Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16886 del 02/08/2011

Cassazione civile sez. lav., 02/08/2011, (ud. 10/05/2011, dep. 02/08/2011), n.16886

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –

Dott. COLETTI DE CESARE Gabriella – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – rel. Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 8940/2010 proposto da:

POSTE ITALIANE SPA, in persona del Presidente del Consiglio di

Amministrazione e legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo studio

dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende, giusta

procura speciale ad litem a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

V.M.S. (OMISSIS), elettivamente

domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE di CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dagli avvocati GOFFREDO MARIA, SBARRA ETTORE,

giusta procura speciale alle liti a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 14 02/2009 della CORTE D’APPELLO di BARI del

24/03/09, depositata il 06/04/2009;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

10/05/2011 dal Consigliere Relatore Dott. SAVERIO TOFFOLI;

è presente il P.G. in persona del Dott. MASSIMO FEDELI.

Fatto

MOTIVI

La Corte pronuncia in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c., a seguito di relazione ex art. 380 bis.

Il Tribunale di Bari accoglieva la domanda proposta da V. M.S. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, diretta alla declaratoria di illegittimità dell’apposizione di termine a cinque contratti di lavoro intercorsi tra le parti nel periodo dall’1.8.1997 al 30.4.1999. Riconosceva il diritto del lavoratore alla riammissione in servizio e rigettava ogni altra istanza.

A seguito di appello delle Poste, la Corte d’Appello di Bari accoglieva parzialmente l’impugnazione, dichiarando la nullità della clausola appositiva del termine a far tempo dall’1.5.1998 e riconoscendo quindi che il rapporto doveva ritenersi a tempo indeterminato da tale data.

La società ha proposto ricorso con due motivi. L’intimato resiste con controricorso.

Il ricorso è qualificabile come manifestamente infondato.

Il primo motivo, deducendo violazione della L. n. 56 del 1987, art. 23, dell’art. 8 c.c.n.l. 26.11.1994, nonchè, in connessione con l’art. 1362 c.c. e segg., degli accordi sindacali 16.1.1998, 27.4.1998, 2.7.1998, 24.5.1999 e 18.1.2001, censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto illegittimamente apposto il termine ai contratti di lavoro e in particolare nella parte in cui ha ritenuto di individuare nella data del 30.4.1998 il preteso termine ultimo di validità ed efficacia temporale dell’accordo integrativo del 25.9.1997, sostenendo con vari argomenti che, in sostanza, se si analizza tanto l’accordo del 25.9.1997 quanto la disciplina collettiva posteriore alla sua stipula, facendo corretta applicazione dei criteri ermeneutici di cui all’art. 1362 c.c. e segg., è evidente che tali accordi hanno sempre avuto mera natura ricognitiva di una situazione contingente e non fissano alcun termine temporale.

La censura è integrata dal secondo motivo sotto il profilo del vizio di motivazione.

I motivi devono essere disattesi, in base all’indirizzo in materia, ormai consolidato, dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al c.c.n.l. del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001).

Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2.3.2006 n. 4588, è stato precisato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4.8.2008 n. 21063, v – anche Cass. 20.4.2006 n. 9245, Cass. 7.3.2005 n. 4862, Cass. 26.7.2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operaie sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato”. (v., fra le altre, Cass. 4.8.2008 n. 21062, Cass. 23.8.2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo), la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. frale altre Cass. 23.8.2006 n. 18383, Cass. 14.4.2005 n. 7745, Cass. 14.2.2004 n. 2866).

In particolare, quindi, nella specie, come questa Corte ha più volte affermato e come va enunciato anche in questa sede, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1” (v., fra le altre, Cass. 1.10.2007 n. 20608, Cass. 27.3.2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

Tale interpretazione degli accordi attuativi (ed in specie dell’ultimo citato) è fondata sul significato letterale delle espressioni usate che è così evidente e univoco (“in conseguenza di ciò e per far fronte alle predette esigenze si potrà procedere ad assunzioni di personale straordinario con contratto a tempo determinato fino al 30.4.98”) che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453), mentre, diversamente opinando – ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga – si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, fossero in sostanza “senza senso” (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866).

Peraltro al riguardo irrilevante è l’accordo del 18 gennaio 2001, invocato dalla società, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga; ed infatti, ammesso che le parti stipulanti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), considerata la indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, deve comunque escludersi che le parti stesse avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141).

Giustificatamente, quindi, in relazione all’epoca di stipulazione del contratto di lavoro, la Corte di merito ha ritenuto nella specie l’invalidità del relativo termine.

Il ricorso deve quindi essere rigettato. Le spese del giudizio vengono regolate facendo applicazione del criterio legale della soccombenza (art. 91 c.p.c.).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese del giudizio, liquidate in Euro trenta per esborsi ed Euro duemila per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA secondo legge, distratte agli avvocati Maria Goffredo ed Ettore Sbarra.

Così deciso in Roma, il 10 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2011

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