Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16927 del 12/08/2020

Cassazione civile sez. lav., 12/08/2020, (ud. 23/01/2020, dep. 12/08/2020), n.16927

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22817-2018 proposto da:

P.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ENNIO

QUIRINO VISCONTI 20, presso lo studio dell’avvocato MARIO ANTONINI,

rappresentato e difeso dall’avvocato MAURIZIO BARRELLA;

– ricorrente –

contro

CO.FA.SER. – CONSORZIO FARMACIE E SERVIZI, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA,

PIAZZA CAVOUR 19, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELE DE LUCA

TAMAJO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati

VINCENZO LUCIANI, e FEDERICA PATERNO’;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 57/2018 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 26/02/2018, R.G.N. 788/2017.

 

Fatto

RILEVATO

1. Che la Corte d’appello di Salerno ha confermato la sentenza di primo grado di rigetto della domanda di P.M. intesa alla declaratoria della nullità, illegittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro CO.FA. SER- Consorzio Farmacie e Servizi (da ora CO.FA.SER.) sulla base di contestazione che ascriveva al lavoratore il danneggiamento di beni aziendali;

1.1. che la statuizione di conferma è stata fondata sull’accertamento del fatto materiale addebitato in assenza di prova di elementi atti a suffragare l’assunto attoreo circa la esistenza, al momento dei fatti, di uno stato psichico che non consentiva al P. di avere consapevolezza dei suoi gesti; nè la condotta del lavoratore risultava giustificata dal diniego della parte datoriale di dare corso alla richiesta di permesso per motivi di salute, risultando tale rifiuto legittimamente motivato dalla esistenza di un provvedimento di sospensione, pacificamente già emesso e notificato al lavoratore via p.e.c.;

2. che per la cassazione della decisione ha proposto ricorso P.M. sulla base di tre motivi; la parte intimata ha resistito con controricorso;

3. entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1. c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

1. Che preliminarmente occorre dichiarare la inammissibilità del controricorso per essere tardiva la relativa notifica, avvenuta a mezzo pec in data 29 ottobre 2018 e, quindi, oltre il termine prescritto dall’art. 370 c.p.c., comma 1, decorrente dalla notifica del ricorso per cassazione avvenuta il 23 luglio 2018. L’esclusione delle controversie di lavoro dalla sospensione feriale dei termini processuali, prevista dalla L. n. 742 del 1969, art. 3 si applica, infatti, anche con riferimento ai giudizi di cassazione (Cass. S.U. n. 749 del 2007 e Cass. n. 23698 del 2017), sicchè il termine di quaranta giorni previsto dal combinato disposto degli artt. 370 e 369 c.p.c. nella specie è spirato il 1 settembre 2018;

2. che con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 4 e della L. n. 108 del 1990, art. 3 in relazione al mancato riconoscimento del carattere ritorsivo dell’intimato licenziamento e della mancata prova della esclusività del motivo ritorsivo. Insiste nell’affermare la necessità di inquadramento della condotta del dipendente nell’ambito delle iniziative, anche disciplinari, assunte dall’ente datore a partire dall’epoca della segnalazione effettuata dal P. al Presidente del Consiglio di amministrazione dell’ente al Presidente del collegio sindacale ed al Responsabile anticorruzione, in ordine alla mancata correttezza e trasparenza nella gestione amministrativa dell’ente;

3. che con il secondo motivo deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. in relazione all’onere della prova ex art. 2967 c.c., censurando la sentenza impugnata per avere escluso che la condotta del lavoratore potesse configurarsi quale reazione all’illegittimo comportamento del datore di lavoro; si duole, in particolare, della omessa considerazione della mancata prova che il lavoratore fosse a conoscenza del provvedimento di contestazione di addebito e sospensione cautelare inviatagli a mezzo pec del 10 febbraio 2015; si duole, inoltre, del mancato accoglimento della istanza ex art. 210 c.p.c. di acquisizione dal provider del p.c. di copia conforme del documento prodotto in allegato al ricorso o una certificazione degli accessi effettuati nel periodo dal 1 al 12 febbraio 2015;

4. che con il terzo motivo deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., censurando la sentenza impugnata per non avere motivato se ed in che misura, in base a parametri oggettivi, il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro poteva ritenersi definitivamente incrinato;

5. che il primo motivo di ricorso è inammissibile in quanto non incentrato sul significato e sulla portata applicativa delle norme delle quali denunzia violazione, come prescritto al fine della valida censura della decisione (Cass. n. 24298 del 2016; Cass. n. 5353 del 2007, Cass. n. 11501 del 2006), ma inteso a sollecitare la rivalutazione nel merito della vicenda con particolare riferimento agli elementi asseritamente rivelatori dell’intento ritorsivo del consorzio;

5.1. che, infatti, il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo applicabile ratione temporis. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che quest’ultima censura, e non la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr., fra le altre, Cass. n. 14468 del 2015);

5.2. che la sentenza impugnata, premesso che l’appellante P. non aveva specificamente censurato la affermazione del giudice di prime cure riferita alla necessità di prova che il denunziato intento ritorsivo costituisse l’esclusiva motivazione del licenziamento, ha osservato che l’insistenza sul preteso intento ritorsivo da parte del P. risultava priva di rilievo a fronte della condotta di danneggiamento da questi tenuta idonea a sorreggere autonomamente, per la sua gravità, anche economica ed i connessi profili di reato, il recesso datoriale;

5.3. che la decisione è conforme a diritto costituendo coerente applicazione dei principi affermati dalla giurisprudenza della Suprema Corte secondo la quale in tema di licenziamento nullo perchè ritorsivo, il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. deve essere determinante, cioè costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale; ne consegue che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore, ai fini all’applicazione della tutela prevista dall’art. 18, comma 1 st.lav. novellato, richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento (Cass. n. 9468 del 2019, Cass. n. 24648 del 2015, Cass. n. 24347 del 2010);

6. che il secondo motivo di ricorso è inammissibile in quanto le censure articolate non hanno ad oggetto la verifica di correttezza dell’attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva delle norme delle quali è denunziata violazione nè la sussunzione del fatto accertato dal giudice di merito nell’ipotesi normativa, nè tanto meno specificano le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata motivatamente assunte in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. n. 16038 del 2013, Cass. n. 3010 del 2012, Cass. n. 24756 del 2007, Cass. n. 12984 del 2006);

6.1. che, in particolare, la norma prevista dall’art. 2697 c.c. regola l’onere della prova, non anche (come concretamente censurata nella specie) la materia della valutazione dei risultati ottenuti mediante l’esperimento dei mezzi di prova, viceversa disciplinata dagli artt. 115 e 116 c.p.c. e la cui erroneità ridonda comunque in vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass., n. 15107 del 2013, Cass. n. 21234 del 2012, Cass. n. 19064 del 2006, Cass. n. 2707 del 2004);

6.2. che nel caso di specie le doglianze formulate, anche ove astrattamente riconducibili all’ambito del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, risultano precluse ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., comma 5, dal ricorrere dell’ipotesi cd. di doppia conforme, in assenza di indicazione da parte del ricorrente, sul quale ricadeva il relativo onere, delle ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, e della dimostrazione della loro diversità (Cass. 26774 del 2016, Cass. n. 5528 del 2014);

7. che il terzo motivo di ricorso è infondato. La sentenza impugnata ha ritenuto la sussistenza della giusta causa in ragione della oggettiva gravità della condotta. Tale valutazione poteva essere incrinata solo dalla denunzia, non formulata dalla parte ricorrente, di incoerenza dei parametri ai quali era stata ancorata verifica della lesione del vincolo fiduciario, con quelli destinati ad integrare la clausola generale di cui all’art. 2119 c.c. vale a dire i principi costituzionali, quelli generali dell’ordinamento, precise norme suscettibili di applicazione in via estensiva o analogica, o regole che si configurano, per la costante e pacifica applicazione giurisprudenziale e per il carattere di generalità assunta, come diritto vivente (Cass. n. 7406 del 2018, Cass. n. 7305 del 2018, Cass. 6498 del 2012, Cass. 16037 del 2004);

7.1. che parte ricorrente con le censure articolate tende a sollecitare una diversa valutazione del fatto oggetto di addebito sotto il profilo della proporzionalità della sanzione espulsiva alla sua reale entità e quindi investe un tipico accertamento devoluto al giudice di merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta, come nel caso di specie, da motivazione sufficiente e non contraddittoria (Cass. n. 8923 del 2012, Cass. n. 7498 del 2011);

8. che a tanto consegue il rigetto del ricorso;

9. che la tardività del controricorso comporta che esso non può essere posto a carico del ricorrente (soccombente) nel computo dell’onorario di difesa da rimborsare al resistente (Cass. n. 22269 del 2010, Cass. n. 1094 del 1962) di talchè, in assenza di discussione orale, non prevista nel procedimento per la decisione in camera di consiglio, nulla è dovuto a titolo di spese dalla parte soccombente;

10. che sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. (Cass. Sez. Un. 23535 del 2019)

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 23 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 agosto 2020

 

 

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