Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16893 del 15/06/2021

Cassazione civile sez. III, 15/06/2021, (ud. 09/02/2021, dep. 15/06/2021), n.16893

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 36460/2019 proposto da:

C.J., domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la

CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato VITTORIO SANNONER;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– resistente –

avverso la sentenza n. 902/2019 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 15/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

09/02/2021 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. – Con ricorso affidato a tre motivi, C.J., cittadino (OMISSIS), ha impugnato sentenza della Corte d’Appello di Bari, resa pubblica il 15 aprile 2019, la quale aveva accolto il gravame, svolto dal Ministero dell’interno, avverso l’ordinanza del Tribunale della medesima Città che, a sua volta, aveva riconosciuto al richiedente la protezione umanitaria.

2. – Per quanto ancora rileva in questa sede, la Corte d’Appello osservava che: a) “il paese di provenienza del richiedente non è il (OMISSIS), come erroneamente ritenuto dal primo giudice nel provvedimento appellato, ma il (OMISSIS), situato nel centro della (OMISSIS) dove le fonti internazionali non riportano situazione di violenza legata agli attacchi terroristici di (OMISSIS)”, in particolare, in base a report EASO del 2018; b) la “situazione di emarginazione, legata ad odiosi pregiudizi (gli antenati del richiedente erano stati vittime di schiavitù) non integra un’ipotesi di particolare vulnerabilità”, nè “è stata allegata documentazione idonea a dimostrare l’avvenuta integrazione del richiedente”.

3. – Il Ministero dell’interno non ha svolto attività difensiva, depositando unicamente “atto di costituzione” al fine della partecipazione a eventuale udienza di discussione.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. – Con il primo mezzo viene lamentata violazione del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19, comma 1, 6 e 9, per esser l’atto di appello, svolto dal Ministero, inammissibile, poichè “presentato in violazione delle forme di legge”, ossia mediante notifica di atto di citazione in appello, anzichè tramite deposito del ricorso.

1.1. – Il motivo è infondato.

Le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., S.U., n. 28575/2018), chiamate a pronunciarsi sulla portata della modifica legislativa intervenuta sul D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19 relativa alla forma introduttiva del giudizio di appello in materia di protezione internazionale, hanno ritenuto che: “nel regime del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19, risultante dalle modifiche introdotte con il D.Lgs. n. 142 del 2015, l’appello, proposto ex art. 702-quater c.p.c., tanto avverso la decisione del tribunale di rigetto della domanda volta al riconoscimento della protezione internazionale quanto contro la decisione di accoglimento doveva essere introdotto con ricorso e non con citazione, atteso che il riferimento al “deposito del ricorso” introdotto nella norma dell’art. 19, comma 9 dal testo sostituito dall’art. 27, comma 1, lett. f) implicava la volontà del legislatore di innovare la forma dell’appello, così derogando, ai sensi dello stesso art. 19, comma 1 rispetto a quella individuabile anteriormente nella citazione ai sensi dell’art. 702-quater c.p.c.”.

Ciò chiarito, occorre tuttavia precisare che, secondo l’orientamento espresso dalla citata pronuncia a Sezioni Unite, “quando l’ordinamento prescrive per l’esercizio del diritto di impugnazione rispettivamente la forma del ricorso da depositare presso l’ufficio che deve ricevere l’impugnazione ovvero la forma della citazione o della notificazione di un atto alla parte destinataria dell’impugnazione, lo scopo dell’attività di esercizio del diritto di impugnazione connaturato alle due diverse forme è nel primo che nel termine di impugnazione si realizzi la “presa di contatto” con il giudice investito dell’impugnazione e nel secondo che entro quel termine si realizzi la “presa di contatto” con la parte destinataria dell’impugnazione. Ne consegue che l’errore nella scelta dell’atto di proposizione dell’impugnazione sotto il profilo del contenuto-forma che non abbia realizzato la “presa di contatto” prescritta, può essere rimediato esclusivamente tramite eventuali attività integrative successive all’adozione dell’atto idonee a realizzare quella “presa di contatto” entro il termine di impugnazione e non già oltre quel termine”.

Nella specie, comunicata l’ordinanza del Tribunale in data 16 novembre 2017, a fronte della notificazione dell’atto di appello perfezionatasi il 12 dicembre 2017, può dirsi realizzata la situazione disciplinata dall’art. 156 c.p.c., comma 3, poichè il deposito dell’atto notificato, effettuato in data 15 dicembre 2017, è avvenuto comunque, per il caso in cui l’appello fosse stato introdotto nella diversa forma del ricorso, entro il termine di trenta giorni previsto dall’art. 702-quater c.p.c.

2. – Con il secondo mezzo viene dedotta violazione degli artt. 70,71,72,101,331 e 350 c.p.c., per mancata vocatio in ius, nel giudizio di secondo grado, del pubblico ministero presso il Tribunale di Bari e, comunque, per mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di litisconsorte necessario pretermesso.

2.1. – Il motivo è infondato.

Nella sentenza impugnata (pag. 2) è espressamente menzionata la partecipazione, nel giudizio d’appello, del pubblico ministero – parte soltanto interveniente – il quale “si esprimeva in senso favorevole all’accoglimento dell’appello”. Nè, peraltro, il ricorrente evidenzia quale effettiva lesione abbia patito rispetto all’esercizio del proprio diritto di difesa; ciò che si rendeva necessario, poichè la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione (tra le molte, Cass. n. 23638/2016).

3. – Con il terzo mezzo è prospettata violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8 nonchè D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, per non aver la Corte di merito opportunamente attivato il potere-dovere di collaborazione istruttoria in merito al riconoscimento dell’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, comma 1, lett. c), nonchè per non aver accertato la condizione oggettiva di vulnerabilità cui sarebbe esposto il ricorrente per il caso di rimpatrio, attesa la sua appartenenza non a popolazione indigena, bensì a minoranza di “discendenza schiava”, e dunque, “straniera”.

3.1. – Il terzo motivo è inammissibile.

Lo è, anzitutto, in riferimento alla doglianza che verte sulla verifica delle condizioni di sussistenza della forma di protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) giacchè il thema decidendum del giudizio di appello è rimasto circoscritto alla sola verifica di spettanza della protezione umanitaria.

Lo è (inammissibile) anche per la censura che investe il negato riconoscimento di tale ultima forma di protezione, giacchè essa, per un verso, si risolve in una critica dell’apprezzamento in fatto della Corte territoriale (che – come sintetizzato nel “Rilevato che” – ha espressamente considerato, ed escluso, la situazione di vulnerabilità del richiedente nel paese di origine in caso di rimpatrio, facendo leva anche su COI aggiornate e attendibili) e, per altro verso, manca di impugnare la ratio decidendi della sentenza impugnata, vertente sull’accertamento relativo all’assenza di documentazione comprovante l’integrazione dello stesso richiedente nel paese di accoglienza.

4. – Il ricorso va, dunque, rigettato.

Non occorre provvedere alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità in assenza di attività difensiva della parte rimasta soltanto intimata.

PQM

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza civile della Corte suprema di Cassazione, il 9 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2021

 

 

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