Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16921 del 02/08/2011

Cassazione civile sez. II, 02/08/2011, (ud. 22/06/2011, dep. 02/08/2011), n.16921

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ELEFANTE Antonino – Presidente –

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. MATERA Lina – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 100-2006 proposto da:

G.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA MARIA CRISTINA 8, presso lo studio dell’avvocato GOBBI

GOFFREDO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato SICARI

GIACOMO;

– ricorrente –

contro

GA.RE. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

Roma, Viale Regina Margherita 294, presso lo studio dell’avvocato

VALLEFUOCO ANGELO, rappresentato e difeso dall’avvocato MARTELLONE

BRUNO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1925/2004 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 11/11/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/06/2011 dal Consigliere Dott. VINCENZO CORRENTI;

udito l’Avvocato GOBBI Luisa, con delega depositata in udienza

dell’Avvocato GOBBI Goffredo, difensore del ricorrente che ha chiesto

accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato MARTELLONE Bruno, difensore del resistente che ha

chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GOLIA Aurelio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

G.F. conveniva davanti al Tribunale di Treviso Ga.Re. esponendo che, in data 3.4.1992, aveva concluso col medesimo contratto preliminare di compravendita di un terreno agricolo in Vedelago per lire 60.000.000 non onorato dal promittente venditore, il quale non aveva adempiuto all’obbligo di stipula dell’atto traslativo entro il 31.10 dello stesso anno; domandava pronunzia ex art. 2932 c.c. ed, in subordine, la risoluzione, puntualizzando di aver corrisposto caparra di lire 6.000.000.

Il convenuto contestava le pretese attoree addebitando inadempienze al G., con le conseguenti statuizioni anche in ordine alla ritenzione della caparra. Prodotta documentazione ed espletata istruttoria orale, i Tribunale riteneva il termine non essenziale;

tra l’altro il G. aveva notiziato l’avversario della posticipazione del rogito di dieci giorni, donde doveva escludersi la risoluzione; residuava l’inadempimento del promittente venditore Ga. per non essersi presentato alla stipula entro il termine pattuito, con la sua conseguente condanna al doppio della caparra, decisione riformata dalla Corte di appello di Venezia, con sentenza 1925/04, che, accogliendo l’appello del Ga., accertava la risoluzione imputabile al G. ed il diritto del Ga. a ritenere la caparra con condanna alla restituzione di quanto ricevuto in esecuzione della sentenza gravata, oltre spese ed accessori.

La Corte, rilevato che l’essenzialità del termine deve essere accertata in riferimento all’effettiva volontà delle parti prescindendo da clausole di stile, deduceva che il testo della convenzione 3.4.1992 era univoco e chiaro nel prevedere che il rogito dovesse avvenire entro la data indicata, espressamente designata termine “essenziale e perentorio, così voluto dalle parti”, locuzione che lasciava fondatamente intendere come la data fosse prevista con riguardo all’interesse di entrambi e non del solo G., nonostante le precisazioni del teste F.. Ricorre G. con tre motivi, resiste controparte.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Col primo motivo si denunzia violazione dell’art. 1362 c.c. perchè si deve valutare il comportamento complessivo delle parti anche posteriore alla conclusione del contratto senza limitarsi al senso letterale e, nella specie, il teste F. aveva deposto che il termine essenziale, perentorio era stato richiesto dal G..

Col secondo motivo si lamenta violazione dell’art. 1457 c.c. perchè, quand’anche il termine fosse stato essenziale, era stato rispettato dal G., che nella stessa mattina si era recato presso il geom. F. per comunicare la data dell’11.11.1992.

Col terzo motivo si lamenta violazione dell’art. 2697 c.c. per avere il Giudice di appello fatto propria (o sembra aver fatto) la considerazione, introdotta solo in appello, secondo cui non vi sarebbe prova dell’effettiva fissazione del rogito per l’11.11.1992.

Le censure non meritano accoglimento.

In ordine alla prima, come riportato, la Corte di appello, rilevato che l’essenzialità del termine deve essere accertata in riferimento all’effettiva volontà delle parti prescindendo da clausole di stile, deduceva che il testo della convenzione 3.4.1992 era univoco e chiaro nel prevedere che il rogito dovesse avvenire entro la data indicata, espressamente designata termine “essenziale e perentorio, così voluto dalle parti”, locuzione che lasciava fondatamente intendere come la data fosse prevista con riguardo all’interesse di entrambi e non del solo G., nonostante le precisazioni del teste F..

Il convincimento espresso dal giudice a quo risulta, in effetti, raggiunto mediante lo svolgimento d’attività interpretativa della convenzione.

Ne consegue il ricorrente avrebbe dovuto prospettare ogni questione al riguardo, anzi tutto, in relazione all’attività ermeneutica posta in essere dal giudice a quo, con puntuale riferimento ai singoli criteri legali d’ermeneutica contrattuale, e solo successivamente, una volta idoneamente dimostrato l’errore nel quale fosse eventualmente incorso al riguardo il detto giudice, avrebbero potuto procedere ad un’utile prospettazione delle ulteriori questioni d’erronea od inesatta applicazione d’altre norme ed istituti, dacchè la disamina di tali questioni presuppone l’intervenuto accertamento dell’errore sull’interpretazione della volontà negoziale delle parti alle quali è fatto riferimento in ricorso, e non può, pertanto, aver luogo ove manchi siffatto previo accertamento d’un vizio che inficerebbe, sul punto, ab origine l’impugnata pronunzia, costituendo tale interpretazione il presupposto logico-giuridico delle conclusioni alle quali il giudice del merito è pervenuto poi sulla base di essa (Cass. 21.7.03 n. 11343, 30.5.03 n. 8809. 28.8.02 n. 12596). E’ ben vero che il ricorrente ha inteso in qualche modo censurare la valutazione degli atti de quibus effettuata dal giudice a quo ed ha, all’uopo, svolto argomenti in senso contrario, tuttavia, quand’anche vi si volesse ravvisare una, se pure irrituale, denunzia d’errore interpretativo, questa sarebbe, comunque, inidoneamente formulata ed insuscettibile d’accoglimento.

L’opera dell’interprete, infatti, mirando a determinare una realtà storica ed obiettiva, qual è la volontà delle parti espressa nel contratto, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali d’ermeneutica contrattuale posti dagli artt. 1362 ss. c.c., oltre che per vizi di motivazione nell’applicazione di essi; pertanto, onde far valere una violazione sotto entrambi i due cennati profili, il ricorrente per cassazione deve, non solo, come già visto, fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito siasi discostato dai canoni legali assuntivamente violati o questi abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti.

Di conseguenza, ai fini dell’ammissibilità del motivo di ricorso sotto tale profilo prospettato, non può essere considerata idonea – anche ammesso ma non concesso lo si possa fare implicitamente – la mera critica del convincimento, cui quel giudice sia pervenuto, operata, come nella specie, mediante la mera ed apodittica contrapposizione d’una difforme interpretazione a quella desumibile dalla motivazione della sentenza impugnata, trattandosi d’argomentazioni che riportano semplicemente al merito della controversia, il cui riesame non è consentito in sede di legittimità (e pluribus, da ultimo, Cass. 9.8.04 n. 15381, 23.7.04 n. 13839, 21.7.04 n. 13579, 16.3.04 n. 5359, 19.1.04 n. 753).

Nè può utilmente invocarsi la mancata considerazione del comportamento delle parti.

Ad ulteriore specificazione del posto principio generale d’ordinazione gerarchica delle regole ermeneutiche, il legislatore ha, inoltre, attribuito, nell’ambito della stessa prima categoria, assorbente rilevanza al criterio indicato nel primo comma dell’art. 1362 c.c. eventualmente integrato da quello posto dal successivo art. 1363 c.c. per il caso di concorrenza d’una pluralità di clausole nella determinazione del pattuito – onde, qualora il giudice del merito abbia ritenuto il senso letterale delle espressioni utilizzate dagli stipulanti, eventualmente confrontato con la ratio complessiva d’una pluralità di clausole, idoneo a rivelare con chiarezza ed univocità la comune volontà degli stessi, cosicchè non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l’intento effettivo dei contraenti – ciò che è stato fatto nella specie dalla corte territoriale, con considerazioni sintetiche ma esaustive – detta operazione deve ritenersi utilmente compiuta, anche senza che si sia fatto ricorso al criterio sussidiario dell’art. 1362 c.c., comma 2, che attribuisce rilevanza ermeneutica al comportamento delle parti successivo alla stipulazione (Cass. 4.8.00 n. 10250, 18.7.00 n. 9438, 19.5.00 n. 6482, 11.8.99 n. 8590, 23.11.98 n. 11878, 23.2.98 n. 1940, 26.6.97 n. 5715, 16.6.97 n. 5389); non senza considerare, altresì, come detto comportamento, ove trattisi d’interpretare, come nella specie, atti soggetti alla forma scritta ad substantiam, non possa, in ogni caso, evidenziare una formazione del consenso al di fuori dell’atto scritto medesimo (Cass. 20.6.00 n. 7416, 21.6.99 n. 6214, 20.6.95 n. 6201, 11.4.92 n. 4474).

Peraltro, la riportata deposizione del teste F. (“il termine essenziale, perentorio è stato richiesto dal sig. G.”) non rende suffragio alla tesi del ricorrente, dimostrando eventualmente l’iniziativa di sancirlo espressamente ma non che fosse nel suo esclusivo interesse, il che esclude l’accoglimento anche del secondo motivo, che presuppone, quest’ultima condizione ed è infondato nella pretesa di ritenere rispettato un termine essenziale per il rogito per il solo fatto che nell’ultimo giorno utile si comunichi (peraltro ad un terzo) la posticipazione.

La terza censura prospetta una interpretazione ipotetica legata ad “un rilievo solo aggiuntivo” e non decisivo, contenuto a pagina sette della sentenza.

In definitiva il ricorso va rigettato con la conseguente condanna alle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, liquidate in Euro 1700, di cui 1500 per onorari, oltre accessori.

Così deciso in Roma, il 22 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2011

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