Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16887 del 15/06/2021

Cassazione civile sez. II, 15/06/2021, (ud. 10/02/2021, dep. 15/06/2021), n.16887

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26083/2019 proposto da:

A.J., domiciliato in ROMA, preso la Cancelleria della Corte

di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO

BONATESTA, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che

lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di BOLOGNA, depositata il

03/08/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

10/02/2021 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Bologna, con decreto del 3 agosto 2019, ha rigettato il ricorso proposto da A.J., nato in (OMISSIS), avverso la decisione del 2 settembre 2017 della Commissione territoriale di Bologna, sezione di Forlì-Cesena, che gli aveva negato la protezione internazionale.

Il Tribunale ha giudicato il racconto del cittadino straniero privo di qualsiasi riscontro probatorio oggettivo e non veritiero. Ha osservato che la preoccupazione di non essere in grado di spiegare ai genitori la sorte della sorella, parimenti fuggita con lui dal paese di origine e che non sapeva dove fosse attualmente, non poteva trovare tutela nell’ambito della protezione internazionale.

Quanto invece al timore di ritorsioni da parte dei creditori sia nella città di origine che a (OMISSIS), il Tribunale evidenziava una serie di incoerenze e contraddizioni tra le versioni rese dapprima dinanzi alla Commissione territoriale e poi in sede di audizione dinanzi al giudice.

Non erano univoche le modalità con le quali si era verificato l’incendio che aveva cagionato i danni il cui ristoro pretendevano i suoi creditori (non trovando conferma la presenza o meno sul posto del suo datore di lavoro). Ancora non erano chiare le ragioni per cui la polizia volesse arrestarlo, sebbene il creditore avesse concesso un termine per ripagare i danni, come era apparentemente incoerente il fatto che fosse stato arrestato il suo collega di lavoro per tale episodio, sebbene il ricorrente avesse riferito che non era stato creduto allorchè aveva riferito di essersi affidato proprio al collega per assicurare lo spegnimento del fuoco che aveva in precedenza acceso.

Doveva escludersi che quindi fosse concreto il pericolo di dover lavorare gratuitamente per tutta la vita per ripianare il credito vantato dai creditori nella città di origine, ben potendo sottrarsi a tale pretesa semplicemente trasferendosi altrove.

Quanto invece al debito asseritamente contratto a (OMISSIS), dove si era successivamente trasferito con la sorella, l’ A. in sede di audizione aveva riferito che la sorella aveva chiesto del denaro al suo datore di lavoro, con la scusa di permettergli di aprire un’attività di vendita di frutta e verdura, essendo invece destinata la somma a permettergli di recarsi in Europa, il che denotava come la fuga all’estero non fosse conseguenza dei debiti, ma frutto di una deliberazione autonoma.

In ogni caso il racconto era privo di qualsivoglia prova di carattere documentale, che pur avrebbe potuto procurarsi, avendo mantenuto contatti con i familiari ancora residenti in Pakistan.

Inoltre, risultava che la domanda di protezione internazionale non era frutto di una scelta autonoma e personale, ma era stata imposta in adempimento della complessa procedura di identificazione e di lecita permanenza sul territorio dello Stato alla lice delle prescrizioni comunitarie.

Sulla base di queste premesse, il decreto ha escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, non avendo il richiedente offerto elementi che ricolleghino l’espatrio al timore di persecuzione personale e diretta per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica. Il Tribunale di Bologna ha del pari escluso la ravvisabilità dei presupposti della protezione sussidiaria, non risultando provato il pericolo dedotto dal richiedente di subire un danno grave: in particolare, il pericolo per la propria incolumità personale per essere esposto alle azioni di vendetta dei creditori. Le informazioni provenienti da accreditate fonti internazionali, d’altra parte, portavano ad escludere – ha sottolineato il Tribunale – che sia presente in Pakistan, alcun conflitto armato o una situazione di violenza generalizzata.

Secondo il giudice di merito, la valutazione di non affidabilità del ricorrente escludeva inoltre la sussistenza di una situazione di vulnerabilità o di pericolosità per l’incolumità del richiedente da proteggere con la concessione di un permesso per motivi umanitari.

Per la cassazione del decreto del Tribunale di Bologna A.J. ha proposto ricorso, con atto notificato il 4 settembre 2019, sulla base di tre motivi.

L’intimato Ministero dell’interno ha resistito con controricorso. Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ex art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Ad avviso del ricorrente, la valutazione di non attendibilità del richiedente sarebbe stata effettuata in violazione di legge, senza un idoneo supporto motivazionale e senza una verifica della compatibilità del racconto con le fonti esterne e internazionali. Le dichiarazioni del richiedente la protezione dimostrerebbero che questi ha effettuato ogni sforzo per circostanziare la domanda; nè andrebbe dimenticato che in Pakistan è possibile ridurre i debitori in una condizione di sostanziale schiavitù.

Con il secondo motivo il ricorrente prospetta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 2 e art. 14, lett. b), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Ad avviso del ricorrente la protezione sussidiaria sarebbe stata negata senza alcuna verifica sulle condizioni del Paese di provenienza, semplicemente sulla base del giudizio di inattendibilità del richiedente. Ci si duole che il Tribunale non si sia avvalso dei propri poteri di accertamento d’ufficio, in contrasto con il principio secondo cui, al fine del rigetto della istanza di protezione sussidiaria, occorre valutare in concreto se nel Paese di provenienza sussistono condizioni tali da rientrare nelle ipotesi in cui la legge italiana prevede l’applicazione della protezione in questione.

I primi due motivi – da esaminare congiuntamente, stante la stretta connessione – sono inammissibili. La Corte d’appello ha escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e per la concessione della protezione sussidiaria, non solo perchè il racconto di A.J., basato sull’allegazione di aver lasciato il proprio Paese per il timore di ritorsioni da parte dei propri creditori, è rimasto privo di qualsiasi riscontro probatorio oggettivo, ma anche perchè la narrazione è risultata assolutamente generica e non circostanziata, oltre che priva di riscontri nelle informazioni generali e specifiche sulla situazione del Paese di origine. Questa Corte ha di recente ribadito che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c).

Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ovvero come mancanza assoluta della motivazione, o come motivazione apparente, o come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Cass., Sez. I, 5 febbraio 2019, n. 3340).

Al riguardo il Tribunale di Bologna, con motivazione che soddisfa lo standard del minimo costituzionale, ha chiarito le ragioni per cui le dichiarazioni del ricorrente sono state ritenute inattendibili, sia per l’incapacità del richiedente di circostanziare e dettagliare il racconto anche su elementi essenziali e determinanti, sia perchè le dichiarazioni rese sono prive di riscontro nelle informazioni generali e specifiche sulla situazione del Paese di origine, risultando incoerenze e contraddizioni tra le varie versioni offerte.

Sotto il profilo della credibilità del racconto del richiedente, il contenuto della censura articolata dal ricorrente per cassazione attiene ad una diversa prospettazione e valutazione dei fatti rilevanti. Il ricorso deduce un ulteriore profilo di censura, che concerne la mancata attivazione del potere officioso di richiedere informazioni precise sulla condizione dei debitori nel Pakistan.

A tale riguardo, occorre opportunamente precisare e circoscrivere il principio secondo cui le dichiarazioni del richiedente che siano inattendibili non richiedono approfondimento istruttorio officioso: nel senso che ciò vale per il racconto che concerne la vicenda personale del richiedente, che può rilevare ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b); invece, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, una volta assolto da parte del richiedente la protezione il proprio onere di allegazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda personale inattendibile e comunque non credibile, in relazione alla fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (Cass., Sez. I, 31 gennaio 2019, n. 3016; Cass., Sez. I, 16 aprile 2020, n. 7876).

In particolare, è stato precisato che il giudice, prima di decidere la domanda nel merito, deve assolvere all’obbligo di cooperazione istruttoria, che non può essere di per sè escluso sulla base di qualsiasi valutazione preliminare di non credibilità della narrazione del richiedente asilo (Cass., Sez. III, 12 maggio 2020, n. 8819). Il provvedimento impugnato ha messo in evidenza le ragioni per le quali fosse solo ipotetico e frutto di un personale convincimento del ricorrente, quello di essere sottoposto in uno stato di sostanziale schiavitù da parte dei suoi creditori, essendosi altresì sottolineato come in realtà la decisione di espatriare non fosse conseguenza dei debiti contratti, ma fosse l’elemento che lo aveva spinto a chiedere un prestito a (OMISSIS) al datore di lavoro della sorella.

A tale principio si è attenuto il giudice di merito, che, nel ritenere non sussistente l’ipotesi di cui del citato art. 14, lett. c), ha tenuto conto di aggiornate informazioni provenienti da accreditate fonti internazionali (rapporto Human Rights 2017; Easo relativi al Pakistan sia per l’anno 2017 che per l’anno 2018), le quali portano ad escludere tale ipotesi, non essendo presente in Pakistan, alcun conflitto armato nella nozione offerta anche dalla giurisprudenza della Corte di giustizia nè una situazione tale da ingenerare il concreto pericolo di una violenza generalizzata.

Con il terzo motivo (violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) il ricorrente lamenta che sia stata negata la protezione umanitaria. Il difetto di credibilità non escluderebbe l’obbligo di fornire una motivazione non meramente apparente. Nel caso di specie il Tribunale avrebbe rigettato la domanda relativa alla protezione umanitaria motivando la decisione soltanto sulla base del rigetto delle altre due domande (asilo e protezione sussidiaria), senza alcuna indagine sulle diverse condizioni poste a base del permesso di soggiorno per motivi umanitari, quando ricorrano gravi violazioni dei diritti umani ancorchè non sufficienti ad integrare i requisiti per il rifugio politico e per la protezione sussidiaria.

Il motivo è inammissibile.

Occorre premettere che il diritto alla protezione umanitaria, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta ad ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile. Ne consegue che – come hanno chiarito le Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 13 novembre 2019, n. 29459) – la normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte, come nella specie, prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge. Tanto premesso in ordine alla disciplina applicabile ratione temporis, ed assodato che il Tribunale ha correttamente scrutinato la domanda dell’ A. sulla base delle norme in vigore al momento della presentazione della domanda, va considerato che il giudice del merito ha escluso la ravvisabilità dei presupposti della protezione umanitaria in difetto del riscontro di una condizione di vulnerabilità effettiva o comunque di violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani, caratterizzanti il Paese di origine e direttamente riferibili alla vicenda personale del richiedente. Il richiedente non ha allegato sue specifiche situazioni di vulnerabilità, essendosi limitato ad una generica dissertazione sull’insufficiente rispetto dei diritti umani, caratterizzanti lo Stato di origine, senza maggiori specificazioni. La sentenza impugnata si appalesa, pertanto, esente dal vizio di violazione di legge denunciato dal ricorrente, e ciò anche perchè il Tribunale, pur dando atto dello svolgimento in Italia di corsi di formazione e di un’attività lavorativa ha escluso che ciò potesse fondare un radicamento sul territorio ostativo al rientro in patria, ove conserva tuttora stabili riferimenti affettivi e familiari.

Il ricorso è dichiarato inammissibile.

Attesa l’estrema sinteticità ed esiguità delle difese spese nel controricorso, si ritiene di non dover provvedere in merito alle spese di lite.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono i presupposti processuali per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, se dovuto.

PQM

La Corte dichiara il ricorso inammissibile.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 10 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2021

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