Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16936 del 15/06/2021

Cassazione civile sez. VI, 15/06/2021, (ud. 13/04/2021, dep. 15/06/2021), n.16936

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Presidente –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3800-2019 proposto da:

AZIENDA OSPEDALIERA “COMPLESSO OSPEDALIERO S. GIOVANNI – ADDOLORATA”,

in persona del Direttore Generale pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA GUIDO D’AREZZO 32, presso lo studio

dell’avvocato MATTEO MUNGARI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

Contro

I.G., quale unico erede del Sig. I.S.,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FABIO MASSIMO, 60, presso lo

studio dell’avvocato LETIZIA CAROLI, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato ENRICO MARIA CAROLI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4236/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 20/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio non

partecipata del 13/04/2021 dal Consigliere Relatore Dott. CRICENTI

GIUSEPPE.

 

Fatto

RITENUTO

che:

1.- I.S., il 3.9.2004, alle ore 14.30 viene ricoverato d’urgenza presso l’Ospedale San Giovanni, in stato comatoso, per un sospetto ematoma subdurale. Pur constatata la gravità delle sue condizioni, e pur essendo il paziente trasferito in sala operatoria, pronto per l’operazione, l’intervento chirurgico viene ritardato per via della sopravvenienza di un caso ritenuto più grave ed urgente.

I familiari, però, ritenendo ingiustificato questo differimento e per impedire l’aggravarsi della situazione, trasferiscono il congiunto in una clinica privata, la Mater Dei, dove l’intervento viene eseguito con successo, ma costa loro 18496,00 Euro.

2.- I.S. chiede dunque il rimborso di tale somma alla Regione Lazio, che però ritiene ingiustificata la richiesta, costringendo il paziente a far ricorso al Tribunale, che, a sua volta, rigetta la domanda sul presupposto che non v’era stato alcun inadempimento. La decisione viene riformata dalla Corte di Appello la quale ritiene che la prestazione era urgente e che averla differita ha costituito inadempimento, con conseguente danno consistito nella necessità della spesa successiva effettuata presso l’istituto di cura privato.

3.-Ricorre avverso tale decisione l’Azienda Ospedaliera con tre motivi. Si è costituito ed ha notificato controricorso, I.G., erede di S., nel frattempo deceduto. L’Azienda ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

4.- Il primo motivo denuncia violazione degli artt. 1218,1175 e 1375 c.c.

La ricorrente parte dal presupposto che il rapporto intercorso con il paziente è consistito in un contratto che la prassi ormai denomina di “spedalità”, ossia un contratto in cui, accanto alla prestazione principale, la cura del paziente, la struttura è tenuta ad obbligazioni secondarie, come la messa a disposizione di strumenti, di personale, ed altro.

Ciò premesso ritiene che, trattandosi di una responsabilità contrattuale quella a lei imputata, avrebbe dovuto essere dimostrato il suo inadempimento, che invece è stato erroneamente ritenuto dalla corte di merito, la quale non ha considerato che l’intervento non era urgentissimo e che il suo differimento era dunque lecito in ragione del sopraggiungere di casi più gravi.

Semmai, ritiene la ricorrente, è la condotta del paziente (rectius dei suoi familiari) ad essere stata in violazione del dovere di buona fede e correttezza, che impone alla controparte di cooperare nell’adempimento, e che è stato violato proprio dalla decisione di portare via il malato e cosi impedire la prestazione di cura.

5.- Con il secondo motivo si denuncia violazione degli artt. 1207,1256,1463 c.c.

Secondo la ricorrente la condotta del paziente, meglio, la decisione assunta per lui dai congiunti, di spostarsi in altra struttura, ha determinato l’impossibilità della prestazione, che ancora era utilmente effettuabile, e così, pur non determinando la risoluzione del contratto, ha però fatto salvo il diritto alla controprestazione, ossia il diritto dell’Azienda al pagamento del corrispettivo.

La Corte di merito non avrebbe apprezzato adeguatamente la condotta del paziente sotto questo profilo: di avere reso lui impossibile la prestazione di cura, disattendendo dunque il significato delle citate norme, che è esteso fino ad ammettere la configurabilità della impossibilità sopravvenuta per fatto colpevole del contraente.

6.- Con il terzo motivo si denuncia violazione dell’art. 2697 c.c. Secondo l’Azienda Ospedaliera era onere del ricorrente provare la fonte contrattuale dell’obbligazione e l’inadempimento, in primo luogo, e solo dopo che fosse stata fornita tale prova, sarebbe stato onere dell’Azienda liberarsene dimostrando la non imputabilità; regola questa disattesa dalla Corte nel momento in cui ha ritenuto che, provato l’inadempimento, non era stata fornita prova alcuna della estraneità di esso alla sfera del debitore della prestazione.

Tutti e tre i motivi possono valutarsi insieme e sono infondati.

Innanzitutto, è la stessa Azienda a ritenere che il rapporto con il paziente è, nel caso di specie, di natura contrattuale, ed anzi, nell’esporre il primo motivo, proprio l’Azienda richiama la copiosa giurisprudenza a sostegno di tale qualificazione; il che significa che l’onere della prova della natura della responsabilità, o meglio della fonte di tale responsabilità è stato assolto dal paziente; o perlomeno che era pacifico che la fonte del rapporto stava in un contratto e che dunque la responsabilità attribuita alla Azienda era di tipo contrattuale, con conseguente riflesso sull’onere della prova.

Senza tacere del fatto che la corte di merito non ha affatto disatteso il significato dell’art. 2697 c.c., in quanto, data per ammessa la natura contrattuale del rapporto, ed accertato l’inadempimento, che la corte ha ritenuto provato dal paziente – in quanto ha ritenuto che l’intervento era urgente, se non per salvare la vita, per evitare danni irreparabili – ha conseguentemente e correttamente ritenuto che gravasse sull’Azienda la prova liberatoria, ossia la prova che il ritardo della prestazione non fosse imputabile, conformemente alla regola probatoria in tema di responsabilità contrattuale.

Precisato dunque che l’onere della prova è stato correttamente ripartito, è infondato il primo motivo, o meglio inammissibile, in quanto mira a contestare l’accertamento in fatto circa l’inadempimento della prestazione. La Corte ha, con motivazione adeguata, ritenuto che l’intervento fosse urgente e che il suo differimento fosse ingiustificato, ossia che l’Azienda non ha dimostrato che era inevitabile differirlo; questo accertamento in fatto non può essere qui messo in discussione, essendo peraltro adeguatamente motivato dalla corte di merito, che indica le circostanze fattuali ed anche documentali (cartella clinica ed altro) da cui ha ricavato questa convinzione.

Posto allora che si deve ritenere per accertato il ritardo ingiustificato nell’intervento, viene meno anche il secondo motivo, che è connesso altresì con un argomento di censura contenuto nel primo, ossia la responsabilità addebitabile al paziente nella mancata esecuzione della prestazione: ritiene l’Azienda che, innanzitutto, la decisione di portare via il paziente sia da ritenersi contraria a correttezza, nel senso che la controparte non ha cooperato al fine di consentire l’adempimento della prestazione e, per altro verso, vada letta come causa di una impossibilità sopravvenuta di quella stessa prestazione, resa cioè impossibile proprio da detto trasferimento del paziente, causa imputabile ai suoi congiunti.

Questa lettura cade se cade la premessa, ossia che l’adempimento fosse ancora possibile, non vi fosse cioè ritardo, e che conseguentemente a renderlo impossibile sia stata la controparte. Se questa premessa viene meno, e si accede alla ricostruzione in fatto operata dalla Corte di merito, secondo cui, invece, il ritardo era ingiustificato non avendo l’Azienda dimostrato che non aveva modo di intervenire sul paziente a causa delle sopravvenienze più gravi; se questa ricostruzione in fatto è tenuta ferma, e come si è detto, non può essere messa qui in discussione, nè per certi versi lo è stata adeguatamente (ossia sotto gli unici profili possibili, di difetto di motivazione o errore percettivo), allora ovviamente ne deriva che la condotta del paziente, meglio dei suoi congiunti, non è nè in violazione del dovere di correttezza nè costituisce causa di una – colpevole dunque- impossibilità sopravvenuta: si tratta invece della condotta conseguente all’inadempimento altrui, volta ad evitare un danno maggiore.

In altri termini, l’accertamento in fatto che ad essere inadempiente è stata l’Azienda, esclude, per logica conseguenza, che possa invece la mancata soddisfazione dell’interesse del creditore essere imputata a condotta colpevole di quest’ultimo, esclude cioè l’inadempimento della controparte; nè è mai stata prospettata, neanche nei gradi precedenti, una qualche ipotesi di inadempimento reciproco.

Il ricorso va pertanto rigettato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, nella misura di 3000,00 curo, oltre 200,00 di spese generali. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il pagamento, se dovuto e nella misura dovuta, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 13 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2021

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