Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1687 del 27/01/2014


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 1687 Anno 2014
Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: TRICOMI IRENE

ORDINANZA
sul ricorso 15330-2011 proposto da:
ZAFFARANO LEONARDO ZFFLRD59H25L842A, elettivamente domiciliato in
ROMA, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avv.
MENICHELLA GIUSEPPE, giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente contro
INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE 80078750587
in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato
in ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso l’AVVOCATURA CENTRALE
DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati CORETTI ANTONIETTA,
DE ROSE EMANUELE, STUMPO VINCENZO, TRIOLO VINCENZO, giusta
procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

Data pubblicazione: 27/01/2014

avverso la sentenza n. 2760/2010 della CORTE D’APPELLO di BARI dell’11.5.2010,
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depositata il 06/2010;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/11/2013 dal
Consigliere Relatore Dott. IRENE TRICOMI;
udito per il controricorrente l’Avvocato Antonietta Coretti che si riporta agli scritti.
E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. GIUSEPPE CORASANITI

che si riporta alla relazione scritta.

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FATTO E DIRITTO
Atteso che e’ stata depositata relazione del seguente contenuto.
«Il consigliere relatore osserva quanto segue.
Zaffarano Leonardo, operaio agricolo a tempo determinato, si rivolse al
giudice del lavoro di Lucera per ottenere il ricalcolo dell’indennità di
disoccupazione agricola corrisposta in relazione alle giornate di lavoro effettuate
nell’anno 2003, ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. 16.4.97 n. 146, in relazione alla
retribuzione fissata dalla contrattazione integrativa collettiva della provincia,
anziché in base al salario medio convenzionale rilevato nell’anno 1995 e non più
incrementato.
Rigettata la domanda e proposto appello dallo Zaffarano, la Corte d’appello
di Bari (sentenza n. 2760 del 2010), riteneva intervenuta la decadenza della parte
ricorrente dal diritto di domandare la riliquidazione, ai sensi dell’art. 47, comma 3,
del dPR 639 del 1970.
Propone ricorso per cassazione lo Zaffarano prospettando un motivo di
ricorso. L’INPS resiste con controricorso.
Il ricorrente prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 6 del d.l. n.
103 del 1991, convertito dalla legge n. 166 del 1991 e dell’art. 47, comma 3, del
dPR 30 aprile 1970, n. 639 (art, 360, n. 3, cpc). Deduce il ricorrente che, in ragione
della giurisprudenza di legittimità non è applicabile l’istituto della decadenza
annuale.
Il motivo appare manifestamente fondato (cfr. Cass., n. 7245 del 2012).
Va premesso che l’originario testo dell’art. 47 del D.P.R. 30 aprile 1970 n. 639
stabiliva quanto segue: “Esauriti i ricorsi in via amministrativa, può essere proposta
l’azione dinanzi all ‘autorità giudiziaria, ai sensi degli artt. 459 e ss. cod proc. civ.
L’azione giudiziaria può essere proposta entro il termine di dieci anni dalla data di
comunicazione della decisione definitiva del ricorso pronunziata dai competenti organi
dell ‘istituto o dalla data di scadenza del termine stabilito per la pronunzia della
decisione medesima, se trattasi di controversie in materia di trattamenti pensionistici.
L’azione giudiziaria può essere proposta entro il termine di cinque anni dalle date di cui
al precedente comma se trattasi di controversie in materia di prestazioni a carico
dell’assicurazione contro la tubercolosi e dell’assicurazione contro la disoccupazione
involontaria “.
Come è noto, i termini stabiliti dall’articolo di legge citato erano stati ritenuti
dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. 21 giugno 1990 n. 6245) di decadenza,
di tipo peraltro procedimentale, vale a dire finalizzata unicamente a delimitare
l’efficacia temporale della condizione di procedibilità della domanda giudiziaria,
rappresentata dall’attivazione e dall’esaurimento del procedimento amministrativo.
Col successivo art. 6 del D.L. 29 marzo 1991 n. 103, convertito con
modificazioni nella legge 1 ° giugno 1991 n. 166, ritenuto da Corte Cost., con la sent. n.
246 del 1992, di interpretazione autentica dell’art. 47 D.P.R. n.639/70, venne poi
stabilito: “1 – I termini previsti dall ‘art. 47, commi secondo e terzo del D.P.R. 30
aprile 1970 n. 639 sono posti a pena di decadenza per l ‘esercizio del diritto alla
prestazione previdenziale . la decadenza determina l’estinzione del diritto ai ratei
pregressi delle prestazioni previdenziali e l’inammissibilità della relativa domanda
giudiziale. In caso di mancata proposizione del ricorso amministrativo, i termini
decorrono dall ‘insorgenza del diritto ai singoli ratei. 2 – Le disposizioni di cui al
comma precedente hanno efficacia retroattiva, ma non si applicano ai processi che
sono in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto “.
Con l’art. 4 del D.L. 19 settembre 1992 n. 384, i commi secondo e terzo del
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citato art. 47 sono stati successivamente sostituiti dai seguenti: “Per le controversie in
materia di trattamenti pensionistici, l’azione giudiziaria può essere proposta, a pena di
decadenza, entro il termine di tre anni dalla data di comunicazione della decisione del
ricorso pronunziata dai competenti organi dell’istituto o dalla data di scadenza del
termine stabilito per la pronunzia della predetta decisione ovvero dalla data di
scadenza dei termini prescritti per l’esaurimento del procedimento amministrativo,
computati a decorrere dalla data di presentazione della richiesta di prestazione. Per le
controversie in materia di prestazioni della gestione di cui all ‘art. 24 della legge 9
marzo 1989 n. 88, l’azione giudiziaria può essere proposta, a pena di decadenza, entro
il termine di un anno dalle date di cui al precedente comma”.
L’ultimo comma dell’art. 4 ha poi stabilito che le disposizioni indicate “non si
applicano ai procedimenti istaurati anteriormente alla data di entrata i n vigore del
presente decreto ancora in corso alla medesima data “.
Infine, recentemente, l’art. 38, primo comma, lett. d), del D.L. 6 luglio 2011 n.
98, convertito in legge n. 111 del medesimo anno, ha aggiunto al citato art. 47 un ultimo
comma, del seguente tenore: “Le decadenze previste dai commi che precedono si
applicano anche alle azioni giudiziarie aventi ad oggetto l’adempimento di prestazioni
riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito. In tal caso il termine
di decadenza decorre dal riconoscimento parziale della prestazione ovvero dal
pagamento della sorte”, precisando al quarto comma che “Le disposizioni di cui al
comma 1, lett c) e d) si applicano anche ai giudizi pendenti in primo grado alla data di
entrata in vi-gore de/presente decreto “.
Questo essendo il quadro di riferimento normativo, la giurisprudenza
consolidata, pur tra frequenti contrasti, di questa Corte (da ultimo, sulla base di Cass.
S.U. 29 maggio 2009 n. 12720 – che ribadisce le tesi della prece-dente Cass. S.U. 18
luglio 1996 n. 6491-, cfr., ad es., Cass. 20 gennaio 2010 n. 948 e 26 gennaio 2010 n.
1580) era, per quanto qui interessa e fino alla citata recente novella del 2011, nel senso
della inapplicabilità della decadenza alle domande di adeguamento di prestazioni
previdenziali già riconosciute e liquidate solo parzialmente dall’ente previdenziale.
Infatti le sezioni unite di questa Corte, con la sentenza n. 12720 del 29 maggio
2009, componendo un contrasto di giurisprudenza insorto nell’ambito della sezione
lavoro, avevano affermato che “La decadenza di cui al D.P.R. 30 aprile 1970, n. 639,
art. 47 – come interpretato dal D.L. 29 marzo 1991, n. 103, art. 6, convertito, con
modificazioni, nella L. 1 giugno 1991, n. 166 – non può trovare applicazione in tutti
quei casi in cui la domanda giudiziale sia rivolta ad ottenere non già il riconoscimento
del diritto alla prestazione previdenziale in sé considerata, ma solo l’adeguamento di
detta prestazione già riconosciuta in un importo inferiore a quello dovuto, come
avviene nei casi in cui l’Istituto previdenziale sia incorso in errori di calcolo o in errate
interpretazioni della normativa legale o ne abbia disconosciuto una componente, nei
quali casi la pretesa non soggiace ad altro limite che non sia quello della ordinaria
prescrizione decennale”. Recentemente, peraltro, la questione era stata nuovamente
rimessa da un collegio della sezione lavoro, con ordinanza interlocutoria depositata il 18
gennaio 2011, n. 1071, alle sezioni unite di questa Corte, sulla base del rilievo che
l’interpretazione prevalente non apparirebbe giustificata dal tenore lettera-le e dalla
considerazione delle finalità della norma, la quale riguarderebbe viceversa ogni tipo di
azione in materia di prestazioni previdenziali. Intervenuta, tra l’ordinanza interlocutoria
di rimessione alle sezioni uni-te della Corte e la data dell’udienza avanti a queste ultime,
la citata novella di cui all’art. 38, primo comma, lett. d) del recente D.L. 6 luglio 2011 n.
98, è stata quindi disposta la restituzione degli atti alla sezione lavoro, sulla base della
considerazione della necessità di valutare la persistenza del proposito di investire della
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questione le sezioni unite, alla luce della valutazione della eventuale incidenza delle
norme di legge citate sulla interpretazione del l’art. 47, vigente prima di essa.
Ciò premesso, non può non rilevarsi che la nuova disciplina, esprimendo il
proposito del legislatore di modificare in materia, con una limitata efficacia retroattiva,
la regola preesistente, quale consolidatasi per effetto delle recente pronuncia delle
sezioni unite del 2009, conferma indirettamente la corrispondenza di quest’ultima
all’originario contenuto dell’art. 47, nel testo vigente fino alla novella del 2011.
L’autorità del precedente arresto interpretativo delle sezioni unite della Corte e
l’indiretta conferma della sua correttezza proveniente dallo stesso legislatore convincono
in definitiva il collegio della inapplicabilità dell’art. 47 del D.P.R. 30 aprile 1970, n.
639, prima delle integrazioni apportate dell’art. 38 del D.L. n. 98 del 2011, al caso di
richiesta di riliquidazione di prestazioni previdenziali solo parzialmente riconosciute e
liquidate dall’ente previdenziale».
Ritiene il Collegio. invero, anche ad ammettere l’inapplicabilità del cit. art. 47,
prima delle integrazioni apportate dall’art. 38 d.l. n. 98/2011, all’ipotesi di richiesta di
riliquidazione di prestazioni previdenziali solo parzialmente riconosciute e liquidate
dall’ente previdenziale, conformemente agli ultimi arresti di questa S.C. (v. sentenze
8.5.12 n. 6959, 9.5.12 nn. 7083, 7084, 7085, 7086, 7087, 7088, 7089, 7090, 7095,
10.5.12 nn. 7123, 7124 ed altre ancora), nondimeno resta l’assorbente rilievo
dell’insussistenza del diritto all’inclusione della voce denominata “quota di TFR” nella
retribuzione da prendere a base per la liquidazione dell’indennità di disoccupazione
agricola e ciò alla stregua della ormai consolidata giurisprudenza di questa S.C. (v., da
ultimo, Cass. n. 202/2011 e numerose altre conformi alla precedente sentenza n.
10546/07), secondo cui, ai fini della liquidazione delle prestazioni temporanee in
agricoltura, la nozione di retribuzione definita dalla contrattazione collettiva da porre a
confronto con il salario medio convenzionale, ex art. 4 d.lgs. n. 146/97, non comprende
il trattamento di fine rapporto.
Le considerazioni svolte dal relatore, condivisibili nella parte in cui escludono
nel caso di specie il ricorrere della decadenza di cui all’art. 47 d.P.R. n. 639/70,
nondimeno suggeriscano la cassazione della sentenza che tale decadenza ha
erroneamente applicato e la decisione nel merito ai sensi dell’art. 384 co. 2° c.p.c.
A tal fine nulla osta a che si rilevi d’ufficio la questione — rimasta sullo sfondo,
ma non trattata dall’impugnata sentenza — relativa all’inserimento o meno della quota di
TFR nella base di computo dell’indennità di disoccupazione agricola (questione per la
quale si rinvia alle osservazioni contenute nella relazione).
Infatti, la Corte territoriale ha dichiarato la decadenza in virtù dell’applicazione
del criterio della ragione più liquida, senza esaminare la spettanza del diritto oggetto di
lite, sicché si è in presenza non già di giudicato implicito sull’esistenza del diritto
oggetto di pretesa, ma di cd. assorbimento improprio, che non importa onere di
impugnazione da parte del soggetto vittorioso in appello.
Infatti, com’è noto, il criterio della ragione più liquida non segue l’ordine logicogiuridico delle questioni, ma quello per così dire “economico” del risparmio di energie
processuali, cioè dell’uso della ratio decidendi già pronta e di per sé sufficiente (sulla
tecnica dell’assorbimento cd. improprio in virtù dell’uso del criterio della ragione più
liquida cfr., ex aliis, Cass. n. 17219/12; Cass. n. 7663/12; Cass. n. 11356/06; Cass.,
30/3/2001, n. 4773; anche la dottrina è concorde sull’ammissibilità dell’applicazione
della ragione più liquida e sul fatto che essa non importa formazione di giudicato
implicito sulle questioni non esaminate e che non ne costituiscano indispensabile
presupposto logico-giuridico).
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DEPOSITATO IN CANCELLERIA

Ancora nel senso dell’ampiezza dei poteri di rilievo d’ufficio da parte del
giudice cfr., di recente, Cass. S.U. 4.9.12 n. 14828, secondo cui il giudice può rilevare
d’ufficio ogni forma di nullità del contratto (sempre che emerga ex actis e che si tratti di
nullità non soggetta a regime speciale, come le nullità di protezione, il cui rilievo è
espressamente rimesso alla volontà della parte protetta) pur quando le parti in causa
stiano discutendo della risoluzione del contratto medesimo.
A maggior ragione, dunque, nelle controversie sull’inclusione della quota di
TFR nella base di computo del trattamento di disoccupazione agricola si può rilevare
d’ufficio l’inesistenza del diritto, anche perché la giurisprudenza di questa S.C. è ampia
e costante nell’affermare che nel giudizio di legittimità è preclusa la proposizione di
nuove questioni di diritto solo quando esse presuppongano o comunque richiedano
nuovi accertamenti o apprezzamenti di fatto, mentre deve ritenersi consentito dedurre o
rilevare per la prima volta in tale sede questioni di diritto che lascino immutati i termini,
in fatto, della controversia così come accertati e considerati dal giudice del merito (v.,
ex aliis, Cass. n. 20005/05; Cass. n. 9812/02; Cass. n. 3881/2000; Cass. n. 13256/99;
Cass. 6356/96).
Va, poi, aggiunto che la decisione nel merito (come quella ex art. 384 co. 2°
c.p.c.) è sempre una decisione sul rapporto e quest’ultima, a sua volta, non può andare
disgiunta dal potere di rilevare d’ufficio le questioni di diritto o le mere norme
necessarie a risolvere la controversia.
Da ultimo, nel rilevare d’ufficio l’inesistenza del diritto non si ravvisano
problemi di mancato rispetto del contraddittorio o di cd. sentenza della terza via perché,
trattandosi di questione di puro diritto, trova applicazione l’insegnamento di Cass. S.U.
30.9.2009 n. 20935 e di Cass. 23.8.11 n. 17495, secondo cui il divieto di sentenza cd.
della terza via (ed il conseguente obbligo di provocare il contraddittorio mediante il
meccanismo di cui al co. 3° dell’art. 384 c.p.c.) sussiste solo quando, decidendo nel
merito, il giudice rilevi una questione di fatto o mista di fatto e di diritto, mentre nel
caso presente l’inesistenza del diritto all’inclusione della quota di TFR è questione
esclusivamente giuridica.
In conclusione, il ricorso va accolto, non ritenendosi applicabile nel caso di
specie la decadenza di cui all’art. 47 d.P.R. n. 639/70, con conseguente cassazione della
sentenza impugnata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può
essere decisa nel merito con rigetto della domanda di inclusione della quota di TFR nel
trattamento di disoccupazione agricola.
La problematicità della materia del contendere e l’esito complessivo della lite
consigliano di compensare per intero fra le parti le spese dell’intero giudizio.
P. Q. M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel
merito, rigetta la domanda di inclusione della quota di TFR nella base di calcolo
dell’indennità di disoccupazione. Compensa le spese dell’intero processo.
Così deciso in Roma, il 7 novembre 2013

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