’applicazione della misura di protezione.

Non possono infine trovare ingresso, in questa sede, le censure riguardanti la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, trattandosi di una statuizione che, anche se adottata con il provvedimento che ha definito il giudizio di merito, anzichè con separato decreto, come prescritto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 136, non comporta mutamenti nel regime impugnatorio, che resta quello, ordinario e generale, dell’opposizione prevista dall’art. 170 del medesimo decreto (cfr. Cass., Sez. I, 11/12/2018, n. 32028; Cass., Sez. III, 8/02/2018, n. 3028; Cass., Sez. II, 6/12/ 2017, n. 29228).

3. Il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione dell’intimato.

Essendo stato il ricorrente ammesso al patrocinio a spese dello Stato, con conseguente prenotazione a debito delle spese processuali, non ricorrono, allo stato, i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (cfr. Cass., Sez. VI, 22/ 03/2017, n. 7368; 2/09/2014, n. 18523).

PQM

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto dell’insussistenza, allo stato, dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1-bis dello stesso art. 13, sempre che l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato non risulti revocata dal giudice competente.

Così deciso in Roma, il 1 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 agosto 2020

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